The Pink Punk Donkey – Una storia d’amore

di Saverio D’Eredità

La notizia, già rimbalzata prima tramite social quindi ripresa dai giornali locali, è ormai nota. A 30 anni dalla prima discesa di Rumez e Gardossi, la parete Nord del Nabois è stata nuovamente scesa con gli sci da due specialisti del ripido, Enrico Mosetti e Zeno Cecon.

La Nord del Nabois non è propriamente quella che diremmo una parete sciabile. Qui una linea va inventata più che cercata, congiungendo effimeri pendii nevosi sospesi come lenzuola ad un balcone di mille e passa metri sopra la Val Saisera. Una nord molto particolare, come i profili di questa montagna ingombrante ed orgogliosa che come uno scudo si frappone tra i boschi della Saisera e le nobili pareti del Fuart. L’inclinazione è sfuggente e progressiva, la neve fatica ad incollarsi tanto da creare dei corridoi sciabili. Eppure, con un battito d’ala che si verifica poche volte in un decennio o forse un paio di decenni, le condizioni si ripresentano, anche se parlare di condizioni è quasi eufemistico in casi come questo dove, più che quelle della parete servono le doti visionarie di sciatori appartenenti ad un’altra concezione dello sci stesso.

Ricordo il giorno, due  anni fa, in cui il sole intorpidiva le spalle e specchiava i nostri volti negli occhiali, seduti davanti alla porta chiusa del baretto della Val Saisera. Sarebbe un po’lunga raccontare tutta quella giornata un po’particolare, di due avventure parallele tra la gola Nord Est e la Nord del Nabois. Ricordo solo che “l’altro” mi diceva con un’aria quasi esoterica che “la Nord è stata scesa – che si sappia – finora solo una volta, da Rumez e Gardossi, nel 1986. In mezzo metro di polvere”. Quella che non c’era quel giorno, una luminosa e fredda giornata di inizio aprile che aveva marmorizzato i volti settentrionali delle Giulie.

La notizia mi da modo di ripensare non solo alla “strana Nord”, ma anche alla serata “Natura e Cultura” del febbraio scorso a Monfalcone ed introdurre un personaggio piuttosto particolare, ma ormai noto nella scena italiana e non solo dello sci ripido, un tempo detto estremo. Enrico “Mose” Mosetti.

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Enrico Mosetti nell’avvicinamento all’Artesonraju (Foto archivio Mosetti)

Ormai aprire il profilo Facebook del Mose è meglio che ricevere gli aggiornamenti di PlanetMountain. Non si fa in tempo a mandargli due maledizioni per essere riuscito ad azzeccare ancora una volta la discesa giusta nel giorno giusto che eccolo di nuovo là dove mai avresti detto. Ci abbiamo fatto il callo e tutto sommato la cosa ci diverte.

“Dove sarà oggi il Mose?” ci diciamo spesso guardando dalla pianura i profili pannosi di un Canin appena imbiancato. Per aver la risposta basterà aspettare la foto di un arlecchino sgargiante spiccare sull’amata “Polvere di Giulia” o passare a Sella Nevea dove l’aspirante guida alpina goriziana ha stabilito il suo “ufficio”. Oppure ancora farci due chiacchiere e avere persino quella rognosissima gatta da pelare che è fare le introduzioni alle serate.

Sto guidando verso Monfalcone in una serata di vento freddo e pioggia intermittente. Oggi le montagne erano avvolte da una densa cappa grigia, di quella carica di neve leggera e fredda, la neve di febbraio che giorno dopo giorno aggiunge strato a strato facendo lievitare i nivometri e la nostra voglia di pennellate morbide e profonde. Intanto sto pensando a cosa diavolo dire tra poco quando dovrò introdurre “Il Mose” alla serata. Certo che mi sembra davvero assurdo che lo sciatore scarso introduca lo sciatore dell’Artesonraju e mille altre discese improbabili su spine di neve sulle nord delle Giulie. Potevano chiamare uno che ne sapesse qualcosa, se non di ripido, almeno di sci, di lamine, di attacchi o di dove spostare il peso quando si chiude la curva.

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Prima del salto nell’ignoto: Tocclaraju, parete ovest – foto archivio Mosetti

Ripenso invece alle parole di Emilio Previtali, lette qualche giorno fa scorrendo il caotico magma dei social network. “Qualsiasi avventura comincia da un rinuncia. L’arte di arrangiarsi come spazio bianco sulle mappe. Di un po’ di niente, tutto per noi, di questo abbiamo bisogno. Serve poter andare in un posto e scoprire com’è. Esplorare. Ricordarsi di sé. In questo senso la neve fresca è una delle più grandi opportunità di cui godiamo: vedere un pezzo di mondo come fosse la prima volta. Come nessuno lo ha mai visto prima. Entrarci dentro. Che a pensarci bene, fare la propria traccia, è il miglior modo che conosco di venire al mondo un’altra volta”                                

Ecco, penso, questo è in fondo quello che ci accomuna. Non tanto me e il Mose, quanto ogni sciatore ed intendo gli sciatori che guardano il pendio prima che i propri attrezzi, quelli che sono irrimediabilmente attratti da quel fazzoletto bianco, quella minuscola porzione di mondo ancora vergine. Ecco, tutto sommato che tu faccia uno spazzaneve o una superconduzione se è lì che il tuo cuore e le tue tavole vogliono andare, ebbene, è in quell’istante che la differenza è azzerata.

Esordisco così per spezzare il consueto gelido silenzio iniziale, nonostante i ritmi sintetizzati dei Daft Punk che accompagnano la lobotomizzante discesa di Veseli Tobogan dal Triglav abbiano già riempito la sala.  Tiro fuori dunque la massima del “Diretur” Previtali dal momento che, pur essendo arrivato con un ragionevole anticipo all’appuntamento con il Mose, alla fine eravamo riusciti a parlare di tutto (bevendo un quattro rossi di fila accompagnati da tartine incendiarie al cren) tranne di come impostare la serata. In fondo penso che i suoi capelli rosa e il taglio alla Twight di per sé attireranno abbastanza l’attenzione della gente senza che io mi debba preoccupare di cosa dire.

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La parete Nord Est del Triglav, dove corra la breve ma difficile ed espostissima linea di Veseli Tobogan – foto S.D’Eredità

Nell’entrare nel locale ho avuto appena il tempo di condividere un giro oltre che con Enrico anche con Carlo Gardossi, il “Caio” compagno di Rumez in molte di quelle discese “estreme” che hanno fatto la storia ripida delle Giulie. E c’è un filo sottile, ma continuo che lega il leggendario sciatore triestino al Mose di oggi. Forse l’aplomb non sarà lo stesso tra quel Rumez riflessivo, metodico e al tempo stesso sognatore che emerge dal suo libro-diario “Il mio sci estremo” e il “Pink punk donkey”(come si fa chiamare Enrico) con le sue tenute fluo e l’occhietto diabolico. Tutto sommato si tratta di una questione di “stile”.

Ed attorno al concetto di stile che la serata ha gravitato, un po’come tutta la concezione del Mose per lo sci ripido. In una recente intervista a Skialper (che, forse grazie alla sua intensa attività in zona Giulie si sta man mando interessando alle Alpi del confine orientale) il Mose confessa che “Si tratta di stile e questa etica potrebbe preservare l’estetica che le grandi linee meritano”. Attorno a quest’idea va interpretata la sua filosofia, rigorosa nell’applicazione quanto creativa nell’ideazione. Le sue discese hanno riacceso l’interesse non solo per questi monti rudi, ma anche e soprattutto per un approccio autosufficiente, leggero, indipendente. Quello che ha applicato rigorosamente nella spedizione in Perù.

È su questo punto che – finito il carosello di immagini rigorosamente in soggettiva di “Gringo Esquiador”, il film che ha accompagna il racconto della sua tripletta in Perù del giugno 2015 – chiedo subito ad Enrico di illustrare il suo pensiero. Perché, diciamo la verità, il Mose mi fa anche un po’incazzare. Il fatto che trovi polvere in ogni dove sarà forse un’esagerazione, però va detto che quello che pensa (quasi) sempre fa. E nell’esecuzione la sua etica rimane ortodossa, il che rimane pur sempre un merito.

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Tocclaraju (foto archivio Mosetti)

Perché decidere ad un certo punto di salire sul furgone e passo dopo passo girare le Alpi alla ricerca delle discese di riferimento tra le Alpi Centrali ed Occidentali – quasi sempre da solo, al più con la compagnia di qualche bestia che evidentemente lo trova simpatico – per poi imbarcarsi (sempre solo) per il Perù non è proprio da tutti. Deve esserci una forte motivazione dietro. Una motivazione che – come il Mose ama ripetere all’inizio delle sue presentazioni – nasce da una storia d’amore. O meglio da un innamoramento per la neve, per lo sci, per quello spazio bianco che ciascuno di noi cerca ed interpreta a modo proprio e che per lui si esprime con due tavole ai piedi.

La prima immagine della serata riguarda il battesimo del ripido che per Enrico è stata l’Huda Palica. Il più lungo, regolare e simbolico canalone delle Giulie, 800 metri di pendenze costanti che serpeggiano tra pareti ruvide e ostili che – come queste montagne – non fanno nulla per invitarti, ma che sanno restituire tanto. Iniziava così questa storia d’amore, da una vecchia foto scattata negli anni’80 di uno sciatore con tavole lunghe e abbigliamento indubbiamente d’antan. Con la prepotente voglia di auto determinarsi, trovando una strada, la propria strada, disegnando curve su tutte le nevi e le pendenze possibili.

I “botti” del 2015 sono già noti ad un certo pubblico appassionato di ripido. Ma forse mi ha affascinato di più il percorso che ha portato il Mose fin là, fino a scendere la montagna perfetta, l’Artensoraju in completa solitudine. Ed è stato quel cammino di ricerca costante, tra i fianchi ora morbidi ora spigolosi di Giulia, rinnovando con la sua carica creativa una spinta esplorativa che sembrava riassumersi solo nelle prime di Rumez e di pochi altri sloveni. E proseguendo poi con il furgone a tappe lungo i capisaldi del ripido alpino (Gran Pilastro – parete Nord, Ortles – parete Nord, Sperone della Brenva al Bianco). Chi ha amato ed ama quello che una volta chiamavamo sci estremo (“ma io preferisco definirlo ripido” sottolinea il Mose) non può trattenere i sospiri nel sentire questi nomi. E cosa è questa se non l’espressione unica di un innamoramento?

La scelta – etica ed estetica – di ricercare la sciata pura, pulita (senza corda, senza mezzi di risalita meccanici, in uno stile essenziale e fluido) lascia intendere una motivazione profonda e una visione chiara di questo modo di interpretare la montagna. In Perù Enrico forse l’ha sintetizzato al meglio, scegliendo le linee con il maggiore grado possibile di sciata, non cercando quindi a tutti costi la linea impossibile o inviolata (o forse violabile con l’uso della corda interrompendo la sciata e subordinandola al tipo di terreno). E’ stato questo il caso del Tocclaraju dove invece dell’ambita cresta sud-ovest il Mose ha deciso di scendere la ovest proprio per tracciare una linea di perfetta continuità. Estetica, appunto. A ciò si unisce la scelta/necessità di muoversi in autonomia totale, indipendente da supporti esterni ed organizzativi. E questo forse è ancora più importante da sottolineare. Aggiungerei che se è vero che l’etica può preservare le grande linee alla stessa maniera un approccio minimalista può contribuire a mantenere il fuoco dell’avventura – nel senso letterale, di ciò che “deve ancora venire” – acceso.

E c’è una cosa dello sci ripido che mi affascina, una cosa che credo non possa che affascinare chiunque  veda nella montagna uno spazio essenzialmente creativo. Ed è questa capacità rigenerativa che la neve, incontrandosi con la montagna, determina nella nostra immaginazione. Qualcosa che supera persino la fantasia dell’arrampicata, in quanto ogni giorno, ogni mese, ogni anno quella stessa linea di neve sarà sempre e comunque diversa, in un processo di creazione costante, una sorta di Big Bang perpetuo in time lapse. Ed è questo che fa dello sci una forma di arte che si esprime in un processo non solo creativo, ma potenzialmente inesauribile.

Si ritrova in parte quest’idea nelle scarne, ma essenziali riflessioni di Rumez “l’alpinismo non può non tener conto di quelle che sono due componenti fondamentali dello stesso: la fantasia e l’avventura (…) in questa cornice a mio avviso si inserisce lo sci estremo”. Parole che Rumez scrive pensando alle montagne di casa. Le Giulie.

Perché alla fine, gira e rigira, ci ritroviamo comunque a parlare di Giulie.

È come se vi fosse un centro di attrazione gravitazionale un polo magnetico piazzato tra Sella Nevea e il Triglav che orienta le bussole ed i discorsi. Le Alpi viste da qui, in fondo a destra, hanno un altro aspetto. E allora la domanda – banale, infantile, irresistibile – è spontanea. “Mose, quale è la linea che ti intrippa di più?

La domanda, inaspettatamente, sembra dare più di qualche filo da torcere al mio interlocutore.

Vorrei dire la Huda Palica, ma sarebbe troppo banale. Difficile rispondere, ce ne sono tante. Però forse – e mi guarda di nuovo con l’occhietto demoniaco – quella che più mi ha esaltato è stata la Ovest del Canin (scesa con Andrea Fusari il 4 aprile 2014, salendo in cima dalla normale, come Rumez 23 anni prima – nda). Non sarà forse la più elegante in senso assoluto (ed anche quella che richiede obbligatoriamente una calata in doppia, in realtà) però trovarla in condizione è veramente una cosa rara. E sebbene le pendenze non siano poi veramente estreme è una parete davvero selvaggia, ostica. Ecco quella forse riassume più di altre lo spirito dello sci sulle Giulie

Il messaggio lo leggo la mattina successiva. Secco.

Forse la linea che mi intrippa di più è la Nord del Nabois”. Sorrido. Sapevo che gli avrei messo il tarlo. La mia risposta è allusiva “Quella che ti manca”. Ma Mose quel che dice quasi sempre fa. E un mese dopo con Zeno avrebbe attraversato come un funambolo su una immaginaria linea tesa in bilico quello scudo convesso. Finalmente in polvere.

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La parete nord del Grande Nabois – foto S.D’Eredità

Note tecniche

Si riportano alcune note sulle difficoltà delle discese citate in questo articolo

Triglav, parete Nord Est: 5.4, E4

Grande Nabois, parete Nord: 5.4, E4

M.Canin, parete ovest: 5.4, E4

Gran Pilastro, parete Nord: 5.3, E3

Sperone della Brenva: 5.2, E3

Artesonraju, parete Sud Est: 5.4, E4

Tocclaraju, parete Ovest: 5.5, E4

2 risposte a "The Pink Punk Donkey – Una storia d’amore"

  1. Io 29 marzo 2016 / 14:13

    Peccato che venga fatto tanto clamore, a una impresa comunque importante, ma che è stata scesa nel febbraio 2009 da austriaci.
    Piuttosto che scrivere prima ripetizione, sarebbe da sincerarsi completamente che non sia stata sul serio discesa, cosa che appatentemente non è stata fatta.
    Soprattutto se la discesa appare in un recente libro.

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    • Rampegon 30 marzo 2016 / 21:40

      caro “IO”, grazie per la nota di precisazione anche se, a dire il vero, la guida di cui parli la conosco e – dalla lettura- sinceramente avevo inteso che il gruppo degli austriaci (febbraio? Sembra parlino di “neve primaverile” o forse non sono gli stessi) avesse solo salito ma non sceso la parete, peraltro lungo una linea diversa da quella seguita da Mosetti e Cecon (i quali sono partiti direttamente dalla croce seguendo dunque la linea di Rumez-Gardossi sia nella parte alta che in quella bassa). In ogni caso, come dici giustamente, ciò non toglie valore né alla discesa di quest’anno né all’eventuale discesa del 2009. Ciao!

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