Due foto, 2 di 2.

di Carlo Piovan

Sol Do Re Sol Do Re Sol. Sol Alice guarda i gatti e i gatti. Do guardano nel sole. mentre il sole …. Clic. Spengo la sveglia del cellulare e lentamente, con movimenti automatici, accendo la lampada di sale che tengo sul comodino e faccio scivolare le gambe verso il pavimento di legno. I piedi, nudi, prendono contatto con la superficie verniciata e le palpebre iniziano a far filtrare la luce rossastra che proviene dal comodino. Prendo coscienza di essere ancora al mondo, mi alzo e la prima cosa che vedo, come ogni giorno, sono quelle due foto sul comodino, capitate li, quasi per caso.

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Uomo che cammina tra prati e rocce.

Un vasto campo di ripresa, in primo piano una dorsale erbosa che taglia in diagonale lo spazio della foto, sul fondo delle pareti di roccia grigia compatta, di poco illuminate dalle prime luci dell’alba, al centro della scena un uomo di spalle che cammina, verso di esse, con la corda in spalla.

Ogni volta che guardo questa foto mi chiedo se quell’uomo cammini da solo o se va vada incontro a qualcuno o piuttosto ci si allontani.

A dire il vero dovrei chiedermelo da solo, essendo il soggetto di quella foto, ma quel giorno non andavo e non scappavo, non ero solo. La mia compagnia era a pochi passi da me, quelli necessari a inquadrare il campo di ripresa di quella foto.

Io non lo sapevo e nemmeno lui, ma quella salita sarebbe stata l’ultima di una lunga stagione in cui avevamo arrampicato molto assieme, scorrazzando tra Dolomiti e Appennini.

Trotterellando lungo i dossi erbosi che dal passo Valles portano verso le pareti del Mulaz, non possiamo fare a meno di tenere lo sguardo incollato sull’obbiettivo di oggi, un pilastro liscio alla vista e dai fianchi appena accennati che nasce nel cuore della parete ovest e si innalza come un missile fino alla cima del Mulaz. I primi 200 m di ripide ghiaie, ci catapultano dal bucolico ambiente dei pascoli al severo e gelido spazio della parete. Qui la roccia ha ben poco di dolomitico, ricorda molto di più il calcare del Gran Sasso o della Marmolada, niente di più ben sperato ci diciamo a vicenda. Entrambi siamo degli estimatori dell’arrampicata su calcare grigio. Quella in cui la sensibilità dei piedi e l’intelligenza motoria, può compensare bicipiti poco sviluppati. Le prime quatto lunghezze sono come ce le aspettavamo, lisce placche solcate da fessure svase e qualche buchetto dove far alloggiare le falangi. In particolare la quarta, oggi priva dei cunei dei primi salitori, è un vero capolovaro di incastri, forza ed equilibrio. Il mio amico mi restituisce il favore del diedro Buhl, parte agghindato di dadi e friend di grosse dimensioni, e arriva senza batter ciglio alla sosta. Ancora una lunghezza di corda in verticale e poi un estetico traverso, fatto a posta per far le foto, immortalo il mio compagno mentre scala in orizzontale una placca argentea, questo scatto non può mancare nel suo album andrà far compagnia all’analogo traverso sulla Di Federico al Monolite (Gran Sasso), scalata poco tempo prima assieme.

I tiri finali, più facili, scorreranno veloci fino alla cima.

A fine giornata ci salutiamo, io devo scappare a Venezia per festeggiare un addio al celibato, lui rimarrà ancora qualche giorno in montagna.

Non ricordo, ora, con precisione quanto tempo passò, ma so che per un lungo periodo non arrampicammo più assieme. Ricordo che lo cercavo, più spesso all’inizio poi sempre meno non vedendo riscontro. Ci rimasi male, non capivo se ci fosse stato un mio comportamento che lo avesse infastidito o chissà quale motivo che io non sapevo, per il quale non riuscivamo a più a condividere assieme la nostra passione.

In queste situazioni è facile scadere nell’incomprensione o nel giudizio facile e avventato, ne ero tentato pur di darmi una spiegazione, anche se il raziocinio mi diceva che non sarebbe servito a nulla se non a rovinare il sentimento di amicizia che mi legava a lui.

Fortunatamente la calma del tempo, prese il sopravvento, congelai dentro di me questa situazione; alzai la testa e guardai oltre.

Un giorno ci ritrovammo, quasi per caso, non so come arrivai a far emergere il cruccio che mi portavo da tempo, non ricordo una domanda specifica, il tutto è avvenuto in modo naturale nella conversazione.

– Sai mi trovavo bene ad arrampicare con te, ma sapendo che eri più esperto mi affidavo ad occhi chiusi alle tue proposte, sapendo che qualsiasi cosa succedesse ero in buone mani. Poi ho capito che dovevo responsabilizzarmi e mettermi in gioco in prima persona, per questo non ti ho più cercato per un po’ – .

Scoppio a ridere, prima in silenzio poi producendo quella risata trattenuta, di quando si serrano forzatamente le labbra e replico.

– Sai a dire il vero io mi sono sempre trovato bene con te perché sapevo che eri bravo ad arrampicare ed alpinisticamente preparato; e se mi fosse capitato qualcosa di sicuro mi avresti portato in salvo –

Ci guardiamo e scoppiamo a ridere entrambi.

Epilogo

Arriviamo sotto la parete, un breve scambio di parole e partiamo, inizia lui sul primo tiro e così ci alterniamo fino in cima. Rari scambi di parola in sosta. Non dobbiamo dirci molto, sappiamo perfettamente cosa dobbiamo fare e questo è quello che apprezzo di più in un compagno di cordata. La perfetta intesa, l’arrampicare in silenzio, in pace, alla pari.

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