Sogni, incubi e quella cosa inutile

di Enrico Mosetti
Ci sembrava quella notte dovesse durare per sempre.
Usciamo di casa nel gelo di Sella raccontandoci i rispettivi sogni e incubi di una serata, forse pure quella, conclusasi con diverse bottiglie vuote a rinfoltire la collezione sul terrazzo.
Sogni ma sopratutto incubi. L’incubo di un bambino giallo in una casa maledetta.
Nel giro di pochi minuti lasciamo il furgone sulla sterrata gelata e ci inoltriamo nel sottobosco alla ricerca, circondati da un mondo scuro  e luccicante cristalli di luce, di quel canalone che dovrebbe dare accesso alla nostra parete.

Come Alice che passa attreverso lo specchio, sposto una fronda ricoperta di cristalli di ghiaccio, si frantumano al mio passaggio ed eccoci catapultati nell’incubo.
Continuiamo nella boscaglia, convinto di essere sulla giusta via mi trovo davanti i fari spenti di un furgone rosso, il mio. Non è possibile, penso. Abbiamo semplicemente girato in tondo o stiamo vivendo l’inzio di un loop infinito in cui siamo intrappolati? Mi sembra già di vedere me stesso scendere dal furgone, indossare lo zaino, spostare quella fronda coperta di magia cristallizata e partire nel bosco.
Re-iniziamo a camminare. Quel bosco fatto di luce e oscurità, di ombre e lucenti prismi scintillanti alla luce bianca della frontale sono lo sfondo di un viaggio vagamente lisergico che forse ho già vissuto. Sono sempre più convinto di essere parte stessa di un incubo non mio. Mi volto e guardo Leo.
Silenzio.
Lisergico e cattivo. Le pupille dilatate dall’oscurità si raggelano sui nostri volti. Davanti a me e riflesso nei miei occhi c’è lui, vestito di giallo. Ora manca la casa, penso, e per sempre vivremo in questa realtà distorta.
Cerco di scacciare questi pensieri, aspettando che il viaggio sfumi lentamente verso una nuova alba, una nuova luce.
Cammino a testa bassa finché il sole si fa strada nelle tenebre di una nord a fine gennaio. Scivoliamo fuori dall’incubo per entrare nel sogno di quella cosa inutile che chiamiamo alpinismo.
Ci leghiamo. Ormai non ci do più tanto peso a legarmi con Leo, è diventato normale. Così come, dopo il primo muro verticale è altrettanto normale slegarsi e continuare a scalare con la corda nello zaino. Insieme.
Passano i metri sotto le punte di ramponi e piccozze e quando la parete torna a farsi verticale torniamo a legarci. Forse, senza troppa utilità. Di tutte le soste e le protezioni di li in cima non ne ricordo una sulla quale mi sarei appeso, ma siamo dei codardi e la corda tra le gambe ci da la parvenza di una sicurezza per farci continuare a salire.
A tre quarti parete c’è una sezione di parete più ostica e compatta, scherzosamente ribattezzata headwall, a richiamare le sezioni più ostili delle più grandi pareti al mondo, che chissà, magari un giorno ci troveremo a scalare.
Il primo difficile tiro tocca a me. Alla sosta che abbandono e non proteggo è meglio non ci pensi troppo, tiene probabilmente giusto i 65 chili di Leo. La prima protezione, a 25 metri è il BD verde, mediocre. Altri dieci metri su neve impiastricciata sulla roccia in leggero diagonale. Alien verde, mediocre, ma sufficiente per alleggerire la mente. Debole.
Arrivo al camino, liscio e verticale, che sembra essere il problema e la soluzione della headwall. Picche e ramponi iniziano a raschiare la roccia alla ricerca di una tacca, un buco. Provo a incastrarmi nel camino ma non c’è verso di passare la strozzatura appena strapiombante. Torno giù qualche metro, inizio in spaccata a salire esterno al camino. Contorsioni e equilibri instabili con quel friendino che mi sorride beffardo e lontano. Con 50 metri di corda fuori trovo un po’ di ghiaccio, ci pianto dentro quanta più becca possibile e in fretta scalo gli ultimi dieci metri alla ricerca di un punto di sosta che già so, non sarà buono.
Una volta che Leo mi raggiunge gli tocca, per i successivi 60 metri ingaggiare una lotta tra teppe d’erba verticali e neve zuccherosa.
Mancano poi ancora 150 metri a 60 gradi, inizio a salire, la neve ormai alla vita ha perso qualsiasi consistenza.
Sei ore dopo essere scivolati fuori dall’incubo tocchiamo la cima della Jerebica (Cima del Lago), sembra il nome di una strega. Una strega che ha giocato con le nostre menti, cercando di intrappolarle in un mondo di cristalli e oscurità.
Nonostante tutte le volte che ci siamo legati o non legati insieme con Leo questa è stata l’unica “prima” che ci è riuscito di salire o scendere nella sua interezza, c’è poi ancora quel folle progetto sulla est del Bila Pec, ma quella è un’altra storia, il cui finale ha ancora da essere scritto.
Una settimana prima della nostra salita persi la mia nonna, sicché avrei voluto dedicarle la via, poi però per come sono andate le cose quel giorno, il nome più azzeccato è sicuramente “con il bambino in giallo nella casa maledetta”.
A pensarci oggi, non si era noi due con il bambino in giallo, ma ero io con te, vestito di giallo e per sempre bambino.
PS: la casa poi, l’abbiamo anche trovata e dal viaggio quel giorno noi siamo mai usciti.
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