A piccoli passi

di Saverio D’Eredità

La prima volta sono tornato a casa senza cima (peggio ancora, fermandomi sull’anticima: respinto da un ingorgo stile A4 domenica di agosto), dopo esser stato sveglio 30h (storia lunga) e con la carrozzeria dell’auto aperta come una scatoletta (storia ancora più lunga).

La seconda tutto bene, cima e sciata inclusa, ma il ricordo preponderante è la sete devastante causata da un errato calcolo tra la balla della sera prima e la scarsità di liquidi per il giorno dopo (ideale per i 1900 metri di dislivello previsti, no?). Sete parzialmente spenta con un gesto che non posso raccontare.
Questo per dire che con il Grossglockner il rapporto è un pochino problematico. Peccato: perché a parte essere una montagna famosa e importante, ha una indiscutibile eleganza, delle vie di un certo rilievo, una discreta altezza ed è pure decisamente vicina per chi abita a nordest. Non manchiamo mai di additarlo da una qualunque cima tra Dolomiti e Giulie perché si vede quasi sempre e ci fa fare sempre bella figura.
Però, alla fine, nonostante tutto ci si va poco. E questo perché, in fin dei conti, siamo(sono, io) dei fottuti snob. Questa Studlgrat, ad esempio, è rimasta lì tra le cose da fare “prima o poi” ma quel “prima o poi”era sempre poi. Perché nel frattempo eravamo impegnati a cambiare la storia dell’alpinismo (nella nostra testa) e quindi dato che dobbiamo fare un pilastro qualsiasi del Bianco (non vi dico quale) non è che ci bruciamo il weekend sulla Studlgrat. Quella la facciamo in invernale, in solitaria, anzi! Solitaria invernale per allenarsi. Oppure: car-to-car e ritorno per cena. Tutte cose fatte (o meglio, pensate) per complicarsi la vita e ignorare la bellezza. E invece, diciamolo! Che sta Studlgrat è bella, elegante, ideale come linea. E non farla, un po’, è da stronzi.
Si respira l’alpinismo d’altri tempi, ma proprio tempi antichi, di baffoni, alpenstock e lardo in tasca (belli, eh, quei tempi! Niente cronometri, niente gradi, niente curriculum: diciamo che se tornavi vivo era già un’impresa). Quell’alpinismo che era fatto, essenzialmente, di passi. Si misurava, in passi. Il Garmin oggi me ne dava 24 mila e fischia, ma quella volta era il singolo passo a contare. L’accortezza, la cura, di dove mettere un piede, l’importanza del camminare, del salire, della scelta da fare. Che è poi il motivo (uno dei, non facciamo troppo gli opinion leader) per cui pratichiamo questa cosa tra sport e arte e psicoterapia che è l’alpinismo. Avere una possibilità di scelta. Vagliare opzioni. Quindi decidere. Esporsi.
E in ogni passo aggiornare il catalogo dei timori, le tempeste emozionali, i pensieri che vanno e vengono.
Ritrovare, infine, i movimenti collaudati, le posture apprese, che quella cosa te la facevano cercare di continuo. Scoprire che rimangono, come i compagni di cordata che fanno cordata anche quando la corda non c’è.
Abbiamo fatto bene, a far la Studlgrat: chi vi fa spallucce o la declassa (perché ha i cavi, e la gente e ma vanno tutti etc etc – ovvero io) forse non ci è mai stato e non ha mai dato valore ai passi. Che poi, banalmente, è il principio di base per scalare ogni montagna. E, in generale, ogni cosa nella vita.


Gross Glockner, 3798 mt – Alti Tauri

Cresta Sud/Ovest “Studlgrat”

Difficoltà: complessivamente AD (II,III / A0, ghiacciaio facile in salita e discesa)

Dislivello: 700 mt dall’attacco (1900 totali dal parcheggio)
La montagna non chiede presentazioni (cima più alta dell’Austria, icona delle Alpi Orientali e dell’alpinismo classico) e nemmeno questa cresta, dedicata al magnate praghese Johan Studl (fondatore, tra le altre, del club alpino tedesco, una specie di Quintino Sella), ma salita da Joseph Keherer e Peter Groder il 10/09/1864 seppure con l’aiuto dall’alto dei fratelli Groder. La via doveva servire alle guide di Kals per fare concorrenza a quelle di Heilingenblut tanto da costruirvi una “proto-ferrata”, poi rimossa. Oggi la cresta si presenta con numerose attrezzature (soprattutto golfari) e qualche cavo metallico e fittoni che agevolano passi altrimenti “fuori scala” per una via che generalmente si mantiene sul II/III grado. Nel complesso è un itinerario d’alta montagna di un certo impegno per esposizione, lunghezza ed ambiente da non sottovalutare. Così come la discesa per la normale, più facile, ma da fare con attenzione anche per l’intenso via vai di cordate. In ogni caso, un itinerario storico, che non lascia indifferenti e che ripaga di sensazioni degne dei rarefatti ambienti d’alta quota.

Una buona relazione, in italiano, è disponibile sul sito degli amici SassBaloss.https://www.sassbaloss.com/pagine/uscite/grossglockner/grossglockner.htm

La prossima collina

di Saverio D’Eredità

Per giorni non avevo visto che lo stesso cielo. La stessa porzione ritagliata tra due cubi di cemento appena movimentata dalla chioma di un pino. Giorni in cui avevo finito per perdere il senso dello spazio e del tempo e l’interesse per qualsiasi cosa che non fosse uscire da lì, dove vedevo sempre lo stesso cielo. Quando sono uscito le montagne stavano ancora lì e la prima che si vede è il Gran Monte, barriera frangiflutti regolare e tarchiata che difende le Giulie e le valli più interne. E’ un monte generoso e bonario. Si prende il soffio caldo della pianura, i suoi vapori appiccicosi, le secchiate d’acqua delle perturbazioni autunnali, lasciando al Canin la nobiltà dell’abito bianco. Il Gran Monte assomiglia a quegli animali giganteschi ma buoni delle fiabe. Tipo Falcor della Storia Infinita. Ti raccoglie con il suo lungo collo là dove sorge il Torre e ti deposita dolcemente con la coda sulle rive dell’Isonzo. In mezzo ci passa un confine, ma lui non c’ha mai fatto troppo caso. E’ appena un piccolo cippo che devi solo stare attento a non inciamparci. Sul Gran Monte ci andavo sempre, ai primi tempi, e a quasi sempre da solo. Perché avevo pochi soldi per la benzina e quasi nessun compagno. Poi ho potuto fare qualche pieno in più e caricare in auto qualche altro amico. Sul Gran Monte non ci son più tornato, senza però smettere di guardarlo. Andando e riandando con gli occhi sul filo di quella spina dorsale.

Il Gran Monte, per noi della pianura, è da sempre la prossima collina. Quella che ti spinge a salirla per vedere, da lì, cosa c’è oltre. In fin dei conti, sta tutto qui. In quello che ti spinge alla prossima collina e da lì ancora avanti. Per vedere come è il cielo da lassù. Attraversarlo per intero, il Gran Monte, non lo si fa certo perché è una grande impresa e nemmeno per arrivare da qualche parte. Lo si fa per riconoscenza.

Ci sono volte in cui non puoi pensare di recuperare qualcosa che non c’è più. Ci sono volte in cui la cosa migliore da fare è ricominciare tutto da zero. Rifare le zaino e partire, come fosse la prima volta. Non per riprendere da dove avevi interrotto, ma come se davanti a te ci fosse solo un nuovo viaggio. Verso la prossima collina.

Nei pressi di Punta Montemaggiore – foto S.D’Eredità
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Un passo dopo l’altro sulla cresta Val d’Inferno

di Saverio D’Eredità

Non c’è mai niente di facile, da queste parti. Soprattutto, mai niente di scontato. O che sia quantomeno un po’prevedibile. In quanto terra di opposti, dove idilliaco e arcigno coesistono costantemente, la Carnia non si smentisce. Ti priva di punti di riferimento. Prendi le sue creste, ad esempio. O sono quelle dorsali mansuete, bovine, dove pascolare in serenità lasciandosi cullare nei grandi spazi, o sono fragili castelli tutti in bilico e precarietà. Sono controverse, le creste. Sono l’ossatura delle montagne, l’esoscheletro che le tiene appese al cielo. Ma non tutte, perché altre te le devi immaginare. Non dev’essere un caso che a “pensare” e poi intrecciare i passaggi di questa cresta fossero stati due assi come Ettore Castiglioni e Gino Pisoni, nel 1939. Castiglioni stava battendo le Carniche per realizzarne la prima guida CAI, e pensò bene di inanellare tutti i i pinnacoli della lunga cresta che dalla Forcella Val Grande arriva fino ai Brentoni. Eppure, non è esattamente una cresta logica. Districarsi tra questi denti scheggiati è un tormento non da poco, una specie di esercizio mentale dove alla fine vince chi riesce a scendere ad un compromesso sufficiente con una serie di cose: sicurezza, velocità, curiosità. Non si può essere troppo ortodossi, mentre si fa l’elastico su questa specie di yo-yo di calcare sbrecciato, che poi ogni tanto – vedi? gli opposti, le contraddizioni che ti stupiscono – ti regala momenti di pura delizia salendo alle vette. Del resto, come si fa a non fare una visita a quella cima beccuta dal nome Pinguino (solo per il nome, andrebbe salita), o alla baricentrica Torre Val d’Inferno o ancora alla Torre Innominata col suo libro di vetta che è una specie di bottiglia dei naufraghi. Salendole scopri il dono della roccia magnifica, appena dopo aver lasciato pensieri e capelli bianchi in traversini che te li raccomando. Ci sarebbero un sacco di considerazioni da fare, azzardando paragoni con la vita e gli stati d’animo, andando in su e in giù in qua e in là su questa cresta che poi è cresta solo ogni tanto e quando gli pare a lei. Che sa anche respingerti o scambiare le carte (vero, Torre Evelina?) ma noi che appunto non siamo troppo fissati con i numeri ma ci piace il gioco in sé, una soluzione l’abbiamo trovata lo stesso. Si, si potrebbe ricavarne un po’di lezioni sulle cose del mondo, ma per oggi preferiamo rimanere concentrati sul presente. Un passo dopo l’altro. E occhio eh, che non si sa mai. Un po’come la vita, in effetti.

La cresta Val d’Inferno ben visibile a destra. A sinistra la piramidale cime Ovest dei Brentoni – foto S.D’Eredità
A fil di cielo: Carlo Picotti nel tratto di cresta che precede la Torre Val d’Inferno
Sospesi: caratteristica lama prima del Pinguino – foto C.Picotti
Saverio D’Eredità risale la fessura sotto la Torre Val d’Inferno – foto C.Picotti
Traverso delicato sotto Punta Anna -foto C.Picotti

Cresta Val d’Inferno

(Alpi Carniche – gruppo dei Brentoni)

Difficoltà: dal II al IV

Dislivello: circa 500 mt (saliscendi) e circa 1500 di sviluppo

Roccia: di qualità varia, da friabile a molto buona

Prima salita: Ettore Castiglioni e Gino Pisoni, 13 luglio 1939

Prima Invernale e solitaria: Mario Di Gallo, 20 gennaio 1990

Itinerario n. 11 della Guida A. Carniche Occ.li

Nel suo genere, più un’eccezione che una regola, considerando che le Carniche non abbondando di percorsi di cresta. Castiglioni e Pisoni nel ’39 hanno saputo immaginare un percorso di grande fantasia ed eleganza, destreggiandosi tra torri e pinnacoli e toccando ben 5 cime tra la Forcella Valgrande e la forcella che separa la Torre Evelina dalla Cima Brentoni Est. In totale sono oltre mille metri di dislivello e quasi duemila di sviluppo su terreno esposto, spesso su roccia friabile, ma anche incredibilmente solida (soprattutto salendo al Pinguino, Torre Val d’Inferno e Torre Innominata). Ne risulta una specie di “grande course”, molto interessante e decisamente alpinistica anche se le difficoltà non superano il quarto. Necessaria una corda da 50 metri, qualche friend e chiodi per evenienza. Lungo il percorso si incontrano 4 brevi doppie (vivamente consigliate!) e – a seconda dell’esperienza e grado di confidenza – potrà essere necessario effettuare brevi tiri di corda, in particolare nel traverso (delicato, noi l’abbiamo trovato verglassato) sotto Punta Anna e nella salita alla Torre Evelina. A onor del vero su quest’ultima, per pochi metri, non siamo arrivati: la fessura finale ci è parsa decisamente friabile seppur fattibile. Abbiamo quindi optato per l’aggiramento della Torre per rampa a sud e attrezzato una breve doppia per entrare nel canale sotto la forcella (1 ch. vecchio in loco+1 ch.nostro e kevlar nuovi).Rispetto alla relazione nella nostra guida Alpi Carniche occ.li, segnaliamo che nel tragitto prima del Pinguino sono 2 e non 1 le doppie da eseguire, mentre la salita a Punta Evelina presenta roccia friabile in finale. Forse è possibile salire per la parete sud più a sx e quindi completare integralmente la cresta (ovviamente se qualcuno ha info saremo ben felici di correggere e aggiornare!)

Sguardo a ritroso per Carlo Picotti verso la lunga cresta Val d’Inferno – foto S.D’Eredità

Le potenti creste della Cima dei Preti

di Saverio D’Eredità

Potenti le creste della Cima dei Preti! Da qualunque parte abbia osservato questa montagna due aspetti hanno sempre catturato il mio sguardo. Le sue grandi creste e le inconfondibili lastronate calcaree del versante nord est. Le prime non sono semplici linee spartiacque, ma possenti nervature che risalgono al vertice della vetta come spine dorsali di colossali draghi cristallizzati nell’atto del salire. Ogni volta che ho provato a misurare gli sviluppi mi sono scontrato con gli inganni delle prospettive e della profondità delle loro radici, affondate nelle valli invisibili. Le imponenti lastronate inclinate ne accentuano invece le drammaticità, lasciando sempre spiazzati circa la loro reale inclinazione e conferendole un tono quasi enigmatico. Continua a leggere