Scarpe da gatto

di Nicola Narduzzi

“Il tempo passa, ma non tanto”: così scriveva esattamente cinquant’anni fa Gabriel Garcìa Màrquez nel suo libro-capolavoro “Cent’anni di solitudine”. Non potevo fare a meno di pensare a questa frase pensavo leggendo le storie inedite di Italo Massi, alpinista goriziano, trascritte dal nipote Roberto Galdiolo. Quasi un secolo ormai è passato dalle salite narrate nel libro. Un lasso di tempo breve, poco più di un istante di quel tempo profondo che scandisce i tempi geologici, nel quale tuttavia si sono susseguiti grandi cambiamenti sia nell’alpinismo, che nelle Alpi stesse.

Eppure, nonostante non posso fare a meno di pensare che certe cose in fondo resistono anche all’inesorabile azione del tempo. Uguali sono certe sensazioni, certi sentimenti che ancora oggi si possono provare circondati dalle nostre montagne: il senso di stupore di fronte alle pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo all’alba, lo sgomento alla base della monolitica parete del Piccolo Mangart di Coritenza oppure la bellezza del tramonto da Sella Carnizza, per citarne solo alcune. Uguali sono le montagne, le valli, i luoghi descritti in maniera asciutta ma arricchita di un tocco personale. Descrizioni nelle quali un attento conoscitore dei luoghi potrà riconoscersi a camminare fianco a fianco ai protagonisti di queste storie, pur percependo l’incessante scorrere del tempo. Seguiamo così Italo mentre attraversa il ghiacciaio della Kredarica, oppure nell’infinita camminata lungo la mulattiera che si addentra in Val Dogna.

Ma la più grande differenza che traspare riguarda l’alpinismo e quindi l’uomo. Diversi sono i lunghi approcci alle montagne, prima in treno e poi a piedi, lungo valli attraversate distrattamente in auto in pochi minuti al giorno d’oggi. Una concezione diversa degli spazi che restituisce l’affascinante affresco di una montagna le cui dimensioni risultano come amplificate rispetto ai giorni nostri, come dimostra un’epica ascesa al Montasio attraverso la via di Dogna partendo dal paese omonimo e rientrando poi, sempre a piedi, fino a Chiusaforte. Diverso è il modo di osservare le montagne, così immense e selvagge in un periodo in cui l’alpinismo, dopo il periodo della sistematica esplorazione compiuta da Kugy e dalle sue guide, quasi dimentica le montagne friulane a favore delle lavagne dolomitiche, più note e garanti di sicura gloria.

Altro elemento che marca ulteriormente lo stato di separazione dai giorni nostri è la guerra che, seppur non coinvolta direttamente nelle vicende narrate, è parte marginale ma essenziale dell’ambiente in cui esse si svolgono. Testimoni di orrori ancora freschi, non semplici reliquie di fatti letti su qualche libro di storia, rappresentati anche solo in piccoli dettagli, come un semplice filo telefonico nel cuore della parete nord-ovest del Fuart. La montagna di Italo, però, non ne risente: dopo tante morti e vicende tragiche, essa torna ad essere fonte di gioia. C’è poi la forma di narrazione: il classico récit d’ascension, racconto di fatti realmente accaduti arricchito di particolari squisitamente personali. La narrazione, infatti, è diretta e leggera; semplice senza risultare asettica; lontana dal romanticismo di Kugy, di certo entusiastico e affascinante ma a volte esasperato e troppo carico di fronzoli.

Dopo altre letture erroneamente considerate solo a livello locale, ancora una volta trovo conferma del fatto che proprio le pubblicazioni “minori” sono in realtà la vera linfa vitale della ormai prolifica ma decadente letteratura di montagna. Un genere di nicchia che attualmente oscilla senza controllo tra una scrittura, un po’ lisa e fraintesa, ispirata a certe contro-culture di varia ispirazione, che sia punk o orientaleggiante e una sterile cronaca di luoghi, gradi e tempistiche (magari accompagnata da palese pubblicità dello sponsor di turno). Nell’epoca dei Social Network, dove la montagna è sempre più considerata terreno di gioco per i fanatici del cronometro, dove atleti-alpinisti si affrettano a comunicare tempestivamente ogni “impresa” e dove sembra impossibile cercare qualcosa di nuovo senza volare in qualche terra lontana, il libro ci guida invece in direzione opposta. Un ritorno alle origini, alle radice profonde e autentiche dell’alpinismo, un modo di andare in montagna in cui la salita è un mezzo e non un fine. Perché se è vero che solo le grandi imprese fanno notizia, è anche vero che non solo di esse è fatto l’alpinismo.

N.d.R: “Scarpe da gatto – dalle memorie di Italo Massi le avventure di quattro alpinisti goriziani” – di Italo Massi, a cura di Roberto Galdiolo ed. Corvino, 2016

Il libro è disponibile in libreria o contattando direttamente il curatore Roberto Galdiolo

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