Pompelmo

di Saverio D’Eredità

Get what you give dei New Radicals è quel genere di canzone che appena parte ti viene subito da alzare il volume. E’il pezzo perfetto per ogni genere di compilation, in qualunque punto tu la piazzi ti fa svoltare. Una canzone pop-rock pulita ed onesta, ottimista anche se un po’ ruffiana con un tocco di sfrontatezza. Get what you give era il brano di apertura della prima compilation che avevo fatto per Graziella ai tempi. Già. Ai tempi.

Non so perché mi viene in mente questa canzone adesso, fermo sugli sci che guardo Luca accingersi a far la prima curva e – ne sono abbastanza certo – prossimo a farla piuttosto male. Tanto io farò uguale se non peggio e almeno stavolta la colpa non è solo nostra, ma di questa neve orrenda, un po’crosta e un po’pappa che devi essere bravo, ma bravo bravo, a sciarci in modo che non si veda quanto fa schifo. E non è il nostro caso.

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Mi viene in mente “Get What you give” perché il senso della canzone è più o meno che ottieni ciò che dai, in quello slancio ottimistico dell’ultimo scorcio di anni ’90 in cui eravamo pronti a dare molto e riavere in cambio altrettanto. Non c’era spazio per la delusione. Il mondo, poco prima che finisse il ‘900, era piuttosto simmetrico e a noi piaceva abbastanza.Quella canzone è uscita a fine anni ’90, quel momento in cui stavo per finire il liceo ed iscrivermi all’Università. Stavo per cambiare città e iniziare a muovere i primi passi di arrampicata. Stavo per conoscere Graziella e chiedermi cosa avrei fatto nella vita. Io “stavo per” insomma. Ma mi sembrava che tutto il mondo “stesse per” come me. Non posso dire fosse un periodo stupendo, che di problemi in giro ce ne sono sempre stati tanti e ingiustizie ovunque e cose brutte pure. Ma siccome “stavo per”, “stavamo per”, era solo questione di tempo e avremmo risolto tutto. Stavo giusto per.

I New Radicals hanno fatto un solo album – peccato perché l’inizio spaccava – iscrivendosi così alla mesta classifica delle one-hit band, un po’crudele e ingiusta (anche Sex Pistols e Jeff Buckley eh!). Di quelli che appunto “stavano per” ma poi si sono persi/distratti/fatto altro. O magari sono morti. Peccato. Però nelle compilation ci stanno ancora bene. 

In questo rientro che stasera mi sembra più noioso del solito – quando inizi a fremere sul pedale tra Ovaro e Villa Santina vuol dire che o ne hai le palle piene o la gita non è stata proprio memorabile o entrambe – Radio Freccia mi inanella una sequenza niente male cui seguono Song 2 dei Blur, Bitter Sweet Symphony e Wonderwall degli Oasis. Tutto il brit pop di fine ’90 che “stava per” e poi non se n’è fatto niente. 

No, tranquilli, non sono quel genere di nostalgico, tipo anni ’70 per dire, con il maglione collo alto un po’sgualcito che fa proletario, le clarks e gli occhi umidi appena sentono Contessa. Non posso nemmeno dire che quella fosse la mia musica preferita, però era la musica di quel periodo. Quindi si, era anche un po’la mia di musica. Quella che girava in radio più spesso e che associ ai primi viaggi in auto da solo, alle feste di laurea, alle compilation che ci si faceva come regalo (“ti ho fatto una compilation” un bellissimo pensiero a costo quasi zero e figlio del primo file sharing). La musica che un po’fa da sfondo alla tua vita, anche se poi Wonderwall al momento non ti piaceva affatto e gli Oasis ti stavano sul cazzo pure. Si legge molto di quegli anni, in quei pezzi, del fatto che “stavamo per” e le premesse non erano malaccio. Wonderwall, ad esempio, l’aveva messa Nello nella compilation della Corsica. Secondo lui è il campionamento d’archi che da spessore al pezzo e in effetti è vero. Le canzoni con il campionamento d’archi hanno qualcosa in più. E anche Bitter Sweet Symphony aveva quel passo un po’epico un po’scazzato che ci si addiceva tanto. Eravamo epici, ma anche scazzati, si. Perché tutto sommato Internet ci stava portando una marea di possibilità e gli aerei costavano poco. Che si sarebbe fatto un lavoro interessante, ma avremmo avuto un sacco di tempo per fare viaggi, fare soldi, essere bravi, essere belli, fare cose. Stare per. E invece come è successo, quando è successo che ci siamo persi qualcosa? che le cose sono finite così?

Questa mattina è fottutamente e direi anche immeritatamente fredda. C’è un vento di merda in un posto che di solito non ne ha, e stiamo salendo con gli sci lungo strisce di neve su una montagna che pare depredata più che semplicemente spoglia. Saliamo cercando un sole che non c’è, nascosto dietro nubi viscose, mentre nell’aria volteggiano cristalli che non hanno nulla di scenografico, semmai di inquietante. Paiono una pioggia di cenere e creano un’atmosfera tipo “The Road” di McCarthy. Saliamo in una giornata sbagliata, in un mondo sbagliato, facendo qualcosa che sarebbe anche bello, sarebbe anche giusto se solo uscisse il sole, se solo mollasse la neve, se solo tirasse meno vento. 

Evidentemente abbiamo dato molto poco per meritarci questa discesa, questa neve indecifrabile, questo tempo ostile. Abbiamo dato poco, o ci siamo illusi che bastasse poco. Traverso con una lunga diagonale il vallone, cerco il punto per curvare, ma non c’è. O meglio, ci sarebbe ad essere un po’più padroni delle tavole. Ma insomma! Sarà mica sciabile, ‘sta crosta gelata e rappresa, piena di peste sopra (perché la gente si diverte a calpestare le tracce, perché?). Quindi traverso. In diagonale leggera discesa. E ancora, e ancora. 

Citazioni. Tutto quello che facciamo oggi è una citazione di un mondo passato nel quale tuttavia viviamo ancora. Tutti questi gusci colorati addosso, questi scafi plasmati in plastica e carbonio, il suono delle lamine – ah se suonano le lamine oggi! – non sono che una rappresentazione di ciò che dovrebbe essere, ma non è. Ci abbiamo provato, giuro, a vivere il momento. Ad essere qualcosa di migliore. A non prendere in prestito dal passato, ma fare qualcosa di nuovo. Poi abbiamo preso un guscio colorato, leggero, che non fa passare neanche il jet stream e tiene caldo e ci siamo dimenticati di cosa stavamo facendo. Abbiamo preso dei belli sci, anzi bellissimi, come quelli delle riviste, che come strisci la carta ti senti più bravo. Nella nostra testa eravamo con gli sbuffi di polvere e invece poi. Non so, non ricordo. Cosa stavamo facendo? Siamo un po ‘tutti come i New Radicals, penso.

Raggiungo la cima qualche minuto prima di Luca. Mi stupisco nel vederlo arrivare, sembrava demotivato e lo ero anche io. Ho solo fatto finta di essere motivato per farlo sentire in colpa. Che giochiamo anche noi le parti, quando siamo in giro in montagna. Così che alla fine, presi picca e ramponi ho iniziato a salire quasi più per dovere che per voglia. Più per la parte che volevo recitare che non altro.

Abbiamo raggiunto la cima. Onorato il giro del panorama. Forse stretto la mano, o forse no. Ce l’abbiamo fatta, ma resto comunque un po’ amaro. Sta cosa dell’amarezza credo che ce la porteremo dentro. Che sarà un po’ il modo in cui ci riconosceremo tra qualche anno. Tipo i reduci, solo che non abbiamo combattuto nessuna guerra. Non abbiamo né vinto né perso. Già sento che mi chiedono.

“Come stai?”

“Bene. Diciamo un po’ amaro”

Che questa amarezza ce la si leggerà negli occhi, nelle smorfie della bocca. 

“Come stai? Sei felice?”

“Sì, ma un po’ amaro lo stesso”.

Avremo quella faccia non triste, né cattiva. Ma amara. Amaro è un sentimento adulto. Maturo. Ti direi nobile, se non fosse che di questa nobiltà non ci faremo una fava. E’ una forma di rassegnazione, ma consapevole e soprattutto non colpevole. Una felicità sempre un po’ smorzata, col retrogusto diciamo. Come un sorso di bevanda al pompelmo.

La bibita al pompelmo c’era sempre alle feste, solo che non la beveva quasi nessuno. C’avete mai fatto caso? Aranciata, Coca, Schweppes Lemon, Chinotto. Pompelmo. Tutte piazzate sul tavolo, presto già svuotate. Quella al Pompelmo, invece, era sempre mezza aperta, quasi piena, giusto un bicchiere. DI qualcuno che pensava di versare la Schweppes Lemon e invece si era confuso con il pompelmo. Bevi un sorso -è amaro, cazzo, è amarissimo – poi la chiudi fai quella smorfia di amaro che si stampa sulla bocca e ti fiondi sulla Schweppes.

Il pompelmo è un gusto adulto, maturo. Come l’amarezza. Ho sempre pensato che quando sarei stato grande avrei apprezzato il pompelmo. Perché “è amaro, sì, ma ti toglie la sete” ed era una cosa che non riuscivo proprio ad accettare di dover “togliere la sete” come si toglie un brufolo, ma senza il piacere di dissetarsi. Per quello c’era la Lemon.  Bere per togliere la sete è come alimentarsi con il cibo liofilizzato. Ma mi volete dire come fa a piacere?                                          Oggi forse quel gusto l’ho capito. Non è che ti piace – la Schweppes Lemon rimane imbattibile – è che semplicemente il gusto è questo. Buono. Che ti toglie la sete. Giusto un po’ amaro.

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