Giorni inutili

di Saverio D’Eredità

C’è sempre una cosa che faccio, l’ultima mattina prima di partire da Chamonix. Esco di casa, ancora senza colazione (perché la facciamo al bar, l’ultima mattina, “per non sporcare che abbiamo già messo a posto”) e vado a spedire le cartoline. So che può sembrare retrò come cosa, ma ci sono persone cui ancora piace ricevere le cartoline. Non fosse altro che per prolungare l’attesa del rientro e, una volta rientrati, stupirsi ancora dei luoghi che qualcuno dei nostri amici o parenti ha visitato. È una cosa vintage, la cartolina, ma secondo me funziona ancora. Le foto di Whatsapp, per dire, mica le appendete al frigo.
È un momento un po’malinconico, quello delle cartoline. Pensi al viaggio che hai da fare, le ore di autostrade, pedaggi, caselli e brutture varie o come non farsi prendere dalla tristezza pensando a tutto quello che ancora avresti voluto fare. La classica sindrome ben rappresentata nel spot “Costa crociere”, con la gente che piange alla cassa del supermercato. Il classico turista che se ne va e torna alla sua vita piatta, insomma. Niente di più standardizzato.
Cammino spedito lungo Rue Payot verso le Poste Centrali e mentre do un’occhiata alle pasticcerie e baretti per individuare quello più adatto alla colazione, incrocio gli sguardi di altri turisti o alpinisti diretti chi alla Midi, chi al Flegére o altri ancora al Montenvers. È ancora presto, e su questo versante del Bianco il giorno è un’onda di luce che si spande oltre l’orizzonte delle Aiguilles, mentre la valle dell’Arve è ancora avvolta in ombre di rugiada.
Dai loro sguardi posso intuire smarrimento, indecisione, determinazione. Dalla postura o dall’abbigliamento, dal tipo di zaino o dalla direzione, posso supporre le mete che hanno in programma.
Il polacco con lo zaino più grande di lui stasera andrà a bivaccare da qualche parte sotto il Dru o semplicemente si sposta dal campeggio? E quel tipo col berretto con visiera e la cicca in bocca di prima mattina che non gli daresti niente, non potrebbe invece aver progetti molto strani sulle Jorasses?
C’è il classico soggetto in tenuta d’ordinanza “normale al Bianco” e quelli più squinternati che ti danno sempre l’aria di combinarla grossa, ma è facile trovarli dopo alla Microbrasserie che ancora non hanno deciso. C’è il tipo pulito da “arrampicata plaisir sulle Aiguille Rouges” e facce convinte da ultratrail.
È un po’così, Chamonix. Ci si mescola e ci si confonde. Si fa la coda per le giostre più alla moda o ci si ritrova per caso e da soli in angoli incantati che ti chiedi come-mai-nessuno-qui.
È il riproporsi di un rito, da decenni, che nonostante mode, tendenze, innovazioni sembra trovare ogni volta il modo di rigenerarsi.

C’è un’altra cosa che faccio, l’ultima mattina prima di partire, chiudere casa e consegnare le chiavi. Nel baretto ben individuato, seduto nell’angolino con qualche burrosissima brioche e la voglia di un caffè vero, rileggo la guida. Sì, lo so che sono un fanatico, ma meglio questo di altri fanatismi, credo.
Ripercorro le vie salite, segno quelle che la prossima volta mi sentirò in grado di fare, scovo altre che non avevo considerato.
Perchè lo spigolo Nord della Blaitière dev’essere un vione, e forse la Contamine al Dru se siamo in forma possiamo pensarci. Mi piace sfogliare voluttuosamente le prime pagine, quelle di introduzione storica, quelle normalmente ignorate all’inizio perché presi dalla foga di compilare i listoni, pianificare orari, giornate, materiali e strategie. È in questo momento che assumono una loro dimensione, quasi riesca a vederle in prospettiva.
Dai Ravanel e Lépiney a Mummery, da Young e Knubel avanti fino a Terray e Contamine, Rebuffat e poi gli inglesi. I primi spit di Piola e gli exploit di Profit e Gabarrou. Altri nomi di ignoti su cime meno note che eccitano la fantasia. Le rocce che hai toccato, le doppie buttate nella rabbia o nella fretta, rinunce e piccole soddisfazioni ritrovano una collocazione. Le metti in fila, le dai un nome e provi a infilarle nello zaino, come materiale indispensabile per il futuro.
Vedi? Abbiamo sbagliato quella mattina sulla Blaitière, ma eravamo sull’antico attacco della Ryan. E quei ragazzi sbucati d’improvviso sotto la cuspide del Peigne, che salivano lo spigolo Nord, avevano ragione a dire che era “6a ma per niente facile”, visto i nomi degli apritori, veri specialisti delle fessure chamioniarde. Ti senti anche tu parte di quella storia. È vero, sei solo un turista, ma cos’era in fondo lo stesso Mummery?
Chiudi la guida, è tempo di saldare il conto, rivedere ancora una volta l’assetto dell’auto stracarica, cercando un equilibrio tra i friends e i giochi di tua figlia. Da sotto il sedile spunta la seconda picca che anche stavolta non è servita.
È fresco stamani. Mentre ripercorro indietro la strada alzo lo sguardo sulle Aiguilles. L’occhio scorge qualcosa di nuovo ed inedito. È scesa la prima neve.
Nei cupi canali battuti dalle scariche per giorni, sulle placche scure, una raggiera di linee si rivela. Un occhio allenato e anche un po’fissato, può intuire possibili traiettorie di discesa o di salita. La ruota riparte. Sorrido. Non conosco un modo più stupido ed eccitante per ingannare il tempo come l’alpinismo. Nient’altro che uno stratagemma per sopravvivere, tenere la mente aperta e non lasciarsi scoraggiare.
Che la cosa bella, in fondo, è proprio lasciarsi ingannare ogni volta da un trucco che già conosciamo. Dopo tutto, diceva Nick Hornby, c’è sempre una prossima stagione.

Chiudo il bagagliaio. Un colpo secco e sta dentro tutto. Cosa riportiamo a casa? A far una lista, ben poco. Era più lunga quando siamo partiti. Dieci giorni fa, al secondo pedaggio pagato e mentre cercavo di divincolarmi tra le auto in ripartenza alla barriera di Milano Certosa mi ero ripromesso che per un po’non ci sarei tornato, a Chamonix. Che mi aveva stufato. Troppi soldi, troppe code, troppo tutto. E invece sono rimasto di nuovo fregato. Perché è qui che ti rimetti di nuovo in discussione. Riparti da zero. La tua presunzione, le tue certezze, la aspirazioni, è più facile che vengano smentite piuttosto che confortate; è il valore della paura, che riscopri. L’essere piccolo non ti fa sentire inferiore. L’essere pavido può essere la tua miglior difesa. L’essere debole la tua maggiore forza.

Ma, in fondo, non stiamo parlando che di giorni inutili. Giorni passati a parlare di fessure e di diedri, di condizioni ed avvicinamenti. Di meteo ed orari. Ma sono questi giorni inutili che ci mancheranno. E allora in queste cartoline che infiliamo nella buca credo che in fondo stiamo scrivendo un po’anche a noi stessi.
Che sia concessa anche a noi, ogni tanto, un’insolita leggerezza. Questo stupore bambino. Questa lucida stoltezza.
Siano concessi a noi questi pensieri lievi, questa stupida euforia. Torneremo domani ai vostri doveri, alla vostre carte, ai vostri conti sempre in ordine – sempre a scapito di qualcuno.
Sia concesso a noi il tempo del silenzio, per dire una parola in meno e pensarne una in più. Testimoni del saccheggio della parola, assuefatti al vuoto dei proclami, alla violenza delle menzogne, portiamo fieramente in mano i nostri giorni inutili.
Le nostre mani sono ruvide e spellate. La pelle racconta una storia con le rughe. In fondo al sacco l’odore dei vestiti da lavare è memoria di giorni vissuti.
Che sia concesso a noi ancora una volta questo privilegio insolito, di tutti il più prezioso. Il privilegio della nostra inutilità.

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Enrico Biasotto e un’alba sul Bianco

Beyond Good and Evil

di Emanuele Andreozzi

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foto www.millet-mountain.com

Beyond Good and Evil è la famosissima via aperta dallo statunitense Marc Twight e dell’inglese Andy Parkin nell’aprile del 1992, sulla parete nord dell’Aiguille de Pèlerins, rimanendo sulla montagna 45 ore. Il fantastico diedro su cui si sviluppa la via è ben visibile da Chamonix, difatti erano in tanti ad aver adocchiato questa linea, così per soffiarla ai “locals”, i due andarono ad aprirla in condizioni non ottimali e con la funivia chiusa. Nel diedro trovarono un’esile rigagnolo di ghiaccio, sufficiente a malapena ad intasare la fessura. L’arrampicata fu difficile e di grande impegno, furono piantati tanti chiodi e superati alcuni tratti in artificiale fino all’A3, il ghiaccio non fu mai sufficientemente spesso per poter piazzare una vite. Bivaccarono e completarono la via il giorno seguente affrontando difficoltà ancora maggiori fino in cima, Andy al tredicesimo tiro volò direttamente sulla sosta. Marc Twight fiero della realizzazione, dichiarò che solo i migliori arrampicatori del mondo potevano essere in grado di ripeterla. Nelle sua relazione disegna un ironico AH AH su una traversata, mentre un teschio con le ossa incrociate indica un passaggio “delicato” su dei blocchi verso la parte terminale. La via acquisisce così un’aura di miticità, il che sicuramente rode ancora di più ai locals, che per attendere le condizioni migliori, sono rimasti con un pugno di mosche in mano.

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Chicken Wings sull’Aiguille du Peigne

di Saverio D’Eredità

Se siete stati a Chamonix, sicuramente avrete – almeno una volta – ordinato una birra all’Elevation. E se non ci siete mai stati, bè, è la prima cosa da fare quando dovrete incontrare qualcuno, pianificare la prossima impresa o millantarne altre. Anche perché vi danno la password del wi-fi e questo vi permette di postare in diretta foto e stati d’animo, visto che mezzo mondo si starà chiedendo quale grande impresa stiate preparando. Potrete trovare un’ottima selezione di birre belghe, anche trappiste o triplo malto, una vasta scelta di burger di varie taglie e condimenti, nonché una fauna umana particolarmente variegata. È qui che potrete immergervi nella tipica, internazionale ed autoreferenziale, atmosfera chamoniarda. Potrete trovarvi gomito a gomito con gruppuscoli di yankees con il cappellino a visiera, spagnoli molto motivati, presuntuosi locals ed una vasta gamma di inglesi. Tra questi potreste individuare i pro-nipoti di Edward Whymper così come gente più scassata, epigoni dell’epopea dello Snell’s camp. Talvolta, più raramente, vi naufraga anche qualche famiglia italiana spinta fuori dal main-stream del corso centrale.

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Lillipuziani parte terza – La cresta della delusione

di Saverio D’Eredità

Avevamo appena ordinato la terza birra da mezzo e, a parte la necessità di andare a pisciare urgentemente, non avevamo risolto ancora nulla. Mi alzai con la vescica che esplodeva e mi feci largo all’interno del “The Pub” di Chamonix, pullulante di rubicondi e chiassosi tifosi “orange” concentrati su un avvincente ottavo di finale del Mondiale 2014. Feci giusto in tempo a notare che – nonostante tutto – Wesley Snejder era ancora in gran forma, anche se non credevo che l’Olanda sarebbe arrivata in finale pure stavolta. Ci vorrebbe proprio uno come Wesley, pensai. Uno cui affidare le chiavi del match. Tornai al tavolino che Stief stava sfogliando freneticamente la guida di Batoux sulle 100 e 1 più belle scalate del Bianco, passando dalla numero 8 alla numero 76 svuotando boccali di birra e spegnendo una cicca dietro l’altra. Non ce la potevamo fare.
Per fortuna le ragazze si stavano rilassando con dei rinfrescanti drink e l’aria del tardo pomeriggio si stava facendo leggera. Un normale aperitivo con paranoia nel cuore di Chamonix.

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L’illusione del Bianco – Appunti dalla montagna di domani

di Saverio D’Eredità

Prologo

Una lunga cresta nevosa si spinge in avanti, a definire lo spazio tra terra e cielo. I passi che precedono il momento solenne, percepire l’appagamento nel penultimo passo quello che ancora nasconde il mistero ultimo della salita ed è per questo il più prezioso.
Ma la vetta, questa vetta che ricorre nei miei sogni, d’improvviso si appiattisce e scompare.
Si trasforma. Diventa un banale terrazzino con ringhiera. Oltre non c’è il vuoto delle pareti. No, si apre una distesa di asfalto e cemento. Sembra un parcheggio. Più in là vedo che la mia cresta sottile diventa la passeggiata di un vialetto alberato in un parco cittadino. Smarrimento. Delusione. Mi sveglio.
Questo sogno ricorrente mi tormenta. Mi fa visita in notti inaspettate. Non mi spaventa, come gli incubi, semmai ha un effetto peggiore. Insinua dubbi. Mina le fondamenta delle mie aspirazioni. In breve, mi fa vivere un po’peggio, o un po’più malamente il resto della giornata.
Ed è questa la vetta che così spesso raggiungo nei sogni, questa vetta che per anni ho cercato di sovrapporre a cento altre, senza mai trovarla. Continua a leggere

L’università più alta d’Europa

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di Carlo Piovan

La strada statale scorre veloce tra profili i boscosi di montagne che continuano a ritardare la vista di quello che ho visto, oramai non so quante volte, su monitor LED o LCD. L’ultima curva nel verde e poi un’immagine violenta come uno schiaffo riempe in una frazione di secondo occhi, mente e cuore, mentre il mio compagno al volante sterza bruscamente per evitare un prematuro bagno nella Dora Baltea.

Geant

Non ci sono altri termini per descrivere il primo impatto

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LILLUPUZIANI AL MONT-BLANC – Capitolo I

di Saverio D’Eredità

Prologo

“I viaggi di Gulliver” oltre ad esser il titolo della famosa opera parodistica di Swift, è anche il nome di una nota ed ambita via di arrampicata sul Grand Capucin. Ora, non è della via di arrampicata che voglio parlarvi, anche se già posso immaginare il sorrisetto bavoso del lettore morbosamente a caccia  di informazioni, foto, corpi atletici tesi nello sforzo di tirare una bella fessura di protogino o leggiadramente adagiati come farfalle su placche dall’aspetto impraticabile.

Diciamocelo, c’è una buona dose di voyeurismo in tutto ciò. E il sottoscritto non intende certo sottrarsi a questo peccatuccio veniale. Tutto sommato, ci è andata bene: potevamo essere dei depravati navigatori notturni di sito porno e invece siamo dei semi-ossessivi navigatori (indifferentemente diurni o notturni) di gallerie fotografiche di arrampicata. Niente di illegale, sebbene ugualmente tossico e generatore di dipendenza mentale. Continua a leggere

La spada del samurai

di Saverio D’Eredità

Scrisse una volta Dino Buzzati che se Walter Bonatti fosse vissuto ai tempi di Omero, le sue imprese ci sarebbero state consegnate oggi come un poema epico. Questa affermazione mi ha sempre colpito, forse perché più di altre riassumeva il senso dell’alpinismo di Bonatti ed in un certo senso conferiva ad esso una dimensione quasi mitica. Bonatti, del resto, stava al pari di altri miti d’infanzia come potevano essere Indiana Jones o l’Uomo Ragno, ma che a differenza degli altri poteva giocare una carta decisiva. Bonatti era vissuto realmente e le sue imprese sono pagine ancora oggi luminose della storia dell’alpinismo e delle montagne. Non solo. A differenza dell’Uomo Ragno potevo vantare la sua firma sulla mia copia de “Le mie montagne”, cosa che più che attribuire un particolare valore al libro, stabiliva soprattutto un indissolubile legame tra me e Walter. Credo sinceramente che i suoi racconti possano contribuire in maniera decisiva alla formazione del carattere, nella stessa misura di quelli di Conrad o della musica rock. Ecco diciamo che I “Giorni Grandi” stanno all’alpinismo allo stesso modo in cui  “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd sta alla musica degli anni settanta, un album che ad ogni ascolto sembra assumere ulteriore spessore, nuovi significati, altri echi, persino.    Il diedro sinuoso del Gran Capucin, la “candela” del Freney, il Pilastro Rosso, la Traversata degli Angeli sul Cervino o l’abside del Dru. Non so se fosse la sua abilità di scrittore o cos’altro, ma le montagne di Bonatti sembravano porsi in una regione sconosciuta e quasi fantastica, popolata di immagini talmente potenti da occupare totalmente l’ingenua fantasia del neofita. I “Giorni Grandi” segnarono così il passaggio della linea d’ombra, che dall’infanzia conduce alla vita adulta, svelandomi qualcosa che andava oltre la montagna verso il desiderio degli spazi, della ricerca, qualcosa di meno riduttivo e più intenso dell’alpinismo in sé. E che forse ne è l’essenza stessa. Sul fatto che fosse il più grande di tutti, credo ci sia poco da discutere. Era il più grande perché non serve l’elenco delle sue salite o l’accademico, ed in buona parte sterile, confronto sui gradi per restituire la cifra del suo alpinismo. Forse proprio perché alpinista, alla fine dei conti, non era: un viaggiatore, piuttosto. E prova ne è proprio quel “tradimento” che lo vide scendere dalla croce del Cervino per salpare verso diversi ma non per questo meno incogniti spazi. A differenza di altri, Bonatti è riuscito a sopravvivere al suo stesso mito ed è possibile che la cosa gli abbia provocato ancora più nemici, ma anche che una parte della sua grandezza risieda proprio nell’ammissione di aver trovato un proprio limite. E che lo ha reso, in fondo, un po’più umano. Continua a leggere