Arrampicare non è divertente

di Saverio D’Eredità

Arrampicare non è divertente. Al più potrà essere appagante, se volete. Ma divertente no. Arrampicare è sofferenza. Stringere tacche, contrarre gli addominali, stringere il culo, pensare a non cadere. Insomma, di base cerchi di fare tutte queste cose insieme per non morire. Spiegatemi come fa, ad essere divertente. Arrampicare spesso è frustrante. Perché ti devi allenare moltissimo per ottenere pochissimo. E allenarsi, si sa, non è mai divertente. Anche perché poi ti vengono a spiegare che arrampicare “è tutta testa, non serve allenarsi!”, ma a dire il vero non ho mai visto nessuno di quelli che sostenevano questa tesi scalare sotto il 7a. Di certo è sia una roba di testa che di muscoli. Insomma, una roba ingestibile. Quando hai il fisico, non hai la testa. Quando hai la testa, non ti tieni. Raramente hai tutte e due. Quando succede, la stagione di solito è finita.

No, arrampicare non è divertente. Sciare, è divertente. Anche se su questo con l’amico Nicola potremmo discutere fino alla fine dei nostri giorni, almeno finché io non avrò imparato ad arrampicare e lui a comprendere il senso profondo delle stagioni. Ma molto meglio discutere di questo che non darci ragione a vicenda o ridurci ad una serie di fuck-yeah-grande vez. Si, lo so che dire queste cose non è molto popolare. Ma arrampicare una volta mica faceva tanto figo, come adesso. Se tiravi pacco alla serata con gli amici o peggio mollavi il dopocena ad una certa “perché domani mi alzo alle 5” ti prendevano per il culo a morte. Il risultato era che si dormiva due ore per notte per barcollare verso gli attacchi, ma certo figo e divertente non lo era mai. E poi, chi l’ha detto che ci si deve divertire per forza, o che tutte le giornate sono meravigliose e quelle cose lì che ci leggiamo e ci diciamo ogni lunedì? Io per esempio, ho passato un sacco di giornate di merda, arrampicando. Ho avuto paura, mi son dato dell’idiota, ho rimpianto di non essermi allenato abbastanza o di aver pensato troppo allo sci o alla neve. Mi son sentito inadeguato, ho litigato con me stesso, qualche volta con gli altri. Ho tirato fuori il peggio di me. Ok, ora so che mi verrete a dire che dovrei rilassarmi, cercare il flow, la mindfulness o certe cose new age che non si capisce perché adesso siano immancabili, invece ai tempi di Comici ne ignoravano l’esistenza e mi pare che arrampicassero alla grande uguale. Che se fosse divertente, arrampicare, arrivando in falesia vedresti gente felice invece è più facile sentire una sinfonia di grugniti e bestemmie o gente che ti guarda storto se non sei del posto, occupi una certa via o – sia mai – soffi il progetto a qualcuno. Insomma, arrampicare non è divertente, o almeno io non mi diverto tanto. Di solito cerco solo di non farmi male. Nel mezzo, invece, mi perdo in mille ragionamenti complicati, passo da cose serie tipo dove piazzare la protezione a cose inutili come la politica internazionale, intervallando ricordi, ora nitidi ora sbiaditi. Persone, volti, situazioni. Una festa del liceo, un amico che non sento da tempo. L’ultima mail mandata il venerdì o una qualche rogna da risolvere il lunedì. Mentre nel cervello girano in loop ritornelli di canzoni idiote, una playlist di scarsa qualità e quasi mai dei miei pezzi preferiti. “Pensa se adesso voli con in testa It’s my life di Bon Jovi o Girls just wanna had fun di Cindy Lauper, pensa che brutto” mi dico. Ecco, cose così. Niente eclatanza del gesto, niente flow. Solo pensieri confusi e disordinati.

Saverio D’Eredità sul traverso della via Tissi alla Torre Venezia – foto C.Piovan

Qualche volta credo che l’arrampicata mi piaccia nonostante tutto ciò. E che la soddisfazione non stia tanto nel bel gesto, nell’appagamento edonistico della prestazione, quanto piuttosto nel fatto di esserci riusciti – nonostante tutto. Dell’arrampicata amo i dettagli. La scomodità condivisa di una sosta. Una presa più grande nel posto giusto (capita, raramente, ma capita). Scoprire un chiodino là dove speravi ci fosse, il compagno che in fondo ti perdona tutto e i silenzi in mezzo. La Storia, anche. Eppure quando ci sei dentro, alla Storia ci pensi poco. Non stai mica passeggiando in un museo. Quella volta sulla Comici alla Cima Grande, per dire, pensavo solo a saltare fuori prima che le braccia cedessero. Non mi facevo i selfie con i chiodi vecchi o i cordini laceri. C’è l’ambiente, direte. Ma anche quello ce lo raccontiamo. Conosco modi migliori di fare turismo naturalistico senza avere come obiettivo della giornata una catena in inox o dei cordoni marci. Insomma, non c’è una sola cosa che renda davvero credibile questa scelta di arrampicare. Eppure, anche se arrampicare non è divertente, talvolta credo sia necessario. Come un rito purificatore, o piuttosto un grande filtro, agisce sui quei pensieri confusi, sul mio fare disordinato, ricollocando tutto nella giusta prospettiva.

Anche oggi , ad esempio. Oggi è una grande giornata. Duplo risale lentamente i pacifici tornanti che salgono alla Rudnig Alm e noi non abbiamo fretta. Forse pioverà, ma più tardi. Non ci preoccupiamo. Ora non ricordo bene cosa ci spingesse gli anni passati ad andare incontro alla paura di proposito e immancabilmente trovarla, alla fine. Il copione era scritto, ma facevamo finta di non conoscerlo. Oggi è una grande giornata, adesso c’è il sole, dopo chissà. Oggi non spetta a noi, riprendere Berlino. Scavalcata la forcella e gli impianti silenti, ci si addentra in questa valletta sospesa, aperta in modo discreto sulle Giulie e circondata da monti di perla. Pareti che ti ingannano ogni volta. Paiono gigantesche e invece sono appena più alte di un piccolo grattacielo. Si mostrano lisce e verticali e invece offrono generose appigli e buchi e gradini, in un ricamo di roccia che sai prezioso.

Arrampichiamo, per essere all’altezza dei bambini che siamo stati. Per non deludere la parte irrinunciabile e stupida di noi stessi. Arrampichiamo per contraddirci, qualche volta, perché in quella contraddizione troviamo un briciolo di verità. E anche se oggi una nuvola è la scusa per tornare, la realtà è che per rimettere tutto in prospettiva, talvolta basta la sensazione della pietra sotto le dita e dell’erba nuova sotto i piedi. C’è sempre tempo, in fondo, per riprendere Berlino.

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Precario

di Saverio D’Eredità

Ho chiesto al Batti delle foto elettrizzanti della gita dell’altra volta. Anche se era stata una giornata un po’ così, senza arte né parte, ero certo che il Batti la sua foto “alla Batti” me l’avrebbe tirata fuori. La classica dello sciatore nell’istante della curva, un poco grandangolata per dare profondità e un po’ di “wow”, con il soggetto nella terza parte dell’inquadratura e quel bilanciamento del bianco tecnicamente ineccepibile, ma vagamente insipido. La classica foto alla Batti – che ahilui – non può mai contare su performer di riguardo, gente bene in piega, con lo spruzzo, colorata, arrogante, sbarazzina, che sa sciare, che sa fare, che sa tutto. No, lui c’ha gente come noi, il Biondo al più per aggiungere un tocco da south rock americano, altrimenti il Pasc o me. Me che son il peggiore anche perché non gli faccio mai la curva dove dice lui per la foto. E nemmeno dove dico io. La curva viene dove deve venire, io sta cosa ancora non la domino bene, quindi la foto viene, inoppugnabilmente, male.

Ma la foto elettrizzante, al Batti, l’avevo chiesta perché volevo parlare del Leupa. Anzi a dire il vero la gita l’avevo approvata “così” potevo parlare del Leupa. Sapete, sto un po’in fissa con sta cosa che se non parlo io delle montagne, specie quelle un po’ diciamo “di nicchia”, poi non ne parla nessuno. E quindi su Google non si trovano. E quindi praticamente è come se non esistessero. Solo che il Leupa / Lopa in sloveno, con quella quota facile da ricordare (2402, bel numero), non ha proprio niente di interessante. Non è brutta, forse al più anonima. Più che brutta è “non-figa” che tutte le montagne pare siano fighissime e invece no, alcune non sono niente. A parte essere montagne, ovviamente. Ma quelle del Canin, poi più che montagne-montagne sono tipo cippi lungo la strada. Tutte circa uguali, squadrate, tarchiatelle, striate, poco alte (non basse, solo poco alte). Il Leupa pure è così. A forma di rettangolo, con una cresta piatta come cima, e le regolari stratificazioni calcaree che a me, magari un po’prosaicamente, ricordano le pieghette dell’omino Michelin. Tutte le cime del Canin son un po’come l’omino Michelin, quel fisico non slanciato, pacioccoso diciamo ma pur sempre ingombrante che se si sposta fa un casino.

Il Batti di foto me ne tira fuori due, pure un po’deluso che non c’era molta ispirazione (a nord, con il cielo terso, la poca neve, le solite cime, uffa). In una ci sono io, un puntino rosso in mezzo all’altipiano che punto dritto verso la nord del Leupa. Probabilmente in quell’istante, stavo pensando a cosa dire del Leupa, quindi potremmo dire che è una foto matrioska, oppure aristotelica a seconda del vostro gusto, ma in quel momento a me venivano in mente più che Leupa Aristotele e Matrioske, gli influencers. Che, poracci, devono sempre dire qualcosa della loro giornata – tipo me, adesso, solo che non ci vado a fare la spesa con ste cose che vi racconto – e deve essere una vitaccia, eh, sempre qualcosa da dire di una giornata.

Altopiano del Poviz – verso il Leupa – foto M.Battistutta

Vabè visto che non son influencer scrivo solo se mi pare oppure ho una mezzora libera, o voglio che il tag “Leupa” compaia più spesso su Google. Solo che il Leupa non ha niente di interessante. La parete, abbiamo detto. Banconate calcaree sia compatte che fragili, che a mio modesto quanto insindacabile modo di vedere, sono praticamente inscalabili. Si si, litighiamo pure però prima andate sul Leupa e io vi guardo da sotto. Chiamiamo anche i maghi del misto o del dry, una Angelika Rainer se si degna di venire qua e vediamo. Se agganci una picca una. Se ti proteggi a meno di 25 metri. Se quello che metti come protezione tiene più della vostra giacca. Vediamo. Tutti bravi. E poi: tiè c’è il Leupa. Che Buscaini, secondo me, è andato in fiducia quando gli hanno detto che c’erano 2 vie. Secondo me manco è andato a vedere che diciamolo, su, chi vuoi che vada a scalare 150 metri di quella roba lì. Io il canale friabile e la cengetta a sinistra e lo spigolo etc mica li ho visti. Ma lo capisco, il Busca, anche lui ogni tanto ha spuntato la lista perché andava di fretta magari. Peccato perché io dal Busca tiro sempre fuori robe interessanti, anche con 3 nomi una data e un “1 chiodo lasciato” che ci ricamo su le favole. Invece il Leupa niente. Ha due creste, sappiatelo. Una Est, una Ovest (facile). Non ha un versante sud (si ovvio che ce l’ha, ma voi fate come se non). Due normali. Una Est, una Ovest (facile). Quella ovest, “Celo”! Un inverno di anni fa, con Stief e Cricca, di quei tempi che la cima era il must. Che ti presenti “sciallo” e dopo neanche 5 minuti sei lì che ti muovi tipo gli acrobati di Oceans’eleven. Cengette spioventi, ghiaccietto, canalino-ok, uscita-non ok, cresta – sospiro – giù subito e piano e aspetta che vedo di piantare un chiodo valà – ah guarda c’è! (1 chiodo lasciato, avevi ragione Busca) – e via di doppia sul chiodo che ti pare un pilone. La est mi mancava, sarebbe pure la normale, ed è l’unica traccia digitale in Google (grazie Raffaello!). Cresta a tratti esposta, passaggio di II che d’inverno sarà una esaltante goulotte di ben 3 metri, cresta saliscendi. Facile. E qui veniamo alla seconda foto. Nella seconda foto ci sono sempre io, che traverso con fare delicatissimo e l’occhio sgranato sta cengetta che in realtà è pure larga eh, e avrà un saltino che so di 1 metro? e poi sotto c’è neve. Ma io paio sospeso sull’abisso. In quella foto c’è tutta la mia, la nostra, la sua (del Leupa), precarietà. Sarà il movimento che il Batti ha preso, sarà il casco, lo sfondo non lo so, ma lì c’è tutta la precarietà di questo nostro andare, di questo nostro essere. Se solo ci fosse più neve. Se solo sapessi se posso calarmi. Se solo capissi perché ci tenevo tanto a parlare del Leupa. Questo monte che tutti fingono di conoscere (“guarda! quello è il Leupa” dicono indicando un punto tra la Cima Confine e il Sart, che magari l’hanno letto su Peak Finder un attimo fa) e nessuno ci è stato mai. Questo monte che nessuno si fila, ma poi, se non c’è o se un giorno non lo vedi, ti dispiace. Come l’amico – che chiameremo non so, Fred – che c’è sempre a tutte le serate, ma non dice molto, non è antipatico, nemmeno simpatico, ma si ricorda del tuo compleanno e magari ti porta a casa quando sei sbronzo. Fred c’è. Il Leupa c’è. Ma se una volta non lo trovi ci stai male.

Però senti questa precarietà, questo senso di qualcosa che non sai mai quanto dura. Me lo si legge in faccia, nella piega del ginocchio, nelle mani che scorrono la roccia ed è precaria anche lei. E quindi non hai certezze più.

Sulla cima non ci siamo andati, poi. Era appunto un po’troppo precaria, quella poca neve, quel poco ghiaccio, quel poco tutto, anche la voglia magari. Siamo andati per poterci ricordare questa montagna e ne siamo tornati con meno certezze di prima. La montagna, a me, altro che fiducia in sé stessi e quelle cose che ci raccontano, mi da sempre meno certezze. Queste poi, mai. Ma forse è proprio questa assenza a rendere tutto molto interessante. E penso di nuovo agli influencers, che sono sempre certi di tutto, hanno sempre qualcosa da dire, mentre io oggi mi tengo stretta questa foto, questa precarietà che dovremmo sempre avere a cuore, come le montagne che nessuna sa dove sono, eppure ci sono sempre. A fare da sfondo. A portarci a casa.

Nei pressi di Forca Sopra Poviz, verso la cresta del Leupa – foto M.Battistutta

Cicale

di Saverio D’Eredità

Se aprite un libro di fiabe per bambini noterete come gli animali possano trovarvi un riscatto dalla loro condizione di (presunta) inferiorità con l’essere umano. Quale specchio capovolto della realtà, in quelle storie fantasiose ci addentriamo in un mondo fatto di personaggi curiosi: asini intellettuali, gufi dottori, simpatici serpentelli e affidabili topolini. Però c’è un animale che se la passa male praticamente sempre, almeno dai tempi di Esopo. La cicala.

Fateci caso, la cicala se la passa malissimo. Non solo ne esce regolarmente sconfitta dall’impietoso confronto con quella rompicoglioni saccente della formica. Ma viene pure sbeffeggiata, dipinta come una bohemien, vestita di stracci e robe logore, pure un poco svampita e magari scroccona. In questo mondo che esalta la formica, la cicala viene costantemente derisa. Pure nelle fiabe.
Non so perché sto pensando alle cicale, forse è il sole sulla testa che pare estate in questo vallone che pare un calderone. Forse penso alle cicale perché mi viene più naturale solidarizzare con coloro che vengono derisi, insultati o degradati.
Io sto con le cicale, insomma.
Anche se da bambino, devo dire, anche io non sopportavo le cicale. Passavo le ore – quelle ore senza sonno nel dopo pranzo estivo, di sole implacabile, sprofondate nel silenzio immoto rotto dallo stridio di un canto che pareva un pianto – a dar loro la caccia, tirando sassi contro i pini sperando di zittirle. In realtà, non volevo proprio ucciderle, quanto piuttosto vederle, le cicale. Voi le avete mai viste le cicale?

“Sono come dei grilli, ma non verdi”

“Come dei mosconi giganti, ma non così brutti”

Mistero su queste cicale. Sentirle, ma non vederle, era insopportabile. Forse sto con le cicale perché la loro inutilità oggi mi assomiglia.
Da un paio d’ore mi sto chiedendo infatti quando arriva questa forcella e soprattutto per cosa sto facendo tutta questa fatica. È una domanda che ritorna ogni volta che mi trovo a galleggiare con queste due assi sotto e ai piedi. E in particolare a primavera.
In fondo in fondo, me lo sapete spiegare a cosa serve, sciare?
Per dire, oggi, potevi andare in falesia no? E poi non ti lamentare se quest’estate ti trovi appeso come al solito a piagnucolare che non sei abbastanza allenato o che è bagnato o che è unto o che ne so. Potevi pensarci prima.
E poi, dai, ne vale la pena? Con questa sveglia disperata che ti manda in tilt i cicli di sonno tutta la settimana – hai una brutta settimana davanti ci hai pensato?
E proprio quest’anno, poi, che non c’è neve, dove te ne vai?
Eccolo quindi, il coro delle formiche, con i loro consigli che mi ronzano in testa, non mi fanno pensare, non mi fanno osservare.
Insomma, abbiamo capito, sciare non serve a niente.
Non c’è nessun traguardo da tagliare, nessun obiettivo da raggiungere. Non un tempo da battere o un grado da superare.
Un gesto del tutto fine a sé stesso. Un canto di cicale.
Come le cicale riempiono il cielo con il loro canto stridulo e insistente, così gli sciatori lasciano la loro traccia sui pendii stesi nel sole. Una traccia destinata a svanire, frutto di una fatica inutile e di una gioia effimera. Come le cicale gli sciatori disegnano grandi linee pur essendo esseri minuscoli nel teatro della montagna. Come le cicale, qualche volta, sono anche invisibili.
Ma questo è un mondo governato dalle formiche. Gente previdente, che sa sempre cosa fare. Gente organizzata, che non lascia spazio alle incertezze, men che meno alle improvvisazioni. Che detesta questo nostro essere superficiali, scanzonati, questa nostra ostentata leggerezza. Come cicale, si sa, siamo destinati a perdere e pure malamente.
Eppure in questo nostro essere superficiali, talvolta pare di cogliere un’imperscrutabile profondità.
Che non vi sia nulla come questo scivolare che restituisca la montagna nella sua totalità. Soprattutto adesso, che il sole è di nuovo alto all’orizzonte e pare che ogni cosa si rimetta in movimento.
E allora diventa chiaro che tutto in qualche modo si tiene, tutto si compone. L’odore di resina e di bosco nuovo con l’alito gelido della neve, le rocce riaffioranti nel sole e le ultime bave di ghiaccio appese alle pareti.
In questo scivolare c’è la montagna nella sua interezza nel suo essere fatica e gioco, gioia e rivoluzione.

Nei lunghi pomeriggi d’estate, assuefatti da quel canto narcotico, vi erano brevi istanti in cui le cicale si fermavano di colpo, tutte insieme. Senza motivo apparente. Il sollievo non era che breve. Presto ci guardavamo smarriti, come se d’improvviso si facesse vuoto anche il silenzio. Come abissi spalancati in quelle giornate eterne.
E come le cicale, senza saperne il motivo, anche noi ad un certo punto sappiamo che dopo alcune curve dobbiamo fermarci, respirare e guardare. Non c’è una regola, non c’è una ragione. Si scende un pendio, si tracciano linee che tra un istante non esisteranno più, come il canto delle cicale abbiamo la presunzione e il desiderio irrefrenabile di riempire questo spazio immenso. Per poi di colpo fermarci. Voltarci. Alzare le maschere e – senza dire niente- guardarci negli occhi come fosse la prima volta.
Sciare non ha prospettiva né futuro. Ogni stagione finisce e riparte da zero, ogni stagione diversa, ogni neve irripetibile. È questo che lo rende inutile. È questo che lo rende infinito.

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Di piccoli gesti, silenzi e pigrizia

Pensieri sparsi di una reclusione

di Nicola Narduzzi

Dicono che durante questi giorni di quarantena dobbiamo riscoprire i piccoli gesti. Penso sia una delle cose più sensate da fare, suppongo, visto che praticamente ogni altra cosa è vietata e per chi come me vive in un appartamento le occasioni di fare qualcosa di interessante sono davvero limitate.

Il mio piccolo gesto riguarda il solo affacciarsi ad una finestra, o forse sarebbe meglio dire alla finestra. Non una qualunque, bensì quella che mi ha visto crescere per anni da bambino e ora mi vede, spero, da uomo adulto. Sul suo davanzale ho passato lunghe ore da bambino, chiuso in quella che allora era la mia cameretta, appoggiato alla ringhiera per leggere o anche solo per guardare le montagne. Sì, perché una persona qualsiasi potrebbe pensare che Fagagna, dolcemente adagiata sui primi rilievi collinari nel cuore del Friuli, non abbia niente a che fare con le montagne, mentre in realtà esiste un filo invisibile che le lega. Le montagne sono distanti, tuttavia fanno parte della quotidianità di tutti noi, anche se non sempre ne siamo consapevoli. Delimitano il nostro orizzonte quotidiano come in un grande abbraccio, dalle solari montagne di Piancavallo protese verso la laguna veneziana all’immenso scivolo del monte Nero e poi ancora, più giù, verso le alture del Carso che poi si perdono diventando Istria. Continua a leggere

La stanza blu

di Saverio D’Eredità

A Francesca e a Federico
a tutti i bambini che guarderanno il mondo per la prima volta

L’estate era stata inaspettatamente lunga. Avevamo sfruttato tutti i giorni possibili, anche quelli sbagliati. Veniva ora il tempo, di luci radenti ed un certo rammarico. Veniva quel tempo e uno ad uno scioglievo i nodi che mi legavano agli amici. Ricordo ancora l’ultima volta. La schiena addossata alla parete, gli anelli di corda sparsi per terra, nebbie che salivano come una lenta marea e nient’altro da aspettare se non te. Continua a leggere

Estasi e tormento

di Saverio D’Eredità

Ci sono strade che ti portano giù senza che tu te ne accorga. Lo capisci davvero quando avverti che le gambe non spingono più e l’aria si fa più leggera sul viso. Quando la mente si sgombra e il cuore rallenta. E tutto è in qualche maniera come dovrebbe essere. Semplicemente perfetto. Quell’istante è la ricompensa del sacrificio. La spiegazione plausibile ad ogni tua rinuncia. È la ragione per cui. È tutto quello che serve.

Eravamo dunque giunti alla fine delle montagne. Profili indistinti di valli e di dorsali emergono, nel chiarore del giorno che si espande. Sprofondi di valli delle quali più non ci curiamo di dare un nome. Ci sovrasta, ovunque, il Sassolungo. Ultimo frammento della regione dolomitica, faraglione arenato nei docili altipiani dell’Alpe di Siusi.
Eravamo giunti alla fine delle montagne e forse non solo. Pure in questa mattina leggera e luminosa grava la sensazione che qualcosa volga alla fine. È un pensiero che cerchi di scacciare come mosche e invece ritorna. È una maglietta appiccicosa di sudore. Un rumore bianco.
Finiscono le montagne, come pare stia già finendo quest’estate. In questi ultimi giorni lo potevo sentire dentro ogni mattina andando a lavoro, nell’odore di terra che pareva marcire, di campi schiantati dal caldo o da qualche temporale abbattuto senza pietà su alberi innocenti. Continua a leggere

Titoli di coda

di Saverio D’Eredità

Quando arrivò la pioggia, pensai davvero che fosse finita. Ma non finita perché troppo duro o troppo pericoloso. Finita proprio perché non avevamo altro da aggiungere.
Avevamo fatto trecento chilometri per quattro tiri. Trecento chilometri per cercare un triangolo di sole in mezzo a valli brune, incenerite dall’autunno precoce. Nemmeno quella poca neve, sui monti, riusciva a rallegrarci.
Del resto, pensai, quest’anno ho iniziato la stagione un pomeriggio di marzo in coda sull’A4, a chiacchierare con un camionista e un agente di commercio dei problemi della mobilità sulle grandi reti. Due ore di permesso e una di coda. Come pretendevo che andasse, questa stagione? Continua a leggere

La parodia dei Falliti

di Saverio D’Eredità

Un tizio che scala una parete – rigorosamente ambio, rigorosamente corda dall’alto – per poi calarsi direttamente sul suo SUV compatto dove può caricare tutto senza pensieri, pure il cane e la fidanzata.
Una coppietta che si sveglia felice nella monovolume adattata a VAN in mezzo ad un romantico bosco nordico con cappellino di lana colorato stile Manolo (o Manu Chao?).
L’arrogantissimo manager che si collega in conference call, impartisce due ordini e poi sgomma in mountain bike (cagando in testa a tutti, nda).
Una normale prima serata davanti alla TV.
Non sarà un caso che mi trovi in una fascia oraria particolarmente appetibile al target di quel consumatore (probabilmente di là a pochi secondi sarebbe andato in onda Pechino Express o Alle Falde del Kilimangiaro, quindi hashtag #sport#nature#life#outdoor#travel etc).
Dovrei riflettere sul fatto che forse la mia macchinina per nulla crossover e dal bagagliaio molto ordinario mal si addice al mio lifestyle di alpinista della domenica ed amante dell’outdoor. Eh sì, sarebbe ora di cambiarla, se no, che figura ci fai con gli amici se arrivi con la berlina o la citycar?

“Certo che ci sono un sacco di pubblicità con gente che arrampica” commento distrattamente. Ma la mia interlocutrice – con capacità di sintesi e acutezza tipicamente femminili – osserva “bè, non mi stupisce. I nuovi stronzi siete voi”. Continua a leggere

Il vento non può essere catturato dagli uomini

di Carlo Piovan

Forse non dovrei scrivere questa recensione, dal momento che non ho ancora il libro in mano; ma supero l’indugio dal momento che l’autore mi ha permesso di vivere l’esperienza del correttore di bozze, pertanto mi assumo l’onere di scrivere la (forse) prima recensione di questo testo di narrativa ancor prima di averlo letto nella sua versione stampata. Una recensione dietro le quinte.

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