Bruno guarda la Valparola

di Marco Berti

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Il primo incontro 37 anni fa. Ero un amico di Fabrizio, suo figlio.
Stavo studiando, come sempre con poca voglia, nel giardino di casa, a Villanova di Borca di Cadore, dove inizia la strada di Taulen Marceana, quella che porta al piccolo paese di Serdes e poi a San Vito di Cadore.


Ogni tanto guardavo il Pelmo e l’Antelao. Che senso aveva studiare in una così bella giornata? Al tempo avevo già iniziato a “giocare” all’alpinista. Fabrizio stava partendo per una gita con suo padre, Bruno. Meta della giornata era il rifugio “Fonda Savio” sui Cadini di Misurina. Mi chiesero se volevo andare con loro. Non aspettavo altro. Chiesi a mia mamma. Montai in macchina. Lo zaino era già pronto. Al ritorno dalla gita Bruno era sconvolto. Si era preso una bella responsabilità nel portare un ragazzo che non era suo figlio, che durante la gita andava avanti e indietro come un cagnolino e che si arrampicava
ovunque. Con Fabrizio l’amicizia è rimasta, è quella di due amici che condividono ricordi dell’adolescenza mentre con Adriano, il figlio più giovane, ho condiviso sogni apparentemente impossibili. Lui voleva fare l’attore, io sognavo le grandi scalate himalayane ed eravamo entrambi determinati nel realizzare i nostri obiettivi.
Adriano è una persona che stimo profondamente. Lui, oggi, è un apprezzato attore di teatro e con una notevole carriera artistica. Io sono riuscito a toccare e a realizzare i miei sogni sulle montagne dell’Himalaya ed in giro per il mondo.
Bruno divenne nel tempo, più di un amico. Era un parente stretto con il quale confidarmi e soprattutto condividere le mie scalate sulle Dolomiti e poi quelle extraeuropee, in particolare quelle sulla catena himalayana. Scalate sognate e mitizzate nel periodo adolescenziale. Sicuramente un amico speciale, la persona che cerchi. Quando parlavo e parlo di lui lo descrivevo e lo descrivo come “il mio papà di Roma” senza nulla togliere a Sandro, mio papà, altra persona speciale.
Bruno era orgogliosamente romano ed il suo amore per la montagna non era secondo a nessuno. Spesso mi raccontava con entusiasmo di una sua scalata giovanile sull’Adamello. Di gite ne abbiamo fatte tante insieme. Lui sempre con il cappello tirolese, camicia  a scacchi e pantaloni di velluto alla zuava. Amava fotografare e fare filmini con il superotto. Certi ricordi delle nostre escursioni sulle Dolomiti sono immagini nitide e indelebili.
Gli anni passano, io sempre in giro per il mondo da dove gli mandavo le cartoline delle mie spedizioni. Con orgoglio teneva appeso in casa il manifesto della mia prima conferenza. Con altrettanto orgoglio ero felice di sapere che un mio “show” stava insieme a quelli più importanti e innumerevoli di Adriano. Il tempo passa. I miei capelli sempre più radi, la mia barba sempre più bianca e Bruno sempre più stanco. La sua voce sempre più flebile. Nell’ultima telefonata gli raccontai che di lì a pochi giorni avrei parlato, durante un’importante conferenza, accanto a Reinhold Messner, quel Messner del quale, tanti anni prima, leggevamo le prime grandi ascensioni sugli ottomila. Ero felice di averglielo potuto dire, di aver condiviso con lui anche questa soddisfazione. Sapevo che sarebbe stata l’ultima volta. E’ stato l’ultimo saluto. Mi piace pensare che poche ore dopo se ne sia andato per sempre in Valparola, luogo che lui amava molto, dove i prati sono ampi e i sentieri salgono dolci.

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Marco e Bruno in Cima all’Averau   foto arch. Berti

E’ autunno, le giornate sono belle. Nei paesi del Cadore poche persone. Le cime più alte cominciano ad essere timidamente imbiancate. I boschi di conifere regalano colori rilassanti, dal rosso al marrone senza dimenticare il giallo e l’arancione,  e poi sugli ampi prati, tutte le sfumature del verde. L’aria diviene tersa e la vista riesce a spaziare fino al fondo alle vallate dopo aver accarezzato le pareti delle montagne. Gli alberi, le piante e la terra hanno un profumo intenso. Tanto silenzio, cercato. Supero il Passo Falzarego e scendo verso la Val Badia. Penso a Bruno. Sto attraversando la Valparola. Alla mia sinistra il Sass di Stria, alla mia destra il Lagazuoi. Più avanti il museo della Grande Guerra e poi il rifugio Valparola. Guardo i prati, il laghetto, l’arco di cime rotte del Settsass. Con me c’è Caroline, mia compagna di cordata e di vita.
A Bruno piaceva la Valparola e la parete ovest del Lagazuoi la domina. Perché non aprire una nuova via e dedicarla a Bruno? Propongo a Caroline questa idea. Ne è entusiasta.
Cerchiamo di capire dove salire. Studiamo gli itinerari che altri alpinisti hanno aperto in questo settore della parete. In un primo tentativo ci muoviamo su una prima fascia di rocce. Quindici giorni dopo saliamo più a destra, lungo una serie di camini e di placche.  Arriva il freddo ma insistiamo su quella linea di salita. Piazzo alcuni chiodi per rendere più sicure le soste. Chiodi funzionali anche per scendere velocemente in corda doppia.
Ogni volta avanziamo per circa duecento metri. Arriviamo a metà parete ma non sono soddisfatto. La roccia è bella, l’itinerario è intuitivo e sale logico, l’arrampicata è divertente e la roccia è buona ma non mi piace, “non lo sento”.
Arriva l’inverno. Poca neve. Io e Caroline vorremmo affrontare la via già in parte tracciata, aspettando che tutto si ghiacci ma l’inverno, quello vero, quello tutto bianco non arriva. Cominciamo a pensare che dobbiamo rimandare l’obiettivo alla prossima primavera. Nei mesi successivi andiamo ad arrampicare altrove.
Cade la neve. La montagna diventa invernale. Un’ascensione veramente alpinistica. Guardo Caroline: “Ritentiamo? Ti fa piacere se torniamo sul Lagazuoi e andiamo ad aprire la via per Bruno?”. La risposta è scontata. Caroline, con la testa, è già sulla parete.
Il sabato mattina montiamo in macchina e poi su, fino al rifugio Valparola. Andiamo a guardare la nostra parete, la parete per Bruno. Decidiamo di lasciare le linee di salita autunnali. Affronteremo un settore più a sinistra. Torniamo a casa, a Borca. Andiamo a letto presto. La temperatura nella nostra stanza segna  i meno tre gradi centigradi. Domani dovremo essere all’attacco prima che il sole illumini la parete.E’ domenica. Scendiamo dalla macchina. Vento freddo. Il parcheggio del rifugio Valparola è quasi vuoto. Entriamo. Le signore dietro il banco del bar sono assonnate ma come sempre gentili. Ormai ci conoscono. Beviamo un infuso caldo e calziamo gli scarponi. Abbiamo deciso di salire leggeri. Nello zaino poche cose. Vogliamo essere veloci. La parete è alta cinquecentocinquanta metri, non molto ma le giornate sono corte. Una corda da 60 metri. Quattro chiodi da roccia e due da ghiaccio. Una decina di moschettoni e tanti cordini. Piccozze e ramponi. Borraccia d’acqua, un termos di te e qualcosa da mangiare. Si parte.
Attraversiamo la strada che porta dal Falzarego alla Val Badia e poi dentro nella neve alta che ci arriva fino al ginocchio. Batto traccia e cerco la strada più logica anche se non è la più corta per arrivare alla base della parete. Comunque siamo veloci, siamo allenati. Ci fermiamo solo per toglierci la giacca, cominciamo a sudare, e poi si riparte.
Ogni tanto mi volto a guardare giù il nostro solitario tracciato che interrompe la continuità del bel manto di neve,  macchiato di verde da qualche pino o di grigio da qualche grande masso. E’ bello fare fatica, sudare e sentire l’aria fredda dell’inverno che ti accarezza il volto. Arriviamo alla base della parete dopo un ultimo tratto ripido. Attraversiamo a sinistra per raggiungere l’attacco di quello che abbiamo individuato come l’itinerario della via per Bruno. Mettiamo l’imbragatura. Calziamo i ramponi e ci attacchiamo il materiale. Moschettoni, chiodi e altro. Caroline si mette il casco. Io, volutamente, l’ho lasciato in macchina. Sono convinto di avere la testa più dura
dei sassi. Sfiliamo la corda e ci leghiamo ai due capi. Parto io per primo, poi seguirà Caroline. Ci alterneremo nella guida della cordata.In lontananza la Marmolada comincia ad illuminarsi. I ramponi affondano nella neve ma poi sotto grattano sulla roccia. Affronto il passo successivo affidandomi alla sensibilità di quasi quaranta anni di montagna e alpinismo. Sento quando la punta del rampone fa leva sull’asperità della roccia. Uso anche la piccozza ma sulla roccia preferisco usare le mani. Non ho freddo. I vecchi congelamenti alle dita, ormai otto, non mi danno problemi. I sessanta metri della corda sono finiti. Attrezzo una sosta. Non uso chiodi. Dico a Caroline di partire, di raggiungermi. In poco tempo è al mio fianco. Ora siamo dentro la parete, è iniziata la nostra avventura per
Bruno.

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Marco Berti in apertura

foto archivio Berti

Guardiamo in alto per capire insieme dove è meglio salire. Caroline riprende la scalata, adesso guida lei la cordata.E così ci alterniamo. Una volta sale lei per prima, il tiro successivo salgo io e così sempre più su. Canali di neve, creste di roccia si susseguono. Siamo veloci. Il sole ci raggiunge o meglio, noi entriamo dove la parete è illuminata dal sole.

La valle si allontana sempre più. Il rifugio Valparola è sempre più piccolo, lì in fondo.
Progrediamo velocemente. La roccia è solida. Ripidi canali innevati segnano la parete come bianchi serpenti sinuosi. Noi avanziamo dopo ci porta l’istinto, dove è più logico salire, dove guadagniamo quota senza perdere tempo. Non mettiamo chiodi.
Ho l’impressione di essere salito molto in alto ma capisco che la cima è ancora lontana. Continuiamo.Caroline supera velocemente una cresta, poi salgo io un lungo e ripido pendio fin sotto una parete di roccia verticale. Forse si può salire raggiungendo un canale sulla destra, oppure affrontare la parete direttamente, lungo un camino verticale. Caroline mi raggiunge. Decido di andare su direttamente lungo il camino. Le chiedo di fare anche quel tiro da capocordata. Proseguo.I ramponi grattano la roccia. Salgo un po’ con la piccozza e un po’ con le mani. Si sale di tecnica. Le punte dei ramponi stanno su piccoli appoggi di roccia. La neve è farina e nasconde gli appigli per le mani. Una decina di metri e provo a mettere un nut. La fessura sulla roccia si apre. Ci metto comunque un moschettone e ci passo dentro la corda di cordata. E’ una protezione inutile, forse anche pericolosa, ma psicologica. Riprendo a salire e con un buon ritmo supero un ripido tratto innevato che porta ad una piccola grotta da dove penso di poter recuperare Caroline.
Raggiungo la grotta. L’anfratto è sufficiente per potermici sedere dentro e tenere le gambe verso valle. Il rifugio Valparola è piccolo piccolo. Guardo dove infilare un chiodo, dove assicurarmi e assicurare Caroline. La roccia è compatta. Non c’è un buco o una fessura utile ad accogliere qualcosa. Questi sessanta metri sono stati impegnativi, un’arrampicata delicata, quasi in punta di piedi perché in punta di ramponi. Ho totale fiducia nella capacità di Caroline ma voglio e devo assolutamente attrezzare una sosta sicura. Mi
rialzo e comincio ad attraversare a destra.  Cinque metri sopra di me una fessura larga e massi incastrati. La raggiungo e con un gioco di cordini riesco nel mio intento.

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Il tratto finale della salita

foto archivio Berti

Mentre sistemo i moschettoni e blocco la corda di cordata sulla sosta che ho appena attrezzato mi guardo attorno. Un panorama mozzafiato. Guardo verso l’alto. La cima è a due passi. Il vento profuma di vetta. Penso a Bruno e mi monta un groppo alla gola e parlo da solo: “Bruno! Ce l’abbiamo fatta! Siamo fuori e la tua bellissima Valparola è sotto di noi!” Chiamo Caroline che parte veloce e poco dopo la vedo sbucare sotto di me dal “delicato” camino. Prima di averla al mio fianco mi pulisco gli occhi e la chiamo ad alta voce per cancellare la commozione dalla voce. Non è la commozione per un nuovo grande successo alpinistico (non lo è) ma è come tornare in montagna con il mio amico, il mio “papà di Roma”. Senza perdere tempo Caroline prosegue verso la vetta. Dopo poco mi chiama, è in cima. Recupero velocemente il materiale e affronto questo ultimo tratto di parete. Ancora arrampicata non banale. Neve e poi ancora roccia e alla fine la cresta innevata della cima. Arrivo sul bordo della parete e trovo Caroline che mi aspetta sorridente. Poi un bacio, sorrisi, siamo felici. Siamo stati veloci, in meno di tre ore siamo arrivati in cima da quando ci siamo legati in cordata.

Appoggio lo zaino e apro la tasca interna dove tengo il portafogli. Lì dentro c’è una piccola fotografia di Bruno che mi ha inviato Livia, sua moglie. La porto sempre con me. Lo guardo e sorrido. Gli faccio l’occhiolino. Mi sembra di sentirlo: “Bravo Marcolino!”. Solo a lui, in tutta la mia vita, ho concesso di usare il vezzeggiativo sul mio nome. Nessun altro ci deve provare.Inizia il tramonto. L’ampio insieme di torri e ripidi canaloni delle Cunturines, la verticale parete ovest della Cima Scotoni, le numerose cime del gruppo di Fanis e le bellissime Tofane passano gradualmente dall’arancione al rosso fuoco, le sfumature sembrano pennellate di Tiziano Veccelio che di queste montagne, le sue montagne, era innamorato. E’ vero, le Dolomiti sono magia, sono poesia, sono una sogno reale. Io e Caroline rimaniamo in silenzio ad ammirare quello che viene offerto ai nostri occhi. Questo è il premio per la nostra scalata. Silenzio. Vento che solleva polvere di neve. Freddo. La discesa è lunga, neve profonda anche fino all’inguine. A tratti il percorso è pericoloso. Passo dopo passo arriviamo poco sotto il rifugio Lagazuoi dove raggiungiamo la pista da sci che porta all’Armentarola. La risaliamo e poi prendiamo la pista che scende al Passo Falzarego. Con un paio di sci saremmo giù in un attimo. Non li abbiamo. Si cammina.

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Caroline e Marco in cima  

foto archivio Berti

 

Siamo al Passo. La funivia è ferma, ha finito da qualche ora il suo sali-scendi per portare sciatori e buongustai al rifugio lì in alto. Ormai è buio. I fari di una macchina che corre verso la Val Badia ci illumina. Caroline fa l’autostop per raggiungere il rifugio Valparola e recuperare la nostra di macchina. Metto in ordine il materiale da arrampicata.
In lontananza le ultime luci segnano i contorni della Marmolada, il Sorapiss si intuisce, la mole della Tofana di Rozes, sopra la mia testa, è ancora evidente. Un leggero vento mi accarezza la barba. L’aria profuma di neve. Mi guardo attorno e anche se il buio domina vedo tutte le montagne che ammiro e vivo da quasi cinquant’anni. Montagne dove ho sognato le prime avventure e dalla cui cima ho potuto guardare lontano e dove mi è stato permesso di sognare ancora più lontano.
E’ fatta. Penso a Bruno. Sono stanco ma felice. Questo è stato il mio modo per dirti “ti voglio bene”.

Lagazuoi (2.835 m)

Versante Ovest

“Bruno guarda la Valparola”

24 gennaio 2016 – Marco Berti e Caroline Schmitt a comando alternato

Descrizione generale

Divertente e gratificante salita prettamente invernale che si svolge sul versante ovest del Lagazuoi; dando le spalle al Rifugio Valparola, sale un po’ più sulla sinistra. Non è difficile ma può essere propedeutica per qualche giovane o neofita che vuole iniziare ad affrontare ambienti invernali. La salita è varia tra canali nevosi, pendii ghiacciati e tratti di parete di misto. Interessante, con qualche variante, per sciatori che amano il ripido. Tra gli anni ’80 e ’90 salivo d’inverno su questo versante per allenarmi sulla velocità per le spedizioni alpinistiche in Nepal e Tibet ed è stato sempre una bella esperienza. Questa volta sono salito con l’intenzione di “segnare” l’itinerario e dedicarlo ad una persona a me molto cara che non c’è più (ma che è sempre con me) e che amava moltissimo la Valparola.

Difficoltà: pendenza su neve e ghiaccio max 50° – su roccia 3° con passaggi di 4°

Tempo di percorrenza: Avvicinamento dal rifugio Valparola con neve fino al ginocchio 45 minuti

Salita: 2.30 h

Discesa: fino al Passo Falzarego 1.30 h

Protezioni: Non sono stati usati chiodi, solo un paio di friend e cordini su massi incastrati e clessidre.

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Il tracciato di salita

                                                                              foto archivio Berti

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