Il fuoco e la neve

di Saverio D’Eredità

Avevo salito il canalone nord del Siera esattamente dieci anni fa, al termine del mese di febbraio più memorabile che si ricordi e poco dopo aver saputo che aspettavamo Francesca. Questo canale, lineare e ben visibile in tutta la sua traiettoria quando si scollina a Cima Sappada, è senza dubbio tra quelli esteticamente più belli in Carniche, immancabile nel carnet dello scialpinista. Non troppo difficile, nemmeno banale, imbattibile dal punto di vista ambientale ed estetico: aperto perfettamente tra il corpo principale del Siera e del suo fratello “Piccolo”, mostra una forma regolare che dal conoide finale man mano si stringe fino all’acuta e spesso invalicabile forcella. Aggiungeteci il fatto che, quando si sbuca dal canale, si plana letteralmente sulle piste di Sappada e gli ingredienti di una sciata ideale ci sono tutti.

L’avevo percorso 10 anni fa, dicevo, ed in un certo senso è stato come tornare a chiudere la linea di un cerchio. Venti anni prima, infatti, mettevo per la prima volta gli sci sui campetti di Cima Sappada e poi sulle piste del Siera e quel canale ce l’avevo sempre davanti agli occhi: nei momenti in seggiovia – spesso da solo – che erano rilassanti solo in parte perché le partenze e gli arrivi mettevano a dura prova la mia goffaggine. Era davanti agli occhi – spesso distratti – mentre aspettavo di eseguire gli esercizi impartiti dal Maestro – il “baffone” con gli occhiali a specchio sempre con la battuta tagliente e vagamente razzista sulla bocca (ah, cosa si direbbe oggi!). Era sempre lì. E io ero sempre a terra. A maledire tutto, ma non lo sci. Sentivo, nello sci, qualcosa di implacabile ma onesto. Che non potevo che rispettare, pur subendolo.

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Dopo la discesa del canale scrissi qualcosa che voleva essere un po’ l’epilogo di una storia di riscatto, in un certo senso Tre Storie – di neve, di sci e di quella strana, insolita, grazia Uno schema classico: il brutto anatroccolo insegna. Fatto il canale, tradotte in parole le sensazioni, come immaginavo non ci sono più tornato. Coincidenze, scelte, piccole ritualità. Quando chiudiamo i conti con qualcosa, mettiamo tutto in una scatola che ficchiamo da qualche parte senza sapere dove ritrovarla. Sappiamo che c’è ma non si sa dove. Chiudiamo i conti, talvolta, semplicemente per non pensarci più.

Risalgo la pista, indurita dal rigelo notturno, mentre man mano il cielo schiarisce e lascia intuire meglio la spolverata notturna. Il Siera ha dalla sua una certa eleganza, non bilanciata però da altre peculiarità che ne farebbero una montagna di prestigio. Le pareti rotte da canali, colatoi, inframmezzati da cenge e pulpiti la rendono disomogenea e poco attraente. Ma quando si spolvera anche solo leggermente diventa d’improvviso seriosa e al tempo stesso conturbante. Transito vicino al Rifugio Siera e costeggio lo skilift, forse in cerca di quei ricordi di ormai trent’anni fa. Certo che la pista è davvero poco pendente, rifletto, poco più di un campetto. Eppure quella volta mi pareva ripidissima. Dove è finito tutto questo? Quella volta che caddi poco prima della fine dello skilift sotto gli occhi divertiti e sarcastici dei compagni, la solita invettiva del Maestro contro la mia incapacità, il piumino verde, gli occhiali appannati, tutto quel mondo ostile, dove si trovano tutte queste immagini adesso? Sono in quella scatola chiusa e messa da qualche parte?

Svolto e punto verso il conoide, sorpreso o forse deluso che di tutte queste sensazioni non rimanga più nulla. Si devono chiudere i conti per arrivare a questo? A questa specie di stasi, di annullamento delle emozioni? Probabilmente è questo quello cui tendiamo. Stare sereni. Stare in pace con il mondo. Deporre le armi e lasciarsi trascinare dalla corrente. È tutto così normale, ora. No alarm/No surprises.

Dove è finito l’occhiale a specchio del Maestro, dove sono le risate di scherno, quel sentirsi soli, esclusi, inadeguati? “E cosa ci fa uno di Palermo sulla neve?”. Quanto hanno pesato queste cose nello sviluppo di una mia identità, quanto nelle mie scelte, quanto nei miei errori? Immagino tutti questi frammenti inabissarsi in un fondale indistinto e opaco, perdere forma e sostanza, non essere che immagini e poi nemmeno quelle. Come i ricordi di Riley in Inside-Out e il suo elefante rosa. Dove saranno ora?

Arriva un punto, risalendo un canalone di neve, in cui tutti sanno che bisogna fermarsi, staccare gli sci e caricarseli in spalla. Comincia il battere traccia. È uno dei momenti che preferisco, anche se non dovrei dirlo che se no la prossima volta mandano avanti me – anche se ci andrei lo stesso. C’è un che di meditativo e al tempo stesso devoto, nell’atto di aprirsi la traccia nella neve. Nel percepire la diversa consistenza della neve, nello scegliere la traiettoria, nel suono cavo del cuore che batte. Il tempo si contrae e dilata a seconda dell’incidere dei passi. Si penetra una dimensione mentale fluttuante per il tramite di una fatica fisica orrenda. Qualcosa che avvicina alle pratiche del misticismo orientale. Io ho invece solo la sensazione di meritarmi davvero qualcosa di questo mondo. Aprendo traccia nella neve. Ansimando in un canale buio alle prime ore del mattino. Devozione e riconoscenza.

Dentro il canalone del Siera – foto S.D’Eredità

Dopo un tratto incassato, in cui i piccoli scaricamenti ci passano sulla testa senza toccarci, il canale si apre leggermente, là dove si intravvede la fine. La differente consistenza del mio passo ci arresta. Ci guardiamo un secondo e senza che si debba dire altro ci fermiamo, scaviamo un piccolo ripiano, poggiamo gli zaini e ci prepariamo a scendere. È bastato un minimo dubbio, il passo diverso, lo sfarinamento della neve che cambia suono, per farci invertire la rotta. Da cosa viene tutto questo? Da quale coscienza collettiva, da quale substrato di esperienze? Lo abbiamo attinto da quel fondale dove si sono sedimentati i ricordi, le paure, le emozioni? La rinuncia non pesa. È un atto dovuto. Riconciliazione. Sarebbe stato così anche dieci anni fa?

Le procedure prendono più tempo del solito, non sono tra i più abili nei cambi assetto e vedo i compagni già pronti. Sarà una bella sciata, questo 30 centimetri di polvere ce li siamo guadagnati. E’ sempre stato così o lo siamo diventati? Qualche volta penso che accumuliamo esperienze per farne sempre meno. Praticamente miglioriamo non per andare avanti, ma per tornare indietro. La cosa strana è che non è stata la paura. Nessuno di noi ha avuto veramente paura. Era solo ciò che andava fatto. Conservazione della specie. Forse è questo che in definitiva orienta i nostri gesti, i nostri pensieri. Andare avanti, per tornare indietro. Riportare indietro qualcosa. Il fuoco.

Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

(La Strada – di Cormac McCarthy)

Risalita a Forcella Rinsen – foto C.Betetto

Alcuni giorni fa ho sciato una mattinata in pista con Francesca e Graziella. Era la prima volta che sciavo insieme a mia figlia per davvero e non sui tappetini dei campi scuola. È stata in una di quelle mattine serene di sole e di pace, che possono accadere anche in uno normale comprensorio sciistico e senza per forza cercare l’intensità della fatica o il piacere del tracciare pendii. Si prende la seggiovia, si guarda attorno, si scia lenti ad aspettarsi. Qualche consiglio normalmente inutile o inascoltato, le brevi soste per decidere quale bivio prendere. Il panino a fine giornata. Quelle giornate in cui ti rimetti in linea, in cui non cerchi niente più che un paio d’ore di sole e di leggerezza e mi rendo conto che difficilmente ci accontentiamo di questo. Ma sappiamo anche che non esisterebbe l’una senza l’altra.

Abbiamo fatto tutte le piste blu anche più volte – del resto, lo Zoncolan non è che offra chilometri di piste ma almeno sono facili e la mattina c’è il sole – qualche stradina, un paio di saltini. Verso la fine delle ore di skipass, dondolando in seggiovia verso il “cubo” in cima ho notato come la “2” fosse pressoché deserta. “Potremmo fare questa, Franci, cosa dici” le ho chiesto già sapendo che avrebbe detto di no. Non insistere. Non imporre. Non proiettare la tua immagine sui tuoi figli. Non fare realizzare a loro i tuoi desideri. Esegui. Conduci. Non voltarti indietro. Ho sempre cercato di ripetermi questi comandamenti, che non credo si trovino in nessun decalogo per padri o in corsi di genitorialità. Io devo andare avanti. Devo solo aprire la strada. Saranno loro a percorrerla, se vorranno.

“E’ una rossa?”

“Sì, ma è larga, non è difficile. È come una blu solo più lunga”

Francesca guarda sotto, mentre da un pilone all’altro fuggiamo verso il cielo.

“Va bene, facciamo questa”

Quindi inizia tutto di nuovo così? Nuovamente una seggiovia, una linea, una traccia lasciata nella neve?Silenzio. Alzo la sbarra, una spinta, scendiamo.

Dopo alcune curve facili, arriva il primo muretto. Mi volto a guardarla mentre punta i bastoncini, si abbassa, imposta la curva sulla base del suo piccolo bagaglio di esperienze. Acquisisce una postura. Interagisce con il mondo. Capisco che non posso fare nulla. Non devo fare più nulla.

Posso solo andare avanti. La neve di mezzogiorno è pesante, piccoli mucchietti costellano la pista come i buchi delle talpe. La sciata diventa faticosa.

“Segui la mia traccia, Franci: scia dove passo io così porto via un po’di neve ed è più facile”.

Non posso insegnare. Non devo insegnare. Io posso solo aprire una strada. Educare. E-ducere: trarre fuori. Allevare. Questo è il mio ruolo. Questa la mia missione. Il fuoco. Devo tenere acceso il fuoco. Dopo altre tre curve mi fermo. Non segue le mie tracce, ma percorre una sua linea. Si ferma, fa fatica. Ogni tanto spazzaneve. Non cade. Persiste. Mi sembra di intravvedere, nella sua cocciuta ostinazione (nel fallire, nel riuscire, nel provare) un piccolo filamento del mio DNA. Ero anche io così? Per questo sono ancora qui? Origine della specie.

Procediamo di muretto in muretto, ora fermandoci. Ogni tanto affiorano i nervi e la stanchezza. Ma siamo due mondi, due universi separati. Io non posso entrare nel suo, posso solo assecondarne la forza. Lo sci è solitudine. Mi allontano appena in tempo da un piccolo pianto, proseguo sulla mia linea, ogni tre curve mi fermo. Dove finirà questo momento in lei? Dove finiranno questi ricordi, si faranno opachi, un giorno forse non le diranno più niente. Sarò ai suoi occhi quello che fu per me il baffuto e sarcastico maestro sappadino? O un padre egoista che pretende dai figli ciò che lui non è riuscito a fare? Che compensa su di essi le proprie mancanze? Evoluzione della specie.

Ci sono giorni in cui – più di altri – realizzi cosa vuol dire essere padre. Questo è uno di quei giorni. La guardo scendere ora sulla mia traccia, ora aprendo la sua e penso solo che siamo qui perché mi ha chiesto lei di portarla a sciare. Perché è voluta scendere per la 2, anche se era rossa. Perché è iniziato tutto di nuovo.

Sciando il conoide alla fine del canalone – foto C.Betetto

Qualche giorno fa ho trovato un commento di Francesca alla “Pasqua” di Guido Gozzano “se c’è la vita, c’è l’impossibile”. Questa strana frase mi è risuonata in testa per giorni, e ad ogni passo mentre salivamo il canalone. E’ questo dunque, il senso del fuoco, il senso della neve?

Si arriva ad un certo punto – a quel punto, quello in cui ti fermi guardi il compagno e semplicemente scendi – proprio perché lo scopo in noi è un altro. È mettere a frutto tutto quello che siamo stati. Issarci su quel fondale nebuloso dove sono precipitati i ricordi senza che questi ci portino in giù. Abbiamo sperimentato il limite. Siamo le nostre esperienze. Siamo il fuoco che deve passare attraverso di noi. Siamo il desiderio di aprire quella traccia di nuovo. Siamo l’impossibile.

Salendo il canalone del Siera, inverno 2014

Pompelmo

di Saverio D’Eredità

Get what you give dei New Radicals è quel genere di canzone che appena parte ti viene subito da alzare il volume. E’il pezzo perfetto per ogni genere di compilation, in qualunque punto tu la piazzi ti fa svoltare. Una canzone pop-rock pulita ed onesta, ottimista anche se un po’ ruffiana con un tocco di sfrontatezza. Get what you give era il brano di apertura della prima compilation che avevo fatto per Graziella ai tempi. Già. Ai tempi.

Non so perché mi viene in mente questa canzone adesso, fermo sugli sci che guardo Luca accingersi a far la prima curva e – ne sono abbastanza certo – prossimo a farla piuttosto male. Tanto io farò uguale se non peggio e almeno stavolta la colpa non è solo nostra, ma di questa neve orrenda, un po’crosta e un po’pappa che devi essere bravo, ma bravo bravo, a sciarci in modo che non si veda quanto fa schifo. E non è il nostro caso.

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Arrampicare non è divertente

di Saverio D’Eredità

Arrampicare non è divertente. Al più potrà essere appagante, se volete. Ma divertente no. Arrampicare è sofferenza. Stringere tacche, contrarre gli addominali, stringere il culo, pensare a non cadere. Insomma, di base cerchi di fare tutte queste cose insieme per non morire. Spiegatemi come fa, ad essere divertente. Arrampicare spesso è frustrante. Perché ti devi allenare moltissimo per ottenere pochissimo. E allenarsi, si sa, non è mai divertente. Anche perché poi ti vengono a spiegare che arrampicare “è tutta testa, non serve allenarsi!”, ma a dire il vero non ho mai visto nessuno di quelli che sostenevano questa tesi scalare sotto il 7a. Di certo è sia una roba di testa che di muscoli. Insomma, una roba ingestibile. Quando hai il fisico, non hai la testa. Quando hai la testa, non ti tieni. Raramente hai tutte e due. Quando succede, la stagione di solito è finita.

No, arrampicare non è divertente. Sciare, è divertente. Anche se su questo con l’amico Nicola potremmo discutere fino alla fine dei nostri giorni, almeno finché io non avrò imparato ad arrampicare e lui a comprendere il senso profondo delle stagioni. Ma molto meglio discutere di questo che non darci ragione a vicenda o ridurci ad una serie di fuck-yeah-grande vez. Si, lo so che dire queste cose non è molto popolare. Ma arrampicare una volta mica faceva tanto figo, come adesso. Se tiravi pacco alla serata con gli amici o peggio mollavi il dopocena ad una certa “perché domani mi alzo alle 5” ti prendevano per il culo a morte. Il risultato era che si dormiva due ore per notte per barcollare verso gli attacchi, ma certo figo e divertente non lo era mai. E poi, chi l’ha detto che ci si deve divertire per forza, o che tutte le giornate sono meravigliose e quelle cose lì che ci leggiamo e ci diciamo ogni lunedì? Io per esempio, ho passato un sacco di giornate di merda, arrampicando. Ho avuto paura, mi son dato dell’idiota, ho rimpianto di non essermi allenato abbastanza o di aver pensato troppo allo sci o alla neve. Mi son sentito inadeguato, ho litigato con me stesso, qualche volta con gli altri. Ho tirato fuori il peggio di me. Ok, ora so che mi verrete a dire che dovrei rilassarmi, cercare il flow, la mindfulness o certe cose new age che non si capisce perché adesso siano immancabili, invece ai tempi di Comici ne ignoravano l’esistenza e mi pare che arrampicassero alla grande uguale. Che se fosse divertente, arrampicare, arrivando in falesia vedresti gente felice invece è più facile sentire una sinfonia di grugniti e bestemmie o gente che ti guarda storto se non sei del posto, occupi una certa via o – sia mai – soffi il progetto a qualcuno. Insomma, arrampicare non è divertente, o almeno io non mi diverto tanto. Di solito cerco solo di non farmi male. Nel mezzo, invece, mi perdo in mille ragionamenti complicati, passo da cose serie tipo dove piazzare la protezione a cose inutili come la politica internazionale, intervallando ricordi, ora nitidi ora sbiaditi. Persone, volti, situazioni. Una festa del liceo, un amico che non sento da tempo. L’ultima mail mandata il venerdì o una qualche rogna da risolvere il lunedì. Mentre nel cervello girano in loop ritornelli di canzoni idiote, una playlist di scarsa qualità e quasi mai dei miei pezzi preferiti. “Pensa se adesso voli con in testa It’s my life di Bon Jovi o Girls just wanna had fun di Cindy Lauper, pensa che brutto” mi dico. Ecco, cose così. Niente eclatanza del gesto, niente flow. Solo pensieri confusi e disordinati.

Saverio D’Eredità sul traverso della via Tissi alla Torre Venezia – foto C.Piovan

Qualche volta credo che l’arrampicata mi piaccia nonostante tutto ciò. E che la soddisfazione non stia tanto nel bel gesto, nell’appagamento edonistico della prestazione, quanto piuttosto nel fatto di esserci riusciti – nonostante tutto. Dell’arrampicata amo i dettagli. La scomodità condivisa di una sosta. Una presa più grande nel posto giusto (capita, raramente, ma capita). Scoprire un chiodino là dove speravi ci fosse, il compagno che in fondo ti perdona tutto e i silenzi in mezzo. La Storia, anche. Eppure quando ci sei dentro, alla Storia ci pensi poco. Non stai mica passeggiando in un museo. Quella volta sulla Comici alla Cima Grande, per dire, pensavo solo a saltare fuori prima che le braccia cedessero. Non mi facevo i selfie con i chiodi vecchi o i cordini laceri. C’è l’ambiente, direte. Ma anche quello ce lo raccontiamo. Conosco modi migliori di fare turismo naturalistico senza avere come obiettivo della giornata una catena in inox o dei cordoni marci. Insomma, non c’è una sola cosa che renda davvero credibile questa scelta di arrampicare. Eppure, anche se arrampicare non è divertente, talvolta credo sia necessario. Come un rito purificatore, o piuttosto un grande filtro, agisce sui quei pensieri confusi, sul mio fare disordinato, ricollocando tutto nella giusta prospettiva.

Anche oggi , ad esempio. Oggi è una grande giornata. Duplo risale lentamente i pacifici tornanti che salgono alla Rudnig Alm e noi non abbiamo fretta. Forse pioverà, ma più tardi. Non ci preoccupiamo. Ora non ricordo bene cosa ci spingesse gli anni passati ad andare incontro alla paura di proposito e immancabilmente trovarla, alla fine. Il copione era scritto, ma facevamo finta di non conoscerlo. Oggi è una grande giornata, adesso c’è il sole, dopo chissà. Oggi non spetta a noi, riprendere Berlino. Scavalcata la forcella e gli impianti silenti, ci si addentra in questa valletta sospesa, aperta in modo discreto sulle Giulie e circondata da monti di perla. Pareti che ti ingannano ogni volta. Paiono gigantesche e invece sono appena più alte di un piccolo grattacielo. Si mostrano lisce e verticali e invece offrono generose appigli e buchi e gradini, in un ricamo di roccia che sai prezioso.

Arrampichiamo, per essere all’altezza dei bambini che siamo stati. Per non deludere la parte irrinunciabile e stupida di noi stessi. Arrampichiamo per contraddirci, qualche volta, perché in quella contraddizione troviamo un briciolo di verità. E anche se oggi una nuvola è la scusa per tornare, la realtà è che per rimettere tutto in prospettiva, talvolta basta la sensazione della pietra sotto le dita e dell’erba nuova sotto i piedi. C’è sempre tempo, in fondo, per riprendere Berlino.

Precario

di Saverio D’Eredità

Ho chiesto al Batti delle foto elettrizzanti della gita dell’altra volta. Anche se era stata una giornata un po’ così, senza arte né parte, ero certo che il Batti la sua foto “alla Batti” me l’avrebbe tirata fuori. La classica dello sciatore nell’istante della curva, un poco grandangolata per dare profondità e un po’ di “wow”, con il soggetto nella terza parte dell’inquadratura e quel bilanciamento del bianco tecnicamente ineccepibile, ma vagamente insipido. La classica foto alla Batti – che ahilui – non può mai contare su performer di riguardo, gente bene in piega, con lo spruzzo, colorata, arrogante, sbarazzina, che sa sciare, che sa fare, che sa tutto. No, lui c’ha gente come noi, il Biondo al più per aggiungere un tocco da south rock americano, altrimenti il Pasc o me. Me che son il peggiore anche perché non gli faccio mai la curva dove dice lui per la foto. E nemmeno dove dico io. La curva viene dove deve venire, io sta cosa ancora non la domino bene, quindi la foto viene, inoppugnabilmente, male.

Ma la foto elettrizzante, al Batti, l’avevo chiesta perché volevo parlare del Leupa. Anzi a dire il vero la gita l’avevo approvata “così” potevo parlare del Leupa. Sapete, sto un po’in fissa con sta cosa che se non parlo io delle montagne, specie quelle un po’ diciamo “di nicchia”, poi non ne parla nessuno. E quindi su Google non si trovano. E quindi praticamente è come se non esistessero. Solo che il Leupa / Lopa in sloveno, con quella quota facile da ricordare (2402, bel numero), non ha proprio niente di interessante. Non è brutta, forse al più anonima. Più che brutta è “non-figa” che tutte le montagne pare siano fighissime e invece no, alcune non sono niente. A parte essere montagne, ovviamente. Ma quelle del Canin, poi più che montagne-montagne sono tipo cippi lungo la strada. Tutte circa uguali, squadrate, tarchiatelle, striate, poco alte (non basse, solo poco alte). Il Leupa pure è così. A forma di rettangolo, con una cresta piatta come cima, e le regolari stratificazioni calcaree che a me, magari un po’prosaicamente, ricordano le pieghette dell’omino Michelin. Tutte le cime del Canin son un po’come l’omino Michelin, quel fisico non slanciato, pacioccoso diciamo ma pur sempre ingombrante che se si sposta fa un casino.

Il Batti di foto me ne tira fuori due, pure un po’deluso che non c’era molta ispirazione (a nord, con il cielo terso, la poca neve, le solite cime, uffa). In una ci sono io, un puntino rosso in mezzo all’altipiano che punto dritto verso la nord del Leupa. Probabilmente in quell’istante, stavo pensando a cosa dire del Leupa, quindi potremmo dire che è una foto matrioska, oppure aristotelica a seconda del vostro gusto, ma in quel momento a me venivano in mente più che Leupa Aristotele e Matrioske, gli influencers. Che, poracci, devono sempre dire qualcosa della loro giornata – tipo me, adesso, solo che non ci vado a fare la spesa con ste cose che vi racconto – e deve essere una vitaccia, eh, sempre qualcosa da dire di una giornata.

Altopiano del Poviz – verso il Leupa – foto M.Battistutta

Vabè visto che non son influencer scrivo solo se mi pare oppure ho una mezzora libera, o voglio che il tag “Leupa” compaia più spesso su Google. Solo che il Leupa non ha niente di interessante. La parete, abbiamo detto. Banconate calcaree sia compatte che fragili, che a mio modesto quanto insindacabile modo di vedere, sono praticamente inscalabili. Si si, litighiamo pure però prima andate sul Leupa e io vi guardo da sotto. Chiamiamo anche i maghi del misto o del dry, una Angelika Rainer se si degna di venire qua e vediamo. Se agganci una picca una. Se ti proteggi a meno di 25 metri. Se quello che metti come protezione tiene più della vostra giacca. Vediamo. Tutti bravi. E poi: tiè c’è il Leupa. Che Buscaini, secondo me, è andato in fiducia quando gli hanno detto che c’erano 2 vie. Secondo me manco è andato a vedere che diciamolo, su, chi vuoi che vada a scalare 150 metri di quella roba lì. Io il canale friabile e la cengetta a sinistra e lo spigolo etc mica li ho visti. Ma lo capisco, il Busca, anche lui ogni tanto ha spuntato la lista perché andava di fretta magari. Peccato perché io dal Busca tiro sempre fuori robe interessanti, anche con 3 nomi una data e un “1 chiodo lasciato” che ci ricamo su le favole. Invece il Leupa niente. Ha due creste, sappiatelo. Una Est, una Ovest (facile). Non ha un versante sud (si ovvio che ce l’ha, ma voi fate come se non). Due normali. Una Est, una Ovest (facile). Quella ovest, “Celo”! Un inverno di anni fa, con Stief e Cricca, di quei tempi che la cima era il must. Che ti presenti “sciallo” e dopo neanche 5 minuti sei lì che ti muovi tipo gli acrobati di Oceans’eleven. Cengette spioventi, ghiaccietto, canalino-ok, uscita-non ok, cresta – sospiro – giù subito e piano e aspetta che vedo di piantare un chiodo valà – ah guarda c’è! (1 chiodo lasciato, avevi ragione Busca) – e via di doppia sul chiodo che ti pare un pilone. La est mi mancava, sarebbe pure la normale, ed è l’unica traccia digitale in Google (grazie Raffaello!). Cresta a tratti esposta, passaggio di II che d’inverno sarà una esaltante goulotte di ben 3 metri, cresta saliscendi. Facile. E qui veniamo alla seconda foto. Nella seconda foto ci sono sempre io, che traverso con fare delicatissimo e l’occhio sgranato sta cengetta che in realtà è pure larga eh, e avrà un saltino che so di 1 metro? e poi sotto c’è neve. Ma io paio sospeso sull’abisso. In quella foto c’è tutta la mia, la nostra, la sua (del Leupa), precarietà. Sarà il movimento che il Batti ha preso, sarà il casco, lo sfondo non lo so, ma lì c’è tutta la precarietà di questo nostro andare, di questo nostro essere. Se solo ci fosse più neve. Se solo sapessi se posso calarmi. Se solo capissi perché ci tenevo tanto a parlare del Leupa. Questo monte che tutti fingono di conoscere (“guarda! quello è il Leupa” dicono indicando un punto tra la Cima Confine e il Sart, che magari l’hanno letto su Peak Finder un attimo fa) e nessuno ci è stato mai. Questo monte che nessuno si fila, ma poi, se non c’è o se un giorno non lo vedi, ti dispiace. Come l’amico – che chiameremo non so, Fred – che c’è sempre a tutte le serate, ma non dice molto, non è antipatico, nemmeno simpatico, ma si ricorda del tuo compleanno e magari ti porta a casa quando sei sbronzo. Fred c’è. Il Leupa c’è. Ma se una volta non lo trovi ci stai male.

Però senti questa precarietà, questo senso di qualcosa che non sai mai quanto dura. Me lo si legge in faccia, nella piega del ginocchio, nelle mani che scorrono la roccia ed è precaria anche lei. E quindi non hai certezze più.

Sulla cima non ci siamo andati, poi. Era appunto un po’troppo precaria, quella poca neve, quel poco ghiaccio, quel poco tutto, anche la voglia magari. Siamo andati per poterci ricordare questa montagna e ne siamo tornati con meno certezze di prima. La montagna, a me, altro che fiducia in sé stessi e quelle cose che ci raccontano, mi da sempre meno certezze. Queste poi, mai. Ma forse è proprio questa assenza a rendere tutto molto interessante. E penso di nuovo agli influencers, che sono sempre certi di tutto, hanno sempre qualcosa da dire, mentre io oggi mi tengo stretta questa foto, questa precarietà che dovremmo sempre avere a cuore, come le montagne che nessuna sa dove sono, eppure ci sono sempre. A fare da sfondo. A portarci a casa.

Nei pressi di Forca Sopra Poviz, verso la cresta del Leupa – foto M.Battistutta

Cicale

di Saverio D’Eredità

Se aprite un libro di fiabe per bambini noterete come gli animali possano trovarvi un riscatto dalla loro condizione di (presunta) inferiorità con l’essere umano. Quale specchio capovolto della realtà, in quelle storie fantasiose ci addentriamo in un mondo fatto di personaggi curiosi: asini intellettuali, gufi dottori, simpatici serpentelli e affidabili topolini. Però c’è un animale che se la passa male praticamente sempre, almeno dai tempi di Esopo. La cicala.

Fateci caso, la cicala se la passa malissimo. Non solo ne esce regolarmente sconfitta dall’impietoso confronto con quella rompicoglioni saccente della formica. Ma viene pure sbeffeggiata, dipinta come una bohemien, vestita di stracci e robe logore, pure un poco svampita e magari scroccona. In questo mondo che esalta la formica, la cicala viene costantemente derisa. Pure nelle fiabe.
Non so perché sto pensando alle cicale, forse è il sole sulla testa che pare estate in questo vallone che pare un calderone. Forse penso alle cicale perché mi viene più naturale solidarizzare con coloro che vengono derisi, insultati o degradati.
Io sto con le cicale, insomma.
Anche se da bambino, devo dire, anche io non sopportavo le cicale. Passavo le ore – quelle ore senza sonno nel dopo pranzo estivo, di sole implacabile, sprofondate nel silenzio immoto rotto dallo stridio di un canto che pareva un pianto – a dar loro la caccia, tirando sassi contro i pini sperando di zittirle. In realtà, non volevo proprio ucciderle, quanto piuttosto vederle, le cicale. Voi le avete mai viste le cicale?

“Sono come dei grilli, ma non verdi”

“Come dei mosconi giganti, ma non così brutti”

Mistero su queste cicale. Sentirle, ma non vederle, era insopportabile. Forse sto con le cicale perché la loro inutilità oggi mi assomiglia.
Da un paio d’ore mi sto chiedendo infatti quando arriva questa forcella e soprattutto per cosa sto facendo tutta questa fatica. È una domanda che ritorna ogni volta che mi trovo a galleggiare con queste due assi sotto e ai piedi. E in particolare a primavera.
In fondo in fondo, me lo sapete spiegare a cosa serve, sciare?
Per dire, oggi, potevi andare in falesia no? E poi non ti lamentare se quest’estate ti trovi appeso come al solito a piagnucolare che non sei abbastanza allenato o che è bagnato o che è unto o che ne so. Potevi pensarci prima.
E poi, dai, ne vale la pena? Con questa sveglia disperata che ti manda in tilt i cicli di sonno tutta la settimana – hai una brutta settimana davanti ci hai pensato?
E proprio quest’anno, poi, che non c’è neve, dove te ne vai?
Eccolo quindi, il coro delle formiche, con i loro consigli che mi ronzano in testa, non mi fanno pensare, non mi fanno osservare.
Insomma, abbiamo capito, sciare non serve a niente.
Non c’è nessun traguardo da tagliare, nessun obiettivo da raggiungere. Non un tempo da battere o un grado da superare.
Un gesto del tutto fine a sé stesso. Un canto di cicale.
Come le cicale riempiono il cielo con il loro canto stridulo e insistente, così gli sciatori lasciano la loro traccia sui pendii stesi nel sole. Una traccia destinata a svanire, frutto di una fatica inutile e di una gioia effimera. Come le cicale gli sciatori disegnano grandi linee pur essendo esseri minuscoli nel teatro della montagna. Come le cicale, qualche volta, sono anche invisibili.
Ma questo è un mondo governato dalle formiche. Gente previdente, che sa sempre cosa fare. Gente organizzata, che non lascia spazio alle incertezze, men che meno alle improvvisazioni. Che detesta questo nostro essere superficiali, scanzonati, questa nostra ostentata leggerezza. Come cicale, si sa, siamo destinati a perdere e pure malamente.
Eppure in questo nostro essere superficiali, talvolta pare di cogliere un’imperscrutabile profondità.
Che non vi sia nulla come questo scivolare che restituisca la montagna nella sua totalità. Soprattutto adesso, che il sole è di nuovo alto all’orizzonte e pare che ogni cosa si rimetta in movimento.
E allora diventa chiaro che tutto in qualche modo si tiene, tutto si compone. L’odore di resina e di bosco nuovo con l’alito gelido della neve, le rocce riaffioranti nel sole e le ultime bave di ghiaccio appese alle pareti.
In questo scivolare c’è la montagna nella sua interezza nel suo essere fatica e gioco, gioia e rivoluzione.

Nei lunghi pomeriggi d’estate, assuefatti da quel canto narcotico, vi erano brevi istanti in cui le cicale si fermavano di colpo, tutte insieme. Senza motivo apparente. Il sollievo non era che breve. Presto ci guardavamo smarriti, come se d’improvviso si facesse vuoto anche il silenzio. Come abissi spalancati in quelle giornate eterne.
E come le cicale, senza saperne il motivo, anche noi ad un certo punto sappiamo che dopo alcune curve dobbiamo fermarci, respirare e guardare. Non c’è una regola, non c’è una ragione. Si scende un pendio, si tracciano linee che tra un istante non esisteranno più, come il canto delle cicale abbiamo la presunzione e il desiderio irrefrenabile di riempire questo spazio immenso. Per poi di colpo fermarci. Voltarci. Alzare le maschere e – senza dire niente- guardarci negli occhi come fosse la prima volta.
Sciare non ha prospettiva né futuro. Ogni stagione finisce e riparte da zero, ogni stagione diversa, ogni neve irripetibile. È questo che lo rende inutile. È questo che lo rende infinito.

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Di piccoli gesti, silenzi e pigrizia

Pensieri sparsi di una reclusione

di Nicola Narduzzi

Dicono che durante questi giorni di quarantena dobbiamo riscoprire i piccoli gesti. Penso sia una delle cose più sensate da fare, suppongo, visto che praticamente ogni altra cosa è vietata e per chi come me vive in un appartamento le occasioni di fare qualcosa di interessante sono davvero limitate.

Il mio piccolo gesto riguarda il solo affacciarsi ad una finestra, o forse sarebbe meglio dire alla finestra. Non una qualunque, bensì quella che mi ha visto crescere per anni da bambino e ora mi vede, spero, da uomo adulto. Sul suo davanzale ho passato lunghe ore da bambino, chiuso in quella che allora era la mia cameretta, appoggiato alla ringhiera per leggere o anche solo per guardare le montagne. Sì, perché una persona qualsiasi potrebbe pensare che Fagagna, dolcemente adagiata sui primi rilievi collinari nel cuore del Friuli, non abbia niente a che fare con le montagne, mentre in realtà esiste un filo invisibile che le lega. Le montagne sono distanti, tuttavia fanno parte della quotidianità di tutti noi, anche se non sempre ne siamo consapevoli. Delimitano il nostro orizzonte quotidiano come in un grande abbraccio, dalle solari montagne di Piancavallo protese verso la laguna veneziana all’immenso scivolo del monte Nero e poi ancora, più giù, verso le alture del Carso che poi si perdono diventando Istria. Continua a leggere

La stanza blu

di Saverio D’Eredità

A Francesca e a Federico
a tutti i bambini che guarderanno il mondo per la prima volta

L’estate era stata inaspettatamente lunga. Avevamo sfruttato tutti i giorni possibili, anche quelli sbagliati. Veniva ora il tempo, di luci radenti ed un certo rammarico. Veniva quel tempo e uno ad uno scioglievo i nodi che mi legavano agli amici. Ricordo ancora l’ultima volta. La schiena addossata alla parete, gli anelli di corda sparsi per terra, nebbie che salivano come una lenta marea e nient’altro da aspettare se non te. Continua a leggere

Estasi e tormento

di Saverio D’Eredità

Ci sono strade che ti portano giù senza che tu te ne accorga. Lo capisci davvero quando avverti che le gambe non spingono più e l’aria si fa più leggera sul viso. Quando la mente si sgombra e il cuore rallenta. E tutto è in qualche maniera come dovrebbe essere. Semplicemente perfetto. Quell’istante è la ricompensa del sacrificio. La spiegazione plausibile ad ogni tua rinuncia. È la ragione per cui. È tutto quello che serve.

Eravamo dunque giunti alla fine delle montagne. Profili indistinti di valli e di dorsali emergono, nel chiarore del giorno che si espande. Sprofondi di valli delle quali più non ci curiamo di dare un nome. Ci sovrasta, ovunque, il Sassolungo. Ultimo frammento della regione dolomitica, faraglione arenato nei docili altipiani dell’Alpe di Siusi.
Eravamo giunti alla fine delle montagne e forse non solo. Pure in questa mattina leggera e luminosa grava la sensazione che qualcosa volga alla fine. È un pensiero che cerchi di scacciare come mosche e invece ritorna. È una maglietta appiccicosa di sudore. Un rumore bianco.
Finiscono le montagne, come pare stia già finendo quest’estate. In questi ultimi giorni lo potevo sentire dentro ogni mattina andando a lavoro, nell’odore di terra che pareva marcire, di campi schiantati dal caldo o da qualche temporale abbattuto senza pietà su alberi innocenti. Continua a leggere

Titoli di coda

di Saverio D’Eredità

Quando arrivò la pioggia, pensai davvero che fosse finita. Ma non finita perché troppo duro o troppo pericoloso. Finita proprio perché non avevamo altro da aggiungere.
Avevamo fatto trecento chilometri per quattro tiri. Trecento chilometri per cercare un triangolo di sole in mezzo a valli brune, incenerite dall’autunno precoce. Nemmeno quella poca neve, sui monti, riusciva a rallegrarci.
Del resto, pensai, quest’anno ho iniziato la stagione un pomeriggio di marzo in coda sull’A4, a chiacchierare con un camionista e un agente di commercio dei problemi della mobilità sulle grandi reti. Due ore di permesso e una di coda. Come pretendevo che andasse, questa stagione? Continua a leggere

La parodia dei Falliti

di Saverio D’Eredità

Un tizio che scala una parete – rigorosamente ambio, rigorosamente corda dall’alto – per poi calarsi direttamente sul suo SUV compatto dove può caricare tutto senza pensieri, pure il cane e la fidanzata.
Una coppietta che si sveglia felice nella monovolume adattata a VAN in mezzo ad un romantico bosco nordico con cappellino di lana colorato stile Manolo (o Manu Chao?).
L’arrogantissimo manager che si collega in conference call, impartisce due ordini e poi sgomma in mountain bike (cagando in testa a tutti, nda).
Una normale prima serata davanti alla TV.
Non sarà un caso che mi trovi in una fascia oraria particolarmente appetibile al target di quel consumatore (probabilmente di là a pochi secondi sarebbe andato in onda Pechino Express o Alle Falde del Kilimangiaro, quindi hashtag #sport#nature#life#outdoor#travel etc).
Dovrei riflettere sul fatto che forse la mia macchinina per nulla crossover e dal bagagliaio molto ordinario mal si addice al mio lifestyle di alpinista della domenica ed amante dell’outdoor. Eh sì, sarebbe ora di cambiarla, se no, che figura ci fai con gli amici se arrivi con la berlina o la citycar?

“Certo che ci sono un sacco di pubblicità con gente che arrampica” commento distrattamente. Ma la mia interlocutrice – con capacità di sintesi e acutezza tipicamente femminili – osserva “bè, non mi stupisce. I nuovi stronzi siete voi”. Continua a leggere