Quello che mancava

di Saverio D’Eredità

Alcune cose, c’è da dire, sono cambiate in meglio.

Ad esempio la libreria è molto più in ordine. I volumi sono accostati per genere, colore e dimensione. Non li devo più cercare per casa, ora in bagno, ora sulla sedia della cucina, sul comodino o chissà dove perché letti, appoggiati, riaperti e lasciati. Le pagine delle guide sono meno consumate di prima e sanno di patinato, niente più foglietti sgualciti, reduci da appallottolamenti in tasche di giacche (e magari pure lavati), ma chissà perché non buttati. Niente riviste accumulate e fogli strappati con relazioni di vie in vattelapesca che chissà mai avrai tempo e voglia di andarci. Le odio, le biblioteche ordinate, comunque. Mi sanno così di finto. Di così poco amore.

Ad esempio passo molto meno tempo a consultare i siti meteo. Non è un’impressione, è proprio il rilevatore di benessere digitale dello smartphone a dirmelo. I siti meteo si trovano molto in giù nella cronologia, sostituiti da più seri quotidiani online e posta. Meno ore passate a capire i modelli, incrociare i dati, fare congetture e piani a, b o c. Il meteo è un’idea più vaga, meno ansiogena e piuttosto occasionale. Sempre più spesso in questi ultimi tempi mi sono alzato la mattina, ho guardato il cielo e deciso se mi andava o meno di fare qualcosa. Mi preoccupa semmai il fatto che il tempo sia sempre uguale da mesi, ma quella è un’altra storia che ci riguarda molto da vicino anche se non sembra.

Di sicuro c’è che i programmi sono diventati più semplici. Niente contorsionismi per incastrare occasioni di socialità, impegni familiari, pranzi cene o peggio brunch (no, ecco, i brunch teneteveli proprio che manco la parola, sopporto). Meno corse in auto, meno farfugliamenti sulle mete, più disponibilità. Forse persino più serenità.

Eppure, nonostante tutto, qualcosa mancava.

Carlo Piovan sulla seconda parte della Dimai alla Punta Fiames – foto S.D’Eredità

Arrampicare non è (o era) “tutta” la mia vita. E’ tanto facile incappare in questa trappola, quanto difficile poi è uscirne. Mi sono sempre tenuto alla larga da questa totale immedesimazione, se non altro come forma di prudenza, del tipo che non si sa mai. Che se poi qualcosa va storto, della tua vita, che ne è? No, non è tutta la vita. Ma una parte di essa sì. Ed una parte è pur sempre qualcosa che consideri tuo. Che se manca, ecco, se manca te ne accorgi. Non puoi fare finta di niente. Non puoi mentire a te stesso.

Funziona così con le passioni, le passioni vere intendo. Che non saranno poi tutta la tua vita, è vero, ma se non ci sono ti rimane addosso la sensazione di qualcosa che manca. Un pensiero strisciante, insistente, simile a certi pensieri di ogni giorno (avrò chiuso la macchina? Ho le chiavi di casa?) che quando vai in giro ti senti un po’nudo e un po’ incompleto. Come uscire in ciabatte.

Cosa era che mancava quindi? La consultazione del meteo, delle guide o di un programma? Niente di tutto questo e tutto questo insieme.

Carlo Piovan all’uscita della Dimai alla Punta Fiames – foto S.D’Eredità

Le mie cartine topografiche, ad esempio. Ho passato più tempo su quei fogli colorati della tabacco – consumare dita e occhi su linee di sentieri rossi o neri, calcolare curve di livello o semplicemente ammirare affascinato le gradazioni di colori ed immaginare forme – che non su molti libri di scuola. Erano tutta la tua vita? No, certo. Ma erano parte di essa.  Era qualcosa di tuo.

Osservo Federico prenderle ogni tanto dal cassetto e aprirle sul pavimento. Mi chiede dove siamo e io gli dico “lì” anche se è una vallata dolomitica a caso. Mi chiede se quella è la nostra montagna e dove è il fiume. Credo che lui, come me, non veda tanto una cartina e dei colori. Quanto delle possibilità. Ciò che noi possiamo fare di noi stessi.

Sarà per questo che si dice “ho fatto” una via e non ho scalato? Che senso ha il fare di un qualcosa che semplicemente ti limiti a percorrere? Me lo sono sempre chiesto.

Quello che mancava più di tutto erano gli ultimi metri prima dell’uscita. Quelli che sono più belli perchè sempre più facili, che senti odore di cima, di aria che cambia, di luci diverse. Percorrendoli, quella mancanza mi è sembrata chiara. Quello che mancava è la capacità di rendere ciò che si è immaginato reale. Mano su mano, piede su piede, “creare” quindi “fare” o sarebbe meglio dire “fare sé stessi”. Ed era questo quello che mancava.

Quello che mancava era la inspiegabile leggerezza che ti accompagna poi, per ore, giorni, forse settimane. Come di un peso tolto dalla bocca dello stomaco che ti fa improvvisare respirare, come prima mai. Che ti fa sembrare tutto di nuovo aperto, possibile. Come Federico che guarda le cartine e mi chiede dove andiamo domani.

In questo periodo dell’anno, puntualmente, nella mia playlist ricompare October, che ascolto quasi fosse una ricorrenza. I giri semplici, incalzanti, di basso e batteria, rimandano luci e aspre e intense come quelle di certi autunni di fuoco. Erano due anni, quasi, che non lo ascoltavo. Quello che mancava forse allora era ascoltare October nella luce che si assottiglia sulle montagne del ritorno, la batteria di Larry Mullen jr al minuto 2.41 di Rejoice e pensare che sì, ancora tutto è possibile, c’è ancora tutto un mondo da immaginare ancora.

Traverso sulla via “Like a Vergin” – Media Vergine (Alpi Giulie) – foto E.Zorzi

Winter 8000 – l’epopea dell’alpinismo invernale sui giganti della Terra

di Saverio D’Eredità

Ad essere onesti e anche un po’in controtendenza rispetto ad un certo “perbenismo” della letteratura di montagna, dovremmo ammettere che la lettura delle imprese himalayane non è mai stata travolgente in termini di interesse. Eccezion fatta forse per un narratore (e personaggio) sui generis come Kurt Diemberger, i racconti di spole tra campi, bufere, ritirate, sofferenze e stati di anestesia mentale non permettono certo al lettore di immedesimarsi, ma al più di sedersi ed osservare come spettatori al cinema le gesta di uomini fuori dal comune. Soprattutto, una volta chiuso il libro e osservato estasiati le foto delle altissime quote, la storia appena letta rimarrà in quel limbo di ricordi di cose sì eccezionali, ma che di certo non cambieranno la nostra vita né il modo di pensare. Non me ne vogliano gli appassionati del genere, tutti abbiamo gongolato davanti ai libri di Messner fino alle più recenti imprese di Moro, ma oggettivamente c’è di meglio da leggere. Tuttavia Bernadette Mc Donald, una delle, se non la più importante narratrice di alpinismo attualmente, riesce ogni volta a stupire e tenere incollato il lettore. Da questo, nelle arti, si riconosce il talento. Mettere insieme le storie di alpinisti polacchi dalla pronuncia ostica, alle prese con la sfida ai giganti della terra nella stagione fredda e per giunta ormai non più attuali (si parla degli anni tra il 70 e i primi 2000), insieme a quelle più “mainstream” di un atleta specializzato come Moro, rischiava di diventare un esercizio di cronaca alpinistica senza molto di più. Invece ancora una volta dopo “I guerrieri dell’Est” la scrittrice canadese riesce a rendere avvincenti le vicende di uomini e donne che si sono ingaggiati in una delle ultime esplorazioni possibili in ambiente estremo. Scalare gli 8000 in inverno, infatti, è paragonabile a qualcosa di simile alle “saghe” polari Amundsen e Shackleton, o la corsa allo spazio. Un ambiente cioè non fatto per l’essere umano, non solo come difficoltà tecnica ma soprattutto per incompatibilità biologica. Prendiamoli così, come astronauti terrestri, quei folli determinatissimi polacchi, giapponesi, russi o italiani. Capaci di resistere con il ghiaccio nei polmoni nel disagio più assoluto per settimane se non mesi dentro tendine abbarbicate su gradini di neve, a superare pendii con neve al petto, a torturare il corpo in una specie di sublime arte della sofferenza. Una definizione del grandissimo Vojtek Kurtyka – uno dei protagonisti di quella generazione- e che si ritrova come un filo sottile in ognuno dei 14 capitoli (uno per ciascuno ottomila, descritti in ordine cronologico di scalata) sui quali è costruito il libro. E “l’arte di soffrire” è il titolo dell’introduzione in cui la Mc Donald spiega come ha preso avvio questa avventura letteraria, dal primo incontro con Andrej Zawada – nome poco noto al grande pubblico, ma vera mente strategica che ha animato la corsa polacca agli ottomila della scuola polacca – fino alle storie più intime di quegli uomini disposti veramente a tutto. Accanto alla cronaca, infatti, emergono i tratti più personali, le motivazioni profonde, il contesto sociale e quello familiare che McDonald non teme di mettere in luce. Come sempre nei suoi libri, gli alpinisti perdono la corazza dorata da eroi greci che si tramanda nella narrazione ufficiale, per scoprirsi fragili, contradditori o egoisti come tutti. E questo è indiscutibilmente il merito di una grande narratrice.

Precario

di Saverio D’Eredità

Ho chiesto al Batti delle foto elettrizzanti della gita dell’altra volta. Anche se era stata una giornata un po’ così, senza arte né parte, ero certo che il Batti la sua foto “alla Batti” me l’avrebbe tirata fuori. La classica dello sciatore nell’istante della curva, un poco grandangolata per dare profondità e un po’ di “wow”, con il soggetto nella terza parte dell’inquadratura e quel bilanciamento del bianco tecnicamente ineccepibile, ma vagamente insipido. La classica foto alla Batti – che ahilui – non può mai contare su performer di riguardo, gente bene in piega, con lo spruzzo, colorata, arrogante, sbarazzina, che sa sciare, che sa fare, che sa tutto. No, lui c’ha gente come noi, il Biondo al più per aggiungere un tocco da south rock americano, altrimenti il Pasc o me. Me che son il peggiore anche perché non gli faccio mai la curva dove dice lui per la foto. E nemmeno dove dico io. La curva viene dove deve venire, io sta cosa ancora non la domino bene, quindi la foto viene, inoppugnabilmente, male.

Ma la foto elettrizzante, al Batti, l’avevo chiesta perché volevo parlare del Leupa. Anzi a dire il vero la gita l’avevo approvata “così” potevo parlare del Leupa. Sapete, sto un po’in fissa con sta cosa che se non parlo io delle montagne, specie quelle un po’ diciamo “di nicchia”, poi non ne parla nessuno. E quindi su Google non si trovano. E quindi praticamente è come se non esistessero. Solo che il Leupa / Lopa in sloveno, con quella quota facile da ricordare (2402, bel numero), non ha proprio niente di interessante. Non è brutta, forse al più anonima. Più che brutta è “non-figa” che tutte le montagne pare siano fighissime e invece no, alcune non sono niente. A parte essere montagne, ovviamente. Ma quelle del Canin, poi più che montagne-montagne sono tipo cippi lungo la strada. Tutte circa uguali, squadrate, tarchiatelle, striate, poco alte (non basse, solo poco alte). Il Leupa pure è così. A forma di rettangolo, con una cresta piatta come cima, e le regolari stratificazioni calcaree che a me, magari un po’prosaicamente, ricordano le pieghette dell’omino Michelin. Tutte le cime del Canin son un po’come l’omino Michelin, quel fisico non slanciato, pacioccoso diciamo ma pur sempre ingombrante che se si sposta fa un casino.

Il Batti di foto me ne tira fuori due, pure un po’deluso che non c’era molta ispirazione (a nord, con il cielo terso, la poca neve, le solite cime, uffa). In una ci sono io, un puntino rosso in mezzo all’altipiano che punto dritto verso la nord del Leupa. Probabilmente in quell’istante, stavo pensando a cosa dire del Leupa, quindi potremmo dire che è una foto matrioska, oppure aristotelica a seconda del vostro gusto, ma in quel momento a me venivano in mente più che Leupa Aristotele e Matrioske, gli influencers. Che, poracci, devono sempre dire qualcosa della loro giornata – tipo me, adesso, solo che non ci vado a fare la spesa con ste cose che vi racconto – e deve essere una vitaccia, eh, sempre qualcosa da dire di una giornata.

Altopiano del Poviz – verso il Leupa – foto M.Battistutta

Vabè visto che non son influencer scrivo solo se mi pare oppure ho una mezzora libera, o voglio che il tag “Leupa” compaia più spesso su Google. Solo che il Leupa non ha niente di interessante. La parete, abbiamo detto. Banconate calcaree sia compatte che fragili, che a mio modesto quanto insindacabile modo di vedere, sono praticamente inscalabili. Si si, litighiamo pure però prima andate sul Leupa e io vi guardo da sotto. Chiamiamo anche i maghi del misto o del dry, una Angelika Rainer se si degna di venire qua e vediamo. Se agganci una picca una. Se ti proteggi a meno di 25 metri. Se quello che metti come protezione tiene più della vostra giacca. Vediamo. Tutti bravi. E poi: tiè c’è il Leupa. Che Buscaini, secondo me, è andato in fiducia quando gli hanno detto che c’erano 2 vie. Secondo me manco è andato a vedere che diciamolo, su, chi vuoi che vada a scalare 150 metri di quella roba lì. Io il canale friabile e la cengetta a sinistra e lo spigolo etc mica li ho visti. Ma lo capisco, il Busca, anche lui ogni tanto ha spuntato la lista perché andava di fretta magari. Peccato perché io dal Busca tiro sempre fuori robe interessanti, anche con 3 nomi una data e un “1 chiodo lasciato” che ci ricamo su le favole. Invece il Leupa niente. Ha due creste, sappiatelo. Una Est, una Ovest (facile). Non ha un versante sud (si ovvio che ce l’ha, ma voi fate come se non). Due normali. Una Est, una Ovest (facile). Quella ovest, “Celo”! Un inverno di anni fa, con Stief e Cricca, di quei tempi che la cima era il must. Che ti presenti “sciallo” e dopo neanche 5 minuti sei lì che ti muovi tipo gli acrobati di Oceans’eleven. Cengette spioventi, ghiaccietto, canalino-ok, uscita-non ok, cresta – sospiro – giù subito e piano e aspetta che vedo di piantare un chiodo valà – ah guarda c’è! (1 chiodo lasciato, avevi ragione Busca) – e via di doppia sul chiodo che ti pare un pilone. La est mi mancava, sarebbe pure la normale, ed è l’unica traccia digitale in Google (grazie Raffaello!). Cresta a tratti esposta, passaggio di II che d’inverno sarà una esaltante goulotte di ben 3 metri, cresta saliscendi. Facile. E qui veniamo alla seconda foto. Nella seconda foto ci sono sempre io, che traverso con fare delicatissimo e l’occhio sgranato sta cengetta che in realtà è pure larga eh, e avrà un saltino che so di 1 metro? e poi sotto c’è neve. Ma io paio sospeso sull’abisso. In quella foto c’è tutta la mia, la nostra, la sua (del Leupa), precarietà. Sarà il movimento che il Batti ha preso, sarà il casco, lo sfondo non lo so, ma lì c’è tutta la precarietà di questo nostro andare, di questo nostro essere. Se solo ci fosse più neve. Se solo sapessi se posso calarmi. Se solo capissi perché ci tenevo tanto a parlare del Leupa. Questo monte che tutti fingono di conoscere (“guarda! quello è il Leupa” dicono indicando un punto tra la Cima Confine e il Sart, che magari l’hanno letto su Peak Finder un attimo fa) e nessuno ci è stato mai. Questo monte che nessuno si fila, ma poi, se non c’è o se un giorno non lo vedi, ti dispiace. Come l’amico – che chiameremo non so, Fred – che c’è sempre a tutte le serate, ma non dice molto, non è antipatico, nemmeno simpatico, ma si ricorda del tuo compleanno e magari ti porta a casa quando sei sbronzo. Fred c’è. Il Leupa c’è. Ma se una volta non lo trovi ci stai male.

Però senti questa precarietà, questo senso di qualcosa che non sai mai quanto dura. Me lo si legge in faccia, nella piega del ginocchio, nelle mani che scorrono la roccia ed è precaria anche lei. E quindi non hai certezze più.

Sulla cima non ci siamo andati, poi. Era appunto un po’troppo precaria, quella poca neve, quel poco ghiaccio, quel poco tutto, anche la voglia magari. Siamo andati per poterci ricordare questa montagna e ne siamo tornati con meno certezze di prima. La montagna, a me, altro che fiducia in sé stessi e quelle cose che ci raccontano, mi da sempre meno certezze. Queste poi, mai. Ma forse è proprio questa assenza a rendere tutto molto interessante. E penso di nuovo agli influencers, che sono sempre certi di tutto, hanno sempre qualcosa da dire, mentre io oggi mi tengo stretta questa foto, questa precarietà che dovremmo sempre avere a cuore, come le montagne che nessuna sa dove sono, eppure ci sono sempre. A fare da sfondo. A portarci a casa.

Nei pressi di Forca Sopra Poviz, verso la cresta del Leupa – foto M.Battistutta

Like a Virgin – Notizie e ringraziamenti dal Vallone di Riofreddo

di Emiliano Zorzi

Come d’uso per il blog, Sav mi ha chiesto un breve testo-storia per accompagnare la notizia dell’apertura di “Like a virgin”, sulla solare faccia sud-est della Media Vergine. Data la pigrizia e il fatto che mettersi a raccontare si va a finire a dire sempre le stesse cose, butto giù semplicemente una serie di ringraziamenti e incoerenti notizie sulla via e dintorni.

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La bellezza è un frutto da cercare con pazienza

di Saverio D’Eredità

Se vi dovesse venire la bizzarra idea di fare una via sul Planja, in Slovenia, nascosta dentro il vallone della Mlinarica (per tutto il resto cercate su Google, Wikipedia, Summit Post o – come si faceva una volta – aprite una cartina), dovrete parcheggiare al 38° tornante della strada di Passo Vrsic. Se ci farete caso, sul muro del rudere che sta proprio sul tornante, noterete una scritta in inglese che dice più o meno così: “Caro straniero, vai ora a scoprire il più grande tesoro sloveno. Dimentica tempo+doveri. Segui la strada proibita nella foresta, vai e prendi la strada verso l’alto.Credi in te stesso e infrangi i tuoi limiti. É magico. Prendi il mio amore e combatti i confini” Continua a leggere

Lo Zaino

di Carlo Piovan

Grazie alla fortuita complicità di due amici, ho scoperto da poco questa pregevole rivista, uscita quasi in sordina nei territori esterni alla Lombardia.

Inizio a sfogliare il decimo numero, nella sua versione on line e ne apprezzo da subito la qualità dell’impaginazione e delle immagini che nulla hanno da invidiare alle più rinomate riviste di settore.

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Cogliere l’attimo – Fugaci apparizioni invernali sulle pareti del Canin

di Saverio D’Eredità

Brutte, sporche e cattive. Così potremmo definire le tozze e sgraziate pareti del Canin. Questa montagna che domina la scena dell’orizzonte friulano è veramente un massiccio dalle molte forme e dalle molte facce, che sfugge ad ogni catalogazione. Una montagna “trasformista”, che riesce ad emanare sempre un certo fascino, un’attrazione inspiegabile e – confessiamolo – un po’torbida. Perché tutto si può dire tranne che queste pareti che orlano i desolati quanto misteriosi altipiani carsici, siano propriamente “belle”. Dalla loro non hanno praticamente niente. Né l’estetica, essendo più simili a dei muretti a secco, per giunta bassi, né la qualità della roccia che dire scadente è praticamente farle un complimento, né in realtà la storia. Qui l’alpinismo è passato un momento ed è andato via presto. Poche tracce, preistoriche ormai, su qualche colatoio appena accennato o spigoli che meglio perderli che trovarli. Continua a leggere

Contaminazioni carniche

di Saverio D’Eredità e Carlo Piovan

L’accensione del quadro elettrico dell’auto mi ricorda che oggi è un giorno un po’diverso dagli altri. Lo so benissimo – chi non si ricorda almeno del proprio compleanno? – ma la cosa mi lascia più che stupito, divertito. Non è poi tanto usuale decidere di svegliarsi alle 5 per andare ad arrampicare, il giorno del proprio compleanno. Potrebbe essere una giornata di relax, chiamate, messaggi, giri da offrire e qualche regalo inatteso. Invece oggi ho la strana, inebriante sensazione di essermi svegliato prima di me stesso, tentando ingenuamente di annullare il Tempo per consegnarmi ad un altro tempo, fatto di tiri di corda, di passaggi, movimenti. Si può ingannare il Tempo? Continua a leggere

Oltre la paura – la raccolta di racconti di Nicola Narduzzi

di Saverio D’Eredità

Perché si scrive di alpinismo? Domanda ostica e scivolosa, la cui risposta è difficile tanto quanto quella che, logicamente, la precede. Ovvero, perché l’alpinismo?
Se le risposte ai “perché dell’alpinismo” sono tante almeno quanto i suoi praticanti ed appassionati, quella della scrittura dovrebbe (o almeno, potrebbe) percorrere strade più lineari. Invece così non è. Sembra anzi che le due domande siano complementari l’una all’altra, e la risposta (o tentativo) che vi si può dare ad una possa offrire un aiuto per approcciare la sua gemella.

Ne azzardiamo una. Si scrive di montagna anzitutto perché la montagna è essa stessa narrazione. Narrazione dell’ascendere e del tornare, di ostacoli e superamenti. Di un farsi Tempo e quindi Storia. Tutto lo svolgimento di un’ascensione ripercorre gli archetipi del “cammino dell’eroe” sul quale si fonda la struttura narrativa dell’epos. Il racconto della Montagna, o meglio sarebbe dire del dialogo tra Uomo e Montagna, richiama l’essenza stessa del narrare, in quanto ogni storia è di per sé movimento verso qualcosa, di un movimento innescato dal desiderio. Quindi scrivere di montagna sembra essere la naturale conseguenza dell’andare verso la montagna, la testimonianza di una presenza. Da qui la complementarietà tra il perché della scrittura e il perché dell’alpinismo.
Ma di cosa parla, oggi, il racconto di montagna?
Imprigionato nello schema consolidato del “récit“, questo genere non è stato capace nel tempo di evolversi e rinnovarsi, ripetendo invece moduli e linguaggi standardizzati. Ciò ha limitato fortemente l’espandersi della letteratura (e quindi la cultura) alpinistica alla stretta cerchia degli addetti ai lavori, chiudendosi in una desolante autoreferenzialità.
Se un tempo tutto ciò poteva ancora avere un senso, in quanto legato alla più vasta tradizione del racconto di avventura (le grandi esplorazioni dei “poli” della Terra, l’avvincente saga del sestogrado o delle spedizioni himalaiane), oggi par quasi che il semplice fatto dell’andare in montagna possa già di per sé un motivo per scriverne, senza tuttavia scavare in quella profondità interiore che la Natura ci suggerisce. Fatte poche eccezioni, anche gli esponenti di spicco del mondo alpinistico sembrano essere incapaci di trasmettere davvero le motivazioni, i sentimenti e il percorso umano e che muove l’intera esperienza alpinistica, limitandosi ad uno schema ripetitivo, spesso scontato e in fondo asettico.
Gli strumenti digitali e del web hanno spalancato le porte della narrazione ad una miriade di potenziali scrittori, ma ciò ha portato più ad un inflazione dello strumento che non ad una suo vero rinnovamento. Ci troviamo così oggi ad assistere al proliferare di memorie o biografie di “top climber” più o meno plasmate da esigenze di marketing da un lato (dove anche il reale valore di quelle che un tempo chiamavamo “imprese” risulta assai annacquato) e all’esplosione di bloggers, influencers e nuovi media che dispensano pensieri spesso di un livello di poco superiore a quello dei temi dell’elementari. Sempre però con un occhio all’autopromozione. Sconfortante.

Nicola Narduzzi appartiene alla schiera degli alpinisti della domenica, senza che questa definizione risulti spregiativa: parliamo di tutti coloro che frequentano la montagna per pura passione, senza scopi professionali o commerciali. E’quindi un buon rappresentante di una sorta di ceto medio (si passi la definizione) che oggi sembra essere evanescente, schiacciato tra il mondo dei “pro” e la miriade di narratori improvvisati che riversano su web poco più che il resoconto della gita. Ma con una differenza. Anzitutto perché Nicola è in possesso di una solida cultura alpinistica che gli permette di collocare i suoi racconti nella giusta prospettiva storica, omaggiandola e in qualche maniera interpretandola. In secondo luogo – dettaglio non scontato – sa “usare” le parole, scegliendole con quell’attenzione e cura che dovrebbe essere un pre-requisito prima di mettersi alla tastiera, non un optional.
E qui veniamo al punto. Nicola non parla “solo” di alpinismo. Ma parla dell’alpinismo (e della Montagna) come chiave di accesso ad un percorso introspettivo più complesso, in cui quella che superficialmente è una semplice, per quanto accesa passione diventa rappresentazione della vita stessa. Tenta quindi, Nicola, quella sintesi cui accennavamo all’inizio: ovvero di riportare la scrittura verso il senso stesso dell’alpinismo, cercando attraverso di essa di fornire le risposte alle domande che l’alpinismo pone. Nello scrivere, infatti, non solo si rivive la salita, ma si rielabora la persona stessa, le sue motivazioni, la sua proiezione nel mondo. Nella Montagna, Nicola non si “purifica” come una ormai logora visione di questa disciplina continua a trasmettere (Montagna=purezza versus Città=corruzione, Alpinismo=ideale versus Vita reale=compromessi e frustrazione), quanto piuttosto trasporta qui il proprio dissidio, la problematicità del crescere e del confrontarsi. E se non servisse a questo, l’alpinismo, a cos’altro? E lo scrivere, poi, non finirebbe per diventare puro esercizio retorico, o peggio autocelebrativo?

In bilico tra i due poli della spettacolarizzazione delle imprese o di un neo esistenzialismo di bassa lega, chi scrive di montagna troppo spesso ignora il proprio essere – semplicemente –  degli esseri umani: deboli, imperfetti, insicuri, incoerenti. In tutta la letteratura alpinistica vengono in mente pochissimi esempi di alpinisti/scrittori in grado di mettersi a nudo e mettere in discussione sé stessi, invece di celebrarsi. Giusto un paio, tra tutti: Steve House nel suo Beyond the Mountain e Andy Kirkpatrick con Psychovertical. Non a caso di scuola anglosassone. Quella italiana, ahimè, non riesce ad affrancarsi dal “bonattismo” come da un romanticismo rurale alla Corona.
“Oltre la paura” è un cammino. Dai primi innamoramenti alle illusioni e disillusioni. Momenti esaltanti. Paura. Tanta paura, che non viene né eroicamente vinta né sprezzantemente snobbata. Ma è presente, cammina accanto, sembra suggerire il percorso. E’ un omaggio alla storia alpinistica, magari ogni tanto un po’ troppo entusiasta, ma se ciò avviene è perché alle spalle c’è una passione davvero profonda e sincera.

Dai primi passi sulle pareti di casa al richiamo irresistibile delle grandi classiche, scorrono sotto le dita le ruvide rocce carniche e gli appigli dolomitici dove è stata scritta la storia. Marmolada, Civetta, Tofana, Bosconero, Mangart, Peralba: quello di Nicola è un pellegrinaggio devoto attraverso le “vie e vicende”, per citare una nota guida, che hanno costruito l’immaginario alpinistico di un ragazzo. In mezzo, quelle che all’apparenza sono digressioni “intime” fanno invece da collante all’intera struttura. Racconti, sì, ma con un “fil rouge” che non sarà difficile rintracciare.

Nicola ci offre una raccolta semplice, schietta, immediata. Il diario di uno come noi, uno come tanti, che ha cercato nell’alpinismo non tanto delle risposte – peraltro sempre sospese in una narrazione che coinvolge e cattura con empatia – quanto una visione di sé. Alpinismo come formazione del carattere, sebbene raramente compiuta. Nicola ci confessa che forse è ancora lontano dal realizzarsi. Che il cammino non è compiuto. Ma con l’alpinismo, forse, è un passo più vicino a saperlo.

 

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Il libro è disponibile al seguente link

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/biografia/477029/oltre-la-paura-2/

Guido Rossa, un uomo

di Saverio D’Eredità

“Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa, il quale fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utli non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini.

Non rinunciare alla montagna. E perchè? No. Ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l’avventura e per stare in allegria insieme agli amici.

Io lo so e l’ho sempre saputo; ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi ha sempre affascinato per la sua intelligenza e per la sensibilità artistica che scopri nel suo sguardo.”

(Gian Piero Motti – I Falliti)

C’è una foto, una foto che mi ha sempre colpito, che ritrae Guido Rossa con la figlia Sabina in braccio. Quella foto che ritrae Rossa in un frammento di normalità – un frammento che acuisce la tragicità della sua fine e la disumanità dell’atto terroristico – ci restituisce l’uomo nella sua totalità. Di padre, lavoratore e, in ultimo, alpinista. Quel frammento che riprende un interno familiare dell’Italia dei primi anni ’60 (lo sfondo di una casa, gli abiti comuni, le grandi mani che sorreggono la figlia) è un’immagine al tempo stesso tenera e fortissima. Un’immagine che per anni ho portato dentro, quasi come un esempio. Perchè da quel giorno, da quella foto, ho sempre pensato che Guido Rossa rappresentasse una figura esemplare. Nel suo essere un “giusto” nel senso più profondo del termine (di una profondità ed una intransigenza che forse oggi risulta incomprensibile), fedele ai propri ideali nella maniera più assoluta e definitiva. Una fedeltà che gli sarebbe costata la vita, fino a quel 24 gennaio del 1979, in cui cadde sotto i colpi delle BR proprio davanti alla porta di casa.

Con la sua opera Rossa dimostrava di poter essere un buon padre, un lavoratore e un sindacalista, impegnato nella lotta per i diritti dei lavoratori ed anche un grande alpinista, senza che le diverse dimensioni della sua esistenza dovessero per forza di cose essere separate in comparti stagni. Ma al contrario contribuissero ciascuna al proprio percorso esistenziale.
Egli dunque è esempio anche di alpinista che vive nella società e per la società. In Guido Rossa avviene infatti, fatto raro, la saldatura tra la dimensione umana e quella alpinistica. Raro ancorchè non esibito, ma professato, nella vita quotidiana, nella radicalità delle sue azioni, nella lucidità del suo pensiero.

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Quella foto, semplice e struggente, restituisce la sua cifra umana (e alpinistica) molto più di altre che avrebbero potuto ritrarlo in azione tra i monti. Perchè Guido Rossa fu alpinista di grande profilo: talentuoso, dotato, ma anche a suo modo anarchico e contestatore (si ricorda una sua scalata della famosa Gervasutti alla Sbarua in abiti da cerimonia). Un “essere alpinista” che realizzò anche nella vita quotidiana. Fino ad arrivare a conseguenze estreme.

In una lettera ad un amico alpinista scrisse:

Da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile (e non nascondiamocelo, forse, anche a noi stessi) dell’andar sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi ed ingiustizie, di un mondo dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica, due su tre sono sottoalimentati e dove su sessanta milioni di morti all’anno, quaranta milioni muoiono di fame!
Per questo penso, anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro […]. Ma probabilmente queste prediche le rivolgo soprattutto a me stesso, perchè, anche se fin dall’età della ragione l’amore per la giustizia sociale e per i diritti dell’uomo sono stati in me il motivo dominante, sino ad ora ho speso pochissime delle mie forze per attuare qualcosa di buono in questo senso […].

Guido Rossa arrivò dunque ad una conclusione radicale, forse definitiva, non tanto sull’attività alpinistica in sè, quanto nel senso da darvi e nel come questa stessa passione dovesse essere mezzo e non fine di una piena realizzazione di sè stessi e nella società in cui si vive. Pochi altri, nella storia dell’alpinismo, possono dire di aver completato questo percorso umano ed esistenziale. Uno tra tutti, Ettore Castiglioni. Ed è per questo, forse, che la sua figura può stare sullo stesso piano di tanti altri, ben più noti, personaggi che pur avendo compiuto eccezionali imprese non hanno saputo esprimere come lui il significato profondo dell’essere alpinista.