“IL MIO NOME E’ DOLOMIEU”

Venerdì 29 Luglio Recoaro Terme ore 20.00

Monologo di circa 60 minuti in cui l’autore del testo, Eugenio Maria Cipriani, indossati i panni dello scienziato Déodat Guy Silvain Tancrède Gratet de Dolomieu (1750-1801), studioso e viaggiatore francese vissuto nella seconda metà del Settecento, racconta la vita e le avventure del noto naturalista alle prese da un lato con lo studio dei vulcani e dall’altro con il mistero allora inspiegato della nascita delle montagne. Una vita avventurosa che lo ha visto due volte in prigione ma anche ospite dei più importanti salotti culturali europei. Fu il primo naturalista a visitare le Piramidi d’Egitto dove scampò alla morte per pura fortuna. Amato dalle donne e molto apprezzato dei contemporanei, alla sua morte tanta notorietà si dissolse nel giro di pochi anni e oggi nessuno si ricorderebbe più di lui se non avesse dato il nome alle montagne più belle del mondo. Egli è noto infatti per aver compreso la matrice chimica delle rocce dolomitiche che proprio da lui prendono (peraltro casualmente) il nome. Geologo attento e capace di creare una “rete” scientifica, fu uno dei padri fondatori di una scienza nata da poco: la geologia. Dolomieu, inoltre, visse in prima persona l’annosa “querelle” scientifica dell’epoca fra chi sosteneva l’origine ignea delle rocce (Plutonisti) e chi ne affermava di contro l’origine idrica (Nettunisti). Una controversia che infiammò gli animi di cattedratici di fama mondiale e che ebbe riscontri importanti anche nella letteratura e nelle arti. La Rivoluzione francese cambiò il corso della sua vita che, nell’ultimo decennio, fu tutto un susseguirsi di campagne esplorative e guai personali.

Eugenio Maria Cipriani

Giornalista, scrittore, scalatore attivo da oltre 40 anni con particolare inclinazione per l’alpinismo
esplorativo (oltre 800 vie nuove fra Alpi nordorientali, Grecia e Balcani), da sempre nutre interesse sia per la storia dell’alpinismo sia per quella della geologia. E’ autore di oltre 60 volumi fra guide escursionistiche e alpinistiche e saggi storici. In gioventù ha frequentato due scuole di recitazione ed ha interpretato diversi ruoli recitando durante la stagione estiva teatrale veronese negli anni 1984 e 1985 e successivamente esibendosi in letture pubbliche con la compagnia del Teatro Nuovo di Verona.

Winter 8000 – l’epopea dell’alpinismo invernale sui giganti della Terra

di Saverio D’Eredità

Ad essere onesti e anche un po’in controtendenza rispetto ad un certo “perbenismo” della letteratura di montagna, dovremmo ammettere che la lettura delle imprese himalayane non è mai stata travolgente in termini di interesse. Eccezion fatta forse per un narratore (e personaggio) sui generis come Kurt Diemberger, i racconti di spole tra campi, bufere, ritirate, sofferenze e stati di anestesia mentale non permettono certo al lettore di immedesimarsi, ma al più di sedersi ed osservare come spettatori al cinema le gesta di uomini fuori dal comune. Soprattutto, una volta chiuso il libro e osservato estasiati le foto delle altissime quote, la storia appena letta rimarrà in quel limbo di ricordi di cose sì eccezionali, ma che di certo non cambieranno la nostra vita né il modo di pensare. Non me ne vogliano gli appassionati del genere, tutti abbiamo gongolato davanti ai libri di Messner fino alle più recenti imprese di Moro, ma oggettivamente c’è di meglio da leggere. Tuttavia Bernadette Mc Donald, una delle, se non la più importante narratrice di alpinismo attualmente, riesce ogni volta a stupire e tenere incollato il lettore. Da questo, nelle arti, si riconosce il talento. Mettere insieme le storie di alpinisti polacchi dalla pronuncia ostica, alle prese con la sfida ai giganti della terra nella stagione fredda e per giunta ormai non più attuali (si parla degli anni tra il 70 e i primi 2000), insieme a quelle più “mainstream” di un atleta specializzato come Moro, rischiava di diventare un esercizio di cronaca alpinistica senza molto di più. Invece ancora una volta dopo “I guerrieri dell’Est” la scrittrice canadese riesce a rendere avvincenti le vicende di uomini e donne che si sono ingaggiati in una delle ultime esplorazioni possibili in ambiente estremo. Scalare gli 8000 in inverno, infatti, è paragonabile a qualcosa di simile alle “saghe” polari Amundsen e Shackleton, o la corsa allo spazio. Un ambiente cioè non fatto per l’essere umano, non solo come difficoltà tecnica ma soprattutto per incompatibilità biologica. Prendiamoli così, come astronauti terrestri, quei folli determinatissimi polacchi, giapponesi, russi o italiani. Capaci di resistere con il ghiaccio nei polmoni nel disagio più assoluto per settimane se non mesi dentro tendine abbarbicate su gradini di neve, a superare pendii con neve al petto, a torturare il corpo in una specie di sublime arte della sofferenza. Una definizione del grandissimo Vojtek Kurtyka – uno dei protagonisti di quella generazione- e che si ritrova come un filo sottile in ognuno dei 14 capitoli (uno per ciascuno ottomila, descritti in ordine cronologico di scalata) sui quali è costruito il libro. E “l’arte di soffrire” è il titolo dell’introduzione in cui la Mc Donald spiega come ha preso avvio questa avventura letteraria, dal primo incontro con Andrej Zawada – nome poco noto al grande pubblico, ma vera mente strategica che ha animato la corsa polacca agli ottomila della scuola polacca – fino alle storie più intime di quegli uomini disposti veramente a tutto. Accanto alla cronaca, infatti, emergono i tratti più personali, le motivazioni profonde, il contesto sociale e quello familiare che McDonald non teme di mettere in luce. Come sempre nei suoi libri, gli alpinisti perdono la corazza dorata da eroi greci che si tramanda nella narrazione ufficiale, per scoprirsi fragili, contradditori o egoisti come tutti. E questo è indiscutibilmente il merito di una grande narratrice.

Scienza degli attimi

di Saverio D’Eredità

Volume 1 – il miracolo del Buinz

Che lo scialpinismo sia una questione di attimi, è una cosa che ci siamo detti varie volte. Essere bravi a coglierli, però, è tutta un’altra storia. Più passa il tempo, infatti, più mi convinco che il miglior scialpinista non sia tanto quello che scia meglio, o scia più forte, o sul più ripido (tutte cose che vanno bene, intendiamoci), ma quello che conosce più profondamente questa scienza inesatta degli attimi. Sapere ad esempio il momento in cui la neve fa tac! e trasforma il pendio da una lastra di marmo ad un morbido tappeto di panna su cui scivolare. Capirlo dall’angolazione dei raggi solari, dalla conformazione di un versante, dal vento, dall’umidità, dalla temperatura e dalla struttura dei cristalli di neve. E tutto questo poi condensarlo in un frazione di tempo minima, l’attimo, appunto.

Salendo a Sella Buinz -foto L.Barbui

Per quanto si provi a trovare la formula esatta che sta dietro quell’attimo, a me pare che sai più facile ragionare come in cucina. Avete presente il “QB” delle ricette? Ho visto gente molto razionale andare in totale confusione con la storia del “Quanto Basta” di una quantità di zucchero o di cannella. Voi come lo calcolate? C’è un algoritmo? Uno studio di funzione? No, è “QB”, punto. Il resto si vedrà. Ecco, a pensarci bene quel famoso attimo in cui Ia neve fal “tac!” ad una certa ora su un certo pendio è simile al QB delle ricette di cucina. 

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Le nevi del Giappone

di Saverio D’Eredità

Decise di fermarsi ai piedi di una roccia che riparava dal vento, appena oltre il limite del bosco. Non saprei il motivo. Forse perché era ormai tardi o perché gli piaceva quel punto, un’isola di luce accerchiata dalle ombre. Poi prese a parlare d’un tratto, come se stesse riprendendo un dialogo con qualcuno che non c’era. Era così, mio padre. I suoi pensieri erano un fiume carsico, scorrevano sotterranei per poi riemergere d’improvviso. Dovevi essere bravo a trovarli, seguirli e riconoscerli. Perché poi si inabissavamo di nuovo in quel suo sguardo lontano.

“Se rifletti bene, è tutta una questione di immaginazione. Amare una persona, mettere al mondo dei figli, costruire città e raccontare storie, ha tutto a che fare con l’immaginazione. Per lo stesso motivo scaliamo le montagne. Perché sappiamo immaginarle. Se ti fermassi solo a ciò che vedi, senza immaginare qualcosa di diverso, ne rimarresti schiacciato. La realtà così com’è, senza immaginazione, è una cosa terribile, persino spietata. Se come esseri umani non avessimo saputo immaginare qualcosa di diverso da ciò che vediamo, probabilmente non ci saremmo mai evoluti.”

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Arcipelago Altitudini

di Saverio D’Eredità

Pochi giorni fa mi è capitato di leggere una riflessione di quel grande giornalista di sport che è stato Gianni Mura che così diceva “Molti direttori di giornali non credono più nel pezzo lungo e scritto con un buon italiano, perché dicono che la gente non ha tempo di leggere e invece non è vero. Io ho sempre sostenuto che questa fosse una balla, se uno vuole il tempo lo trova. Dipende cosa dai da leggere a un lettore.” Io questa cosa l’ho sempre un po’pensata, solo che mi veniva difficile sostenerla – anzitutto perché non sono Gianni Mura, mi pare ovvio – e poi perché ammetto di aver un problema con la sintesi o forse il punto è che siccome già per lavoro devo scrivere cose molto astratte in tipo 200 caratteri, ho sviluppato una sorta di rifiuto per ogni tipo di paletto che si voglia mettere alla scrittura. Quindi, anche se volessi sostenerla non sarei credibile. Però una cosa va detta. La tendenza, ormai in atto, di condizionare un testo al tipo di strumento di lettura rischia alla lunga di impoverire la forma narrativa. Ci rende schiavi del mezzo, senza considerare che alla fine non esistono né storie troppo lunghe né troppo brevi. Esistono le buone storie, punto. E se una storia merita di essere raccontata, la lunghezza conta relativamente.

Devo dire che quando Teddy Soppelsa mi ha proposto di collaborare con il progetto Arcipelago Altitudini, ho subito aderito con entusiasmo. In primo luogo ne ero onorato (non è che capiti proprio tutti i giorni di trovarsi un po’casualmente in mezzo alle firme che leggi su libri e riviste) e tutto sommato il fatto di poter scrivere una “storia lunga” a schema libero rappresentava una sorta di liberazione. A scuola, del resto, quando c’era il compito d’italiano sceglievo sempre il tema libero.

Il progetto ha un obiettivo ambiziosamente demodè: rimettere al centro il racconto, quella forma narrativa ibrida che oggi trova poco spazio tra la tirannica brevità del web e la solida architettura del romanzo o del saggio. Rimettere al centro la parola, la sua forza millenaria, che così bene si sposa alla montagna e alla natura, là dove il tempo non ha importanza e segue altre regole.

AA – Arcipelago Altitudini è quindi un progetto “diverso” e per questo val la pena seguirlo e perché no, sostenerlo. Dentro troverete grandi penne della narrativa “di montagna” (come Camanni o Sciampliciotti) e “di natura” (Faggiani e Campani) e perfetti sconosciuti che magari si esprimono saltuariamente sui blog, con le forme e i tempi propri del web. C’è spazio per racconti lunghi e biografie, reportage e graphic novel, per mettere insieme tutte le forme espressive possibili “su carta”. Proprio come un arcipelago dove il lettore si troverà a navigare, speriamo con piacere, interesse, curiosità. La forma del libro-magazine, con una grafica elegante e curata è essa stessa un invito a quella lettura profonda che è anche uno dei più sottili piaceri della vita. Ci troverete la montagna, magari non al centro, e nemmeno di sfondo. Ma sicuramente ci troverete il “sentimento” della montagna, che si assapora di più proprio quando, liberatisi dal tempo, si lascia spazio all’immaginazione con un passo lungo. Un po’ come affrontare certe lunghe vie d’ambiente.

“Fuori traccia”, il racconto che troverete dentro il libro magazine, riprende un tema già proposto sulle pagine di questo blog, ovvero di come la società odierna sia sempre più dominata da un concetto di sicurezza vuoto e che tende a de-responsabilizzare l’individuo, trasformando l’ambiente naturale – con le sue ineluttabili regole – in quel “parco giochi urbano” che rende l’avventura sì divertente, ma insipida. Cosa accadrebbe quindi se, in un futuro distopico, tutto ciò che oggi diamo per scontato non lo fosse più? Se andar per monti diventasse un’attività con regole rigide e strette sorveglianze, se tutto ciò fosse la normalità, tanto da non accorgercene nemmeno? Un futuro in cui quello che oggi consideriamo la nostra libertà diventasse fuorilegge?

Futuro distopico, ma non troppo. I segnali qua e là arrivano, bisogna essere attenti a coglierli. E di tutto ciò, è inutile girarci attorno, possiamo pure accusare il capitalismo, il Sistema o quello che volete, ma i primi colpevoli siamo noi. Abbiamo perso gli ultimi trent’anni a discutere di spit e gradi, mentre attorno a noi avveniva una rivoluzione silenziosa che minava il presupposto dell’alpinismo in senso lato, sia esso classico, sportivo, con gli sci o su ghiaccio. La libertà delle proprie azioni. Con il tempo osserviamo questo spazio ridursi, giustificato dalla necessità di rendere “sicuro”, “fruibile, di “valorizzare” l’ambiente naturale, verso la chimera del rischio-zero. Ma venendo meno quella libertà, viene meno lo spirito stesso che ha fatto dell’alpinismo una delle attività (chiamarlo sport, ancora, non ci piace) che più possono arricchire una vita. Difendere questa libertà e al tempo stesso impegnarsi affinché quello spazio naturale in cui si esprime (e che ne dà un senso) rimanga integro per noi e le future generazioni dovrebbe essere la vera frontiera dell’alpinismo del futuro. Allora sì, la parola, la narrazione, prima ancora di un hashtag o una foto potranno venirci in soccorso.

Per maggiori informazioni su Arcipelago Altitudini consultate la pagina di altitudini.it (http://altitudini.it/aa/) e quella di Mulatero Editore (https://mulatero.it/prodotto/arcipelago-altitudini/) dedicate al progetto, con la possibilità di acquistarlo online. Lo trovate in libreria dal 30/09.

Lo Zaino

di Carlo Piovan

Grazie alla fortuita complicità di due amici, ho scoperto da poco questa pregevole rivista, uscita quasi in sordina nei territori esterni alla Lombardia.

Inizio a sfogliare il decimo numero, nella sua versione on line e ne apprezzo da subito la qualità dell’impaginazione e delle immagini che nulla hanno da invidiare alle più rinomate riviste di settore.

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Il fuoco dell’anima – Andrea Di Bari con Luisa Mandrino

di Saverio D’Eredità

“L’incontro con la Montagna ha cambiato la mia vita”, “Il mio sogno era arrampicare” “L’arrampicata ha dato un senso alla mia esistenza”. Quante volte avremo letto nelle innumerevoli, ridondanti biografie di alpinisti e climber queste frasi? Quante di queste storie, in fin dei conti, si assomigliano, senza che possano trasmettere il vero pathos che è poi l’essenza del narrare?

Bene, se siete anche voi annoiati da una letteratura di montagna conformista e appiattita, dove personaggi che – specie nel mondo attuale – hanno ben poco di interessante a parte talento e – evidentemente – una grande disponibilità di risorse (economiche e non), leggetelo, il libro di Andrea Di Bari scritto a quattro mani con Luisa Mandrino (ed. Il Corbaccio, 2018). Perchè nella storia di uno dei più importanti ed influenti scalatori italiani, venuto su nella piccola borghesia di una borgata romana, si trova forse un significato più sincero di ciò che l’arrampicata può rappresentare nella vita di un ragazzo. Continua a leggere

Marco Berti, Tom Ballard il figlio della montagna; Solferino editore

di Carlo Piovan

Il tema della biografia, per uno scrittore è sempre un difficile banco di prova. Se a questo aggiungiamo che il soggetto di cui parlare è un amico e compagno di cordata, prematuramente scomparso, la difficoltà aumenta e gestire emozioni e rigore narrativo diventa un ulteriore sfida alla realizzazione del libro.

Poco dopo la notizia sulla prematura scomparsa di Tom e Daniele, Marco mi confida il suo progetto, sapendo cosa vuol dire perdere un amico in montagna, rimango a metà tra la sorpresa e la preoccupazione per la sfida in cui si stava lanciando, pur sapendo che avrebbe avuto un solido editore a supportarlo.

Un tema letterario complicato e il dolore da gestire.

Non avevo capito fino in fondo il suo intento.

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Oltre la paura – la raccolta di racconti di Nicola Narduzzi

di Saverio D’Eredità

Perché si scrive di alpinismo? Domanda ostica e scivolosa, la cui risposta è difficile tanto quanto quella che, logicamente, la precede. Ovvero, perché l’alpinismo?
Se le risposte ai “perché dell’alpinismo” sono tante almeno quanto i suoi praticanti ed appassionati, quella della scrittura dovrebbe (o almeno, potrebbe) percorrere strade più lineari. Invece così non è. Sembra anzi che le due domande siano complementari l’una all’altra, e la risposta (o tentativo) che vi si può dare ad una possa offrire un aiuto per approcciare la sua gemella.

Ne azzardiamo una. Si scrive di montagna anzitutto perché la montagna è essa stessa narrazione. Narrazione dell’ascendere e del tornare, di ostacoli e superamenti. Di un farsi Tempo e quindi Storia. Tutto lo svolgimento di un’ascensione ripercorre gli archetipi del “cammino dell’eroe” sul quale si fonda la struttura narrativa dell’epos. Il racconto della Montagna, o meglio sarebbe dire del dialogo tra Uomo e Montagna, richiama l’essenza stessa del narrare, in quanto ogni storia è di per sé movimento verso qualcosa, di un movimento innescato dal desiderio. Quindi scrivere di montagna sembra essere la naturale conseguenza dell’andare verso la montagna, la testimonianza di una presenza. Da qui la complementarietà tra il perché della scrittura e il perché dell’alpinismo.
Ma di cosa parla, oggi, il racconto di montagna?
Imprigionato nello schema consolidato del “récit“, questo genere non è stato capace nel tempo di evolversi e rinnovarsi, ripetendo invece moduli e linguaggi standardizzati. Ciò ha limitato fortemente l’espandersi della letteratura (e quindi la cultura) alpinistica alla stretta cerchia degli addetti ai lavori, chiudendosi in una desolante autoreferenzialità.
Se un tempo tutto ciò poteva ancora avere un senso, in quanto legato alla più vasta tradizione del racconto di avventura (le grandi esplorazioni dei “poli” della Terra, l’avvincente saga del sestogrado o delle spedizioni himalaiane), oggi par quasi che il semplice fatto dell’andare in montagna possa già di per sé un motivo per scriverne, senza tuttavia scavare in quella profondità interiore che la Natura ci suggerisce. Fatte poche eccezioni, anche gli esponenti di spicco del mondo alpinistico sembrano essere incapaci di trasmettere davvero le motivazioni, i sentimenti e il percorso umano e che muove l’intera esperienza alpinistica, limitandosi ad uno schema ripetitivo, spesso scontato e in fondo asettico.
Gli strumenti digitali e del web hanno spalancato le porte della narrazione ad una miriade di potenziali scrittori, ma ciò ha portato più ad un inflazione dello strumento che non ad una suo vero rinnovamento. Ci troviamo così oggi ad assistere al proliferare di memorie o biografie di “top climber” più o meno plasmate da esigenze di marketing da un lato (dove anche il reale valore di quelle che un tempo chiamavamo “imprese” risulta assai annacquato) e all’esplosione di bloggers, influencers e nuovi media che dispensano pensieri spesso di un livello di poco superiore a quello dei temi dell’elementari. Sempre però con un occhio all’autopromozione. Sconfortante.

Nicola Narduzzi appartiene alla schiera degli alpinisti della domenica, senza che questa definizione risulti spregiativa: parliamo di tutti coloro che frequentano la montagna per pura passione, senza scopi professionali o commerciali. E’quindi un buon rappresentante di una sorta di ceto medio (si passi la definizione) che oggi sembra essere evanescente, schiacciato tra il mondo dei “pro” e la miriade di narratori improvvisati che riversano su web poco più che il resoconto della gita. Ma con una differenza. Anzitutto perché Nicola è in possesso di una solida cultura alpinistica che gli permette di collocare i suoi racconti nella giusta prospettiva storica, omaggiandola e in qualche maniera interpretandola. In secondo luogo – dettaglio non scontato – sa “usare” le parole, scegliendole con quell’attenzione e cura che dovrebbe essere un pre-requisito prima di mettersi alla tastiera, non un optional.
E qui veniamo al punto. Nicola non parla “solo” di alpinismo. Ma parla dell’alpinismo (e della Montagna) come chiave di accesso ad un percorso introspettivo più complesso, in cui quella che superficialmente è una semplice, per quanto accesa passione diventa rappresentazione della vita stessa. Tenta quindi, Nicola, quella sintesi cui accennavamo all’inizio: ovvero di riportare la scrittura verso il senso stesso dell’alpinismo, cercando attraverso di essa di fornire le risposte alle domande che l’alpinismo pone. Nello scrivere, infatti, non solo si rivive la salita, ma si rielabora la persona stessa, le sue motivazioni, la sua proiezione nel mondo. Nella Montagna, Nicola non si “purifica” come una ormai logora visione di questa disciplina continua a trasmettere (Montagna=purezza versus Città=corruzione, Alpinismo=ideale versus Vita reale=compromessi e frustrazione), quanto piuttosto trasporta qui il proprio dissidio, la problematicità del crescere e del confrontarsi. E se non servisse a questo, l’alpinismo, a cos’altro? E lo scrivere, poi, non finirebbe per diventare puro esercizio retorico, o peggio autocelebrativo?

In bilico tra i due poli della spettacolarizzazione delle imprese o di un neo esistenzialismo di bassa lega, chi scrive di montagna troppo spesso ignora il proprio essere – semplicemente –  degli esseri umani: deboli, imperfetti, insicuri, incoerenti. In tutta la letteratura alpinistica vengono in mente pochissimi esempi di alpinisti/scrittori in grado di mettersi a nudo e mettere in discussione sé stessi, invece di celebrarsi. Giusto un paio, tra tutti: Steve House nel suo Beyond the Mountain e Andy Kirkpatrick con Psychovertical. Non a caso di scuola anglosassone. Quella italiana, ahimè, non riesce ad affrancarsi dal “bonattismo” come da un romanticismo rurale alla Corona.
“Oltre la paura” è un cammino. Dai primi innamoramenti alle illusioni e disillusioni. Momenti esaltanti. Paura. Tanta paura, che non viene né eroicamente vinta né sprezzantemente snobbata. Ma è presente, cammina accanto, sembra suggerire il percorso. E’ un omaggio alla storia alpinistica, magari ogni tanto un po’ troppo entusiasta, ma se ciò avviene è perché alle spalle c’è una passione davvero profonda e sincera.

Dai primi passi sulle pareti di casa al richiamo irresistibile delle grandi classiche, scorrono sotto le dita le ruvide rocce carniche e gli appigli dolomitici dove è stata scritta la storia. Marmolada, Civetta, Tofana, Bosconero, Mangart, Peralba: quello di Nicola è un pellegrinaggio devoto attraverso le “vie e vicende”, per citare una nota guida, che hanno costruito l’immaginario alpinistico di un ragazzo. In mezzo, quelle che all’apparenza sono digressioni “intime” fanno invece da collante all’intera struttura. Racconti, sì, ma con un “fil rouge” che non sarà difficile rintracciare.

Nicola ci offre una raccolta semplice, schietta, immediata. Il diario di uno come noi, uno come tanti, che ha cercato nell’alpinismo non tanto delle risposte – peraltro sempre sospese in una narrazione che coinvolge e cattura con empatia – quanto una visione di sé. Alpinismo come formazione del carattere, sebbene raramente compiuta. Nicola ci confessa che forse è ancora lontano dal realizzarsi. Che il cammino non è compiuto. Ma con l’alpinismo, forse, è un passo più vicino a saperlo.

 

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Il libro è disponibile al seguente link

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/biografia/477029/oltre-la-paura-2/

Il vento non può essere catturato dagli uomini

di Carlo Piovan

Forse non dovrei scrivere questa recensione, dal momento che non ho ancora il libro in mano; ma supero l’indugio dal momento che l’autore mi ha permesso di vivere l’esperienza del correttore di bozze, pertanto mi assumo l’onere di scrivere la (forse) prima recensione di questo testo di narrativa ancor prima di averlo letto nella sua versione stampata. Una recensione dietro le quinte.

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