Due solitudini

di Saverio D’Eredità

La sosta era appesa nel posto peggiore di tutta la torre. Sotto il culo sprofondava quel vuoto nauseante e sopra di noi c’era appena qualche ruga da seguire fino in cima. Questa non era una via: era un viaggio allucinante nella mente di un pazzo furioso. Che motivo c’era di abbandonare la linea sicura di fessure incise nella parete per buttarsi in quel vuoto cosmico? Cosa avrà suggerito la minuscola cornice che traversa verso lo spigolo, ad Ernesto?

Me lo chiedevo mentre con le mani infilate nel fondo della fessura puntavo i piedi contro la parete. In quel punto, in quel preciso punto, intuii che stavo chiudendo la porta alle spalle. Che non ero più il quartogradista che ogni tanto si concedeva un lusso, come stappare una bottiglia di Barolo invecchiato o una poltrona in tribuna vip.

Stavamo varcando una soglia e lo sapevamo benissimo, quel giorno. La piccola nicchia erbosa era l’ultimo barlume di normalità. Appena un passo oltre era solo una allucinante visione. Non sempre una cordata è quel simbolo di concordia ed amicizia che pretendiamo di mostrare. Lo è, anche. Ma ci sono situazioni in cui siamo solo due solitudini che condividono lunghi trefoli intrecciati di nylon.
Mai come quel giorno la nostra cordata fu una somma di individualità. Credo sinceramente che nessuno dei due volesse davvero fare quella via. Non c’era nessun piacere, né alcun ritorno. Desideravamo solo toccare con le nostre mani il ventre molle della paura, sentirne la fame chimica salire fino a vomitare. Due solitudini che si ritrovavano ad ogni sosta.

In quei brevi momenti fatti di comandi secchi e pochi commenti ci sentivamo forti. Sicuri. Un istante dopo eravamo nuovamente naufraghi in quel mare di pietra. Nuovamente soli. Ci scambiammo i materiali. Ogni gesto era misurato. Quasi trattenevamo il respiro, come se potesse bastare questo a tenerci appesi ai tre chiodini della sosta.

Un rinvio mi sfuggi di mano. Mi sembrò quasi che rimanesse sospeso pochi istanti prima di precipitare. Non lo seguii con lo sguardo. Non mi giunse nemmeno il suono del tocco al suolo.
Per tre volte Nicola tentò di partire dalla sosta e per tre volte tornò indietro. Ripeté lo stesso identico movimento senza venirne a capo. Alla terza vide un chiodo, nascosto dentro una fessura invisibile da sotto. Era quella la porta d’uscita. Tornò alla sosta.

Eravamo insieme, ma l’un l’altro soli. Ci sono poche cose che può fare un buon secondo di cordata. Recuperare il materiale. Essere svelto. Non mostrare segni di cedimento nemmeno alla decima ora di salita. Mantenere il buon umore. Incoraggiare il compagno. Gli dissi che poteva fare con calma. Potevamo fermarci anche mezz’ora. Che potevamo tornare indietro, anche se non lo credevo seriamente.

Vuoi bere?” dissi alla fine; che domanda idiota, pensai. Nicola invece non disse niente. Lui era già oltre la paura. Aveva visto il chiodo, sapeva cosa doveva fare. Solo trattenere il respiro un attimo in più. Crederci oltre quello che riteniamo lecito credere.

Non penso che il mio atteggiamento risoluto e controllato possa aver cambiato la nostra situazione. O magari sì.

So solo che alla terza volta Nicola passò il chiodo e andò oltre. Il resto fu nuovamente la mia e la sua solitudine, asimmetriche e parallele al tempo stesso. Quando poggiai le mani sul bordo della cima mi accorsi di respirare di nuovo. Nicola mi raccolse da quel vuoto come un marinaio un naufrago tra le onde. C’era ancora un po’di sole, poi la notte inghiottì ogni cosa.

Attorno a noi, attonite, fluttuavano le montagne, naufraghe anch’esse nella sera.

 

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2 risposte a "Due solitudini"

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