Ombra e silenzio

di Nicola Narduzzi

“To understand, deep in my own body,

that to suffer is to grow.”

Steve House

L’aria è carica di nervosismo. Sarà per il grigiore degli edifici che contrasta con il sole splendente, limitando la visuale sul cielo limpido di metà estate. Sarà per l’afa che avvolge ogni cosa con il suo abbraccio rovente. Lentamente mi faccio strada nel traffico cittadino, una mano fuori dal finestrino a cercare inutilmente un po’ di refrigerio, mentre alla radio passano l’ennesima canzone latina “nuova hit dell’estate”. Ingorghi ai semafori, scooter che scartano in ogni direzione, colpi di clacson appena un’auto va più piano di quanto considerato lecito. Una frenesia che mi scivola addosso, senza che me ne renda conto.

Esco dalla città, lasciandomi dietro il suo carico di astio e calura per scorrere piacevolmente lungo una delle infinite strade disperse nel nulla della campagna friulana. Dedico alla guida la minima attenzione necessaria, mentre le immagini del panorama scorrono lungo i finestrini, lasciandomi libero di cercare di ricucire quegli strappi invisibili alla rete di certezze e sicurezze che pensavo indistruttibile. Credevo di aver smesso con i dubbi, con le incertezze, con le domande irrisolte, eppure ancora una volta mi ritrovo a guidare come un automa arrovellandomi senza tregua su una sola domanda: Quanto sono andato vicino a perdere il controllo?

“Com’è lassù?”

“Male.”

Uno scambio di battute breve ma intenso, preludio ad una calma che definisce la separazione tra due figure legate, ma divise da marcati strapiombi. Non voglio pensare alla faccia di Saverio giù, nella nicchia una ventina di metri sotto di me. Qualsiasi cosa stia immaginando, di sicuro ha capito che sono nella merda.

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C’è silenzio qui. Siamo arrivati ai piedi del Campanile in una fresca mattina di metà estate. Abbiamo girato l’angolo per rifugiarci nell’ombra del suo lato nascosto, quello che non finirà mai sulle cartoline o in qualche mostra fotografica, quello dove non ci sono orde di escursionisti che osservano ammirati con il naso all’insù, lì dove nessuno può vedere.

C’è silenzio qui. Nessuno dei due proferisce parola, non c’è molto da aggiungere al poco che è stato detto. In effetti, gli ultimi metri percorsi sembravano più difficili del previsto, privi oltretutto di possibilità di assicurazione. Li avevo affrontati di slancio, certo di trovare qui, sotto i tetti gialli che si protendono nel vuoto, due bei chiodi a cui affidarmi in tranquillità. Invece niente, solo tanta roccia fratturata in equilibrio precario. Non è stata una grande idea la mia, eppure ero salito calmo e sicuro fino a qui. Sono proprio uno stupido. Il battito cardiaco accelera, il respiro si fa pesante.

C’è silenzio qui. Anche le urla delle numerose cordate che affollano la via normale e il suono della campana di vetta che ci hanno accompagnato fino adesso si sono zittiti, rimarcando un altro stato di separazione. Mi guardo attorno, il tempo scorre lentamente in una misura che non riesco a quantificare, mentre rimango immobile sul ripiano sul quale mi ritrovo in un precario equilibrio.

Due, tre boccate d’aria per cercare di scacciare la tensione che sta aumentando. Cerco di analizzare in modo razionale la situazione. Come posso calarmi?

Tutti i blocchi attorno a me suonano pericolosamente di vuoto, inutile provare a mettere una protezione. E se provassi a scendere arrampicando?

Non un’opzione fattibile per me su queste difficoltà.

Saltare? Guardo l’arco che la corda percorre sotto di me fino laggiù, a quel chiodo che sporge per una lunghezza imbarazzante da una fessura una decina di metri sotto di me. Un brivido corre lungo la schiena. Razionalmente dovrei sapere che dopo quindici o venti o più metri che siano la corda scorrerà nel freno e si allungherà imprimendo una decelerazione progressiva al mio corpo, eppure l’idea mi fa paura lo stesso. Fa paura perché cadere non è un istante ma un lasso di tempo in cui gli istanti diventano minuti e poi ore man mano che la velocità aumenta e la mente può registrare tutto quello che sta succedendo ma non può reagire, sopraffatta dall’immensità di quello che sta accadendo e da un’unica, totalizzante, domanda: “Farà male?”

Dalla nicchia dove mi trovo potrei attraversare a sinistra, ma le possibilità di assicurarmi sembrano scarse e poi chissà dove finirei oltre lo spigolo che delimita a nord la parete. Alla destra la roccia strapiomba ancora di più, eppure vedo una fessura regolare e solida ad un paio di metri da me.

Dei blocchi instabili mi precludono l’accesso a quell’ancora di salvezza nella verticalità che si fa via via più opprimente. Provo a raggiungerla un paio di volte, ma non riesco a staccarmi dalla piccola piazzola. Mi sento solo, incredibilmente solo e in trappola. Guardo verso il basso, le corde che si inarcano lateralmente, scomparendo sotto gli strapiombi. Senza dire niente dò un calcio ai blocchi, che scivolano senza far rumore in un arco unico fino alle ghiaie.

C’era silenzio qui, poi un boato è rimbalzato tra le pareti in quest’angolo solitario della Val Montanaia. Rassicuro Saverio, mentre con calma mi sposto a destra. Prendo il friend viola, il più piccolo a mia disposizione, ma quando provo a inserirlo in quella fessura tanto agognata non entra. Proprio mentre penso ormai di essere davvero nei guai, davanti al mio naso vedo una fessura sottile e profonda. È talmente perfetta che mi convinco si sia creata improvvisamente nella roccia solo per me. Pochi secondi dopo il silenzio è nuovamente interrotto: un suono metallico sempre più acuto, un sospiro di sollievo e mi abbandono ad un chiodo piantato saldamente fino all’occhiello.

Dopo esserci scrollati di dosso quanto appena accaduto arriveremo sulla cengia circolare, con le braccia e la testa svuotate e lo sguardo stralunato. Verremo guardati con curiosità dalle una delle tante comitive che salgono serenamente lungo la via normale, stupite di vedere qualcuno sbucare “dalla parte sbagliata”. Una cima insolitamente solitaria sarà una meritata ricompensa e, seduto a godere del calore dei raggi del sole, mi guarderò attorno nella lucida consapevolezza di essere vivo e felice nel posto più bello del mondo. Il resto è soltanto un racconto di ombra e silenzio.

Quanto sono andato vicino a perdere il controllo?

Le ombre della sera si allungano, mentre l’afa della giornata lentamente lascia spazio ad una piacevole frescura. Guardo il sole che tramonta dietro quella frastagliata linea d’orizzonte che rinchiude ad occidente il mio angolo di mondo. Ne comprendo la bellezza, eppure non la percepisco. Sono strane le ferite che lasciano certe esperienze, lì dove nessuno può vedere. I danni fisici si possono comprendere, curare. Come si fa invece a capire le inquietudini che tormentano un uomo, le sue solitudini, le domande nascoste nei recessi profondi della coscienza, le distanze che lo separano dalla vita reale?

In dieci anni di arrampicata, ero felice di non essermi mai trovato in situazioni davvero pericolose. Giocavo tranquillamente quel gioco di equilibrio tra lo spingere il limite in avanti e la consapevolezza di non poter andare troppo oltre, ma stavolta ho visto quel confine più vicino di quanto volevo. Forse era inevitabile che accadesse prima o poi. Forse è stato addirittura un bene e metabolizzando l’esperienza riuscirò a crescere. Perché in fondo penso davvero che in quello che facciamo lo scopo finale è progredire, quindi crescere e provare paura è una parte profonda dell’esperienza di crescita. Una volta non mi sarei cacciato in una situazione simile.

Una volta però sarei andato nel panico. Quindi in tutti questi anni forse sono cresciuto, oppure sono semplicemente diventato uno sciocco. Con il mio carico di dubbi e di domande irrisolte continuo a guidare, scomparendo nell’oscurità che ormai avvolge la campagna.

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