Sosta

di Saverio D’Eredità

La sosta, per quanto non necessaria, ci sembrò dovuta.

Ci arrestammo quindi proprio in mezzo al sentiero, quasi a sancire un predominio o una specialità di questo giorno, esattamente un passo prima della netta linea di demarcazione dell’ombra, che lentamente avanzava divorando metro a metro i prati, le vallecole, gli sbalzi sottocresta.

Spalancammo gli zaini dai quali disordinatamente sfuggivano capi di corda, vestiario in eccesso e un paio di tintinnanti moschettoni. Le unghie affondarono aspramente nella scorza d’arancia, le cui bucce furono lanciate senza troppi ripensamenti oltre un orizzonte di mughi, poco più in là.

Sedevamo in mezzo al sentiero, le spalle rivolte alla parete, le mani ad arruffare ciocche d’erba secca, imbiondita dal sole. Sopra di noi taceva la parete delle gocce, quasi fosse una gola rinsecchita, senza più parole. Muti, ci lasciavamo intorpidire dai raggi penetranti del sole, padrone assoluto della conca, delle pietre, delle creste, dei covi persino d’animali. D’ogni nostro pensiero.

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Eravamo soli, ma d’una solitudine che si faceva acuta, stridente quasi. Le porte del rifugio sembravano chiuse da almeno cent’anni, questa mattina, quando ci fermammo per far tacere il respiro affannoso delle parole rincorse ad ogni svolta. Il cigolio di un cancello mal chiuso sembrava un’implorazione, sola nel mattino non scandito dai passi.

La montagna era svuotata. Come se le avessero portato via tutto, denudata senza vergogna. Essa ci appariva così, come sempre era stata. Non avremmo saputo fare lo stesso.

Di dicembri così se ne ricordano pochi, nessuno forse. Seduti sulle pietre del sentiero, guardavamo avanti a noi la massa scura del Canin, lunga e minacciosa come un’ombra, oltre la quale una rimonta di vapori si infrangeva come onde su una scogliera. Sembrava dovesse cedere da un momento all’altro e l’avevamo anche temuto, ad un certo punto, prima di approcciare le rocce ora tiepide ora gelide della cresta di Riofreddo.

Qua e là esili strisce di neve, dissonanti, s’acquattavano nei fossi più profondi, evase al pungolare dei raggi solari, al soffio d’aria calda che sale dalle valli. L’inverno appariva come un liberatore ancora troppo tardivo.

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Sta passando un lungo, infinito autunno. Di giorni sempre uguali, di cieli sereni, assenti di dubbi. La natura si è come inceppata, la macchina è ferma, la corsa finita. Forse è questo che ci inquieta. Improvvisamente ci accorgiamo che i calendari sono leggi senza fondamento e quasi surreali appaiono le lingue di neve costruita sulle piste, lo straniante cigolare degli impianti e la loro liturgia . C’è qualcosa di umoristico, in tutto ciò. Quasi che la montagna si volesse prendere gioco di noi.

Ci guardammo attorno. Qui dove sedevamo potevo riconoscere la pianta del vecchio ricovero, i buchi delle travi nella parete a fare da muro portante, la scaglia di cemento confusa tra le pietre naturali, dei vecchi ferri ritorti piantati nel terreno. Nel silenzio del pomeriggio e dei suoi cento incessanti tramonti potevamo essere gli ultimi uomini sulla terra. Sarà forse così? I resti di una civiltà sconfitta, le quattro mura del rifugio, i segni sbiaditi sulle pietre. Le strade sgomente e la ferita mai sanata nel bosco. Tutto poi si confonderà con il resto.

 

Forse questi lunghi giorni in cui si rinnovano le nostre occasioni perdute, sono quell’invito a fermarsi e riflettere. Per troppo tempo credo di essere rimasto su qualche parete troppo desiderata, sulla rincorsa all’obiettivo, alla lista mai spuntata. E in questa corsa avevamo dimenticato qualcosa. Avevamo dimenticato la montagna.

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Non abbiamo avuto fretta. Abbiamo scelta una cima, l’abbiamo raggiunta là dove ci sembrava più bello. Ci siamo concessi il piacere di una sosta.

E oggi a ripercorrere ancora queste cenge sospese tra gli spalti, nel camminarvi indisturbato e indifferente al calendario o alle ore che rimangono, sembra quasi di entrare in una città liberata. Tutto era permesso. Avevamo la libertà definitiva e rimpiangevamo i giorni della prigionia. Si, la montagna si sta prendendo gioco di noi.

L’ombra si allungò oltre lo spigolo, raggiungendo la punta degli scarponi. Senza dire niente, riprendemmo la strada verso casa.

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