1974

di Saverio D’Eredità

Mi portò un pacco di vinili in una busta di carta con un foglietto scritto a mano

To feed your free spirit

La mia amica aveva la passione per i messaggi un po’criptici ed allusivi e dal canto mio la domanda era più che altro come poter ascoltare quei vinili non avendo alcun supporto per farli girare, quindi più prosaicamente le chiesi di farmi una copia cd che non si sapeva mai.

La partenza per l’Erasmus a Bruxelles stava diventando quasi come il saluto prima di partire per la naja, ed in un certo senso lo era, comparato ai tempi moderni. L’unico problema era far stare le robe per i primi 3 mesi senza sforare il limite bagaglio di Ryanair. Tempi moderni, appunto. C’erano molte cose passate che stavo portando in quel borsone, fossero libri o cd o magari maglioni che non avrei più avuto il coraggio di mettere. In questo senso quei polverosi vinili dal consolante fruscio si inserivano benissimo. Tra gli album in quella busta di carta spiccavano Led Zeppelin IV, un Pearl di Janis Joplin e un paio di Stones quali Sticky Fingers e Exile on Main Street. Tutta roba che sarebbe servita a “nutrire il mio spirito libero”, pubblicata nella prima metà degli anni settanta.

Ma serviva qualcos’altro per alimentare il “mio spirito libero” e così un altro pezzo degli anni settanta, precisamente del 1974, scivolò lestamente nel borsone a discapito di un bignamino di verbi francesi, ovvero la prima edizione della guida “Alpi Giulie” di Gino Buscaini, la cui copertina grigia telata già presentava i segni di un’usura sproporzionata alle effettive realizzazioni alpinistiche. Quante volte era stata nel mio zaino? Tirata fuori e appoggiata a qualche attacco, consultata persino a metà di una cengia. Una guida nel vero senso della parola, quasi un breviario da portare nel taschino per recitarne un salmo a metà salita.

E mi avrebbe quindi accompagnato anche attraverso certe lunghe domeniche pomeriggio di noia e solitudine, agendo come palliativo alla carenza di altitudini. Lo sguardo verso le due grandi finestre che davano luce allo “studiò” in cui abitavo si soffermava su tetti inclinati e lucidi di pioggia, di un monocolore grigio come quelle giornate. Era del resto il tempo in cui nel weekend si recuperavano le ore perse tra il lunedì e il venerdì e quindi normalmente non saltavano mai fuori proposte interessanti.

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Le letture della guida, che posava sul comodino quasi come la Bibbia, intervallavano quei lunghi e silenziosi weekend in cui sostituivo gli elementi naturali con la natura artificiale cittadina. Le solitarie corse nei parchi della “ville verte” forse potevano rimpiazzare il bisogno di verde, dell’aria di bosco, di terra buona. La fatica di una lunga nuotata quel torpore alle braccia propria delle giornate di arrampicata. Il pane comprato al mercato invece aveva un valore puramente consolatorio, così come lo sfogliare le pagine fini della “Bibbia” della Giulie. Mi inebriava l’odore bibliotecario che emanava la polvere di quella carta, il tatto ruvido della tela grigia i cui bordi già cominciavano a sfilacciarsi. Niente a che fare con l’impersonale plastificazione delle ultime edizioni che mai riuscirebbero a restituire l’odore dei cuscinetti erbosi che sbucano dalle fessure o la sgradevole sensazione di friabile di certe normali dimenticate o ancora la resina attaccata alle mani su ripide balze infestate dai mughi. Solo quelle pagine riuscivano seppure parzialmente a placare un’ansia di spazi, di cieli, di polmoni aperti e occhi profondi che si aggravava con il passare delle settimane, a dimostrazione che si fugge sempre per apprezzare qualcosa che già si ha.

Sviluppai quindi un rapporto simbiotico con la guida, mentre le note di “Can’t you hear me knockin’” degli Stones facevano da sottofondo. Mi chiesi se anche Buscaini ascoltasse gli Stones, sebbene il tratto preciso dei suoi disegni a carboncino e quella minuziosa ricerca su numeri trapassati di riviste di montagna non facessero pensare a niente di particolarmente rock n’roll. Anzi, il Gino mi sapeva più di un buon geometra affidabile prima che uno scapigliato – di capelli, poi, pare ne avesse pochi – sul modello climber americani.

Eppure di montagne ne aveva salite tante, Buscaini. Da una parte all’altra delle Alpi, dalle Ande all’Himalaya, incessantemente aveva percorso le strade che portano alle vette, riempito di polvere le sue scarpe e affondato i piedi nei primi guadi patagonici. E non è forse rock questo? Quante valli, quanti creste anonime, quanti passi valicati, eppure sempre con quello sguardo pacato e attento, lo immaginavo con la matita nel taschino e fogli di minuta in tasca, osservatore giudizioso di quelle pietre remote quasi fossero cosa viva.

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Nel frattempo l’ascolto dei dischi non so se contribuì ad alimentare lo spirito libero, ma di sicuro ad arricchire la mia cultura musicale. Muovendomi dagli Stones ritornai indietro alle radici del blues, da Hendrix con divagazioni successive verso la psichedelia e l’elettronica. Un po’ come allo stesso modo la lettura della guida e i sapienti parallelismi di Buscaini mi indussero ad approfondire l’interesse verso altri gruppi montuosi e fu così che venni a conoscenza di certe vie sulle Pale o in Sella. In quelle domeniche in cui cominciai ad imparare ogni singolo passo del Deye-Peters e pure della Piussi alla Veunza non stavo forse accogliendo quell’invito, alimentando il mio spirito libero?

Le montagne, i gruppi, le forcelle e le valli d’accesso, questa geografia che riandava ad un sapere antico e forse perduto diventavano gli spazi in cui rifugiarmi dal silenzio delle quattro mura nel quartiere europeo quando il weekend svuotava gli uffici. Imparai ad esserne amico. Mi muovevo tra esse a seconda di umori ed ispirazioni, cominciando a riconoscere i tratti principali dei monti e comprendendo che anche i più contorti profili del Siroka Pec o del Srbrenjak i cui nomi sembravano appartenere a terre fantastiche, meritavano attenzione, una buona parola o anche soltanto un cenno. Come un semplice atto d’amore.

Scorrevano quindi i mesi e crescevano nel mio pc i cosidetti “listoni”, appunti di vie da ripetere, cime da raggiungere, varianti da approfondire. E il criterio, molto spesso, lo dettava la bellezza della presentazione stessa, come questa: “Bella arrampicata su roccia abbastanza solida. Il tratto più difficile è il superamento degli strapiombi dopo la prima traversata in parete. Questo tratto può essere spesso bagnato. Più difficile, ma simile al pilastro SO della Pala di S.Martino, salvo per la qualità della roccia, migliore nelle Pale pur considerando buona quella della Riofreddo. Altezza: 750 mt (600 fino alla Cengia degli Dei). Difficoltà III e IV, un tratto V-“

Con questa sintesi oserei dire perfetta per precisione e ponderazione Buscaini introduce la via “Comici-Fabian” allo spigolo Nord-est della Cima di Riofreddo, itinerario 92e. Quale altra relazione potrebbe riuscire in così poche righe a fornire tanti dettagli al tempo stesso tecnici, qualitativi, ambientali e storici senza stucchevoli fronzoli o peggio ancora sdegnose liquidazioni? Era del resto nello stile di Buscaini, conoscitore attento e quasi devoto delle montagne, riuscire a collocare gli itinerari in una visione globale che oggi si direbbe scomparsa. Non è forse così che le vie sul Mangart sono emerse per competere e superare le pareti della Scotoni, della Civetta e della Marmolada? E le rocce del Fuart nella loro versione migliore ad essere accostate alle più rinomate pareti del Sella, delle Pale o del Sassolungo?

Cima di Riofreddo Lo spigolo, al tramonto - foto S.D'Eredità
Cima di Riofreddo
Lo spigolo, al tramonto – foto S.D’Eredità

Verrebbe da dire che se Kugy è stato il cantore delle Giulie Buscaini ne sia stato il talent scout. Le Giulie forse non sarebbero esistite nella storia alpinistica senza quel tratto irripetibile di matita grigia e la certosina pazienza di trascrizione di Gino. E io forse non avrei mai avuto la minima idea di cosa fosse la Comici al Salame e la Liebl – Schober al Pan di Zucchero.

Consumavo così i vinili, ai quali la punta di diamante conferiva la stessa ruvida semplicità di quelle relazioni, inimitabili per il rigore senza scadere in tecnicismi di nicchia che guardano più alla performances che allo stile. E come in certi riff di chitarra, seppure parsimoniosamente e con pudore, anche il “monaco” Gino lasciava trasparire qualche volta una mite felicità tradendo una particolare affezione per certe salite che “meritano di essere ripetute”, cercando di superare i “tratti friabili” o i “camini bagnati” che oggi non consentirebbero a quelle vie di entrare nel novero delle “100 più belle”.

Tra vinile e tela grigia il 1974 così divenne l’anno di riferimento nel mio immaginario trasversale tra rock, blues e alpinismo classico. Per me tutto l’alpinismo successivo aveva un interesse tutto sommato relativo e dopo il 1974, del resto, anche Mick Taylor lasciò gli Stones e capolavori come Exile on Main Street e certi ricami nell’assolo di “Time Waits for no one” sarebbe destinati a rimanere irripetibili. Ma la rivoluzione era in atto, e come il magma di un vulcano si portava via tutto.

Già, come diceva la canzone il Tempo non aspetta nessuno, ma sarebbero comunque passati anni prima di trovare il coraggio e la voglia di andare a mettere le mani su quella via. Forse proprio perché la magistrale relazione presente sulla guida ne aveva quasi esaurito il mistero. Non ci sarebbe stato più nulla da dire, dopo le parole del Buscaini.

Nel frattempo il fruscio tanto romantico quanto fastidioso e decisamente poco maneggevole del vinile era stato sostituito da generazioni di supporti musicali ben più efficienti e portatili. L’I-pod avrebbe prese posto nel taschino sublimando musica ed emozioni, così come le scalate scelte, gli schizzi o le mute “topo” (nonché l’abbattimento dei costi di produzione) avevano reso la “grigia” un pezzo di archeologia editoriale. Piccoli geroglifici ora accompagnano linee che sembrano solo scarabocchi sulla carta, defraudate del loro contesto, perse in uno spazio in cui contano i tiri ma non le sensazioni. Un piacere che si direbbe artificiale come il suono pulito dei “singoli” di oggi. Nessuno pubblica più un concept album come nessuno può aver voglia di risalire un canalone sfasciato “per puro interesse storico”.

Del resto con il tempo anche le pareti sembravano aver preso colore. Le linee, prima rintracciabili lungo direttrici principali, ora si ramificavano secondo logiche diverse e spiazzanti. E oserei dire che per fortuna non siamo più costretti a passare le nostre domeniche a sgomitare dentro camini che assomigliano a budelli più che pareti o peggio ancora prestarsi ad accurate opere di demolizione più che di scalata…Anche nel mio zaino, a scapito di un certo romanticismo naif, delle brutte fotocopie presero il posto della delicata guida telata e cominciai ad escludere dalla mia lista dei desideri alpinistici quelli solamente suicidi. Eppure nella mia immaginazione quelle pareti mantenevano lo stesso, immutabile, fascino bianco e nero.

Negli anni non avrei più ritrovato quelle domeniche di silenziosa lettura, che si erano invece riempite di sempre più numerose uscite, anche se era difficile spiegare di volta in volta ai soci la mia predilezione verso le Giulie. Soffrivo quasi nell’abbandonare la rotta dell’est, pensando a quante occasioni stavo perdendo per carpire un segreto in più, indovinare un canale e rivisitare i cammini di Buscaini. Perché qualche volta ci comportiamo più da archeologi che da alpinisti.

Rimandavo quindi la visita allo spigolo, nonostante lo guardassi con fascino e timore da ogni angolazione e in ogni stagione. In un livido pomeriggio d’estate quando si addensa il temporale come in certe mattine lucenti, la cupola calva della Cima di Riofreddo, battuta dai fulmini e circoscritta dal cammino della Cengia degli Dei, sembrava spiccare più di altre. Non so quante volte ne ho osservato il profilo, sbandando con l’auto appena uscito dalla galleria di Valbruna, e quando la neve si posava dentro i camini e sulle cenge oblique ed essa emergeva logica, inconfutabile. Erodendo man mano il “listone” la Comici rimaneva comunque lì, come in mezzo al fiume un sasso lisciato dal tempo. Fino a due estati fa, quando l’anticiclone più spettacolare degli ultimi anni non lasciò spazio ad ulteriori indugi. Nessuna scusa meteorologica né tecnica. L’allenamento c’era e il sole anche.

Anche stavolta ero riuscito a convincere Stief ad imbarcarsi in avventure per le quali di sicuro posso contare su pochi candidati. Forse come me anche lui ha studiato in certi pomeriggi di noia le pagine della Buscaini e appartiene a quella scuola, deformata dalle letture, in cui un camino è sempre più logico di una placca, scuola che di certo ci ha permesso di sopravvivere ma non di diventare alpinisti di punta.

Non servì quindi rileggere la relazione e la serata al Pellarini trascorse cercando di idratarsi il più possibile in vista del sicuro sfinimento del giorno dopo. Nella penombra di una sera di luglio che non abbandona mai veramente la luce del giorno ripassammo le varie parti dello spigolo come recitando un salmo. Di tutta la salita, ormai mandata a memoria, solo in un punto persisteva un dubbio. Vi è infatti un traverso poco individuabile che esce in parete a sinistra abbandonando la rassicurante linea di camini per inoltrarsi in uno spazio grigio e indistinto. Temevo soprattutto le poche righe in corsivo con le quali e con il consueto pudore, Buscaini ammoniva i ripetitori dall’eguagliare le gesta dei primi sciagurati epigoni di Comici che si erano ritrovati su dei brutti gialli con il culo all’aria. La fantasia negli anni si era popolata di immagini angoscianti in cui con sventurati compari mi trovavo ad affrontare passaggi raccapriccianti su roccia malsana e chiodi paleozoici. Le mani mi sudavano e chiudevo subito la guida come si spegnerebbe un film dell’orrore.

La mattina seguente ci avviamo nell’ora ubriaca che precede l’alba sui sassi scomposti del ghiaione che scende dalla gola tra Riofreddo e Vergini. Ci mettemmo un tempo eccessivamente lungo, ma in parte fu colpa mia, perso con lo sguardo a seguire i profili delle Madri dei Camosci. Giusto 3 anni fa, la stessa mattina di questo giorno, seguivo altrettanto scompostamente il compagno verso l’attacco del Deye. Non si finisce mai di alimentare il proprio spirito libero.

I soci erano già sotto la parete e ne approfittai per ricercare la postazione più consona ad essere eletta quale toilette, che trovai sotto un camino proprio alla base dello spigolo. Nel mentre delle operazioni osservai a lungo quel camino trovandolo del tutto corrispondente ad uno dei “versetti” imparati a memoria dalla Buscaini. I compagni invece si aggiravano dubbiosi alla base e all’interno di un tetro camino parallelo che aveva l’aria di “falso amico”. Quando mi presentai ero incerto se dissuaderli dalla loro scelta non fosse stato altro che per evitare di invitarli presso la mia “toilette”. Tuttavia l’attacco era indubitabilmente presso il camino precedente. Mi chiesi se anche i luoghi adibiti a cessi avessero una loro logica alpinistica e ne dedussi di sì.

Il tiro chiave

Spezzammo la salita in 3 parti per dividerci equamente pesi e responsabilità. Decisi di aprire le danze quasi unilateralmente, un po’per scrollarmi di dosso la torpida sonnolenza mattutina, un po’per sbrogliare da subito i dubbi che accompagnano gli attacchi e infine per concedere a Stief i tiri forse migliori. Nelle salite fatte insieme, per un misto di ignavia e casualità, si era sempre cuccato dei tiri veramente pelosi. Visto che anche stavolta avevo avuto la meglio sulla scelta dell’itinerario mi sembrava doveroso e anche un po’diplomatico non forzare ulteriormente la sua accondiscendenza. Michele invece, alla sua prima vera salita in ambiente, avrebbe condotto su tiri che –ipotizzavamo- non avrebbero creato grandi problemi. Del resto nella strategia generale noi due “esperti” (almeno in biblioteca) avevamo già preventivato di tenerlo fresco e riposato in quanto il suo eccellente livello in falesia avrebbe garantito la salvezza della cordata in caso di necessità o comunque laddove avremmo ritenuto di avvalerci di capacità più “moderne”.

Mi avviai così davanti e per tre ore seguimmo la linea dei camini obliqui aperti come salvacondotti nella possente pancia della Riofreddo. Alcuni chiodi punteggiavano soste e passaggi, dando conforto. Talvolta rimasugli di spit martellati e resi inservibili. Viviamo tempi confusi, non c’è che dire.

Le scagliette friabili si frantumavano sotto la pressione delle mie dita mentre cercavo di oppormi sulle due facce del camino. Pochi tratti di arrampicata verticale venivano sostituiti da accorte salite con corda in mano su rocce sporche di ghiaia. “Bella arrampicata su roccia abbastanza solida”. Sapeva usare bene le parole, Buscaini: il suo “abbastanza” è esattamente corrispondente a quello del vocabolario. Le scagliette ne erano riprova. Ma la descriveremmo così ancora oggi in un’epoca di superlativi inflazionati ed aggettivazioni sproporzionate?

Del resto dovevo ammettere l’entusiasmo che generava in me questo lungo cammino verticale era stato negli anni smorzato dal declassamento a “via d’ambiente”, definizione eufemistica di norma assegnata a quelle salite oggettivamente poco appaganti per gesto atletico ma comunque non del tutto disprezzabili per il contesto circostante. O forse bisognerebbe relativizzare il concetto di bello applicato alla scalata, gradandolo, classificandolo, sminuzzandolo in miriade di rivoli di scale, tabelle e comparazioni. Ne abbiamo veramente bisogno?

Con questi pensieri mi affacciai da un terrazzino sospeso nel vuoto panoramico sull’abside scura del “Vano Nero”. Basterebbe questa visione per riaggiornare la categoria del bello. In un movimento poco accorto diedi una sonora testata ad un soffitto di roccia dove mi apparvero come per magia tre chiodi in fila piantati con quell’aria inconfutabile che solo certi ferri vecchi sanno esprimere. Ecco il punto in cui traversare! La linea era evidente, un metro sopra la mia testa si profilava una sicura cornice rocciosa che sembrava invitare a seguirla oltre lo spigolo. Recuperai i compagni decisamente più sollevato sulle sorti della nostra giornata. Erano le 9.30 ed un terzo, forse il meno appagante, della salita era alle spalle. Stief mi concesse l’onore di portare la cordata al di là dello spigolo, se non altro per agevolare le manovre nello spazio esiguo del terrazzino.

Hanno sempre un’aria così avventurosa, i traversi.  Per quanto facile, per quanto ovvio, si procede sempre con cautela, come a chiedere permesso alla montagna di poter entrare in certe stanze socchiuse. Sparii oltre lo spigolo lasciandomi prendere dall’entusiasmo del procedere agevolmente in mezzo a questo spazio grigio. Ma le corde non sono allungabili all’infinito e la legge dell’attrito si applicò inesorabile nel punto meno consono. Mi trovai quindi ad aver a che fare con delle rocce sfasciate che di chiodi non ne volevano sapere. Persi il tempo guadagnato nei tiri precedenti nell’attrezzare qualcosa che non fosse puramente ornamentale per i miei compagni e la magia scomparve di colpo sostituita da rumorose imprecazioni. Sembra sempre così romantico e pulito l’alpinismo visto da sotto.

Conclusi la lunga traslazione verso il centro della parete proprio nel momento in cui i raggi del sole venivano ad accendere la parete della Riofreddo. Ci sono momenti nelle Giulie, che credo irripetibili altrove, i quali si rinnovano laddove il sole viene a baciare queste pietre grigie. Esse di colpo divampano in un fuoco bianco e pare prendano vita, le fessure imbottite di muschi e certi fiorellini infinitesimali presi in cura da minuscole api il cui fruscio è il sottofondo estraniante delle scalate.

Il rumore di una cascata lontana. Pietre che rotolano in gole a noi invisibili.  Le montagne a lungo immaginate in bianco e nero inondate di colore. Mi accomodai dunque nelle retrovie della cordata, con la scusa delle foto e di poter buttar giù qualche riga per una possibile relazione aggiornata. Mentalmente rivedevo i singoli passaggi della guida e il diedro canale che si divincolava tra gli strapiombi non mi apparve più l’inconfutabile strettoia per uscire dall’angosciante verticalità della parete; le traversate esposte appena qualche passo più aereo, il filo dello spigolo sul quale le mani sudarono al solo pensiero, una logica scala di cui sfruttare i punti deboli. Forse preferivo i tempi del divano belga e quelli delle sbandate con l’auto all’uscita della galleria di Valbruna.

Il giorno poi cadde come un frutto maturo e per quella strana legge del tempo che si applica solo a certe arrampicate ci ritrovammo molto rapidamente trasportati dall’ora di pranzo a quella di cena.

Cima Vallone
Cima del Vallone al tramonto – foto S. D’Eredità

Non ho idea, ora, perché si fosse fatto così tardi. So solo che voltandomi verso il basso vidi le ombre salire rapide ad inghiottire tutti i metri da noi percorsi in quella giornata ed in un certo senso in tutte le domeniche di pioggia dei tempi passati. La montagna tornava in bianco e nero, e le cenge superiori soltanto promettevano a noi marinai tardivi consolanti sponde ancora illuminate.

Ripensai a “Can’t you hear me knocking” ascoltata con l’imperfetto sottofondo della sala di registrazione e mi sembrò di rivivere quel lungo assolo di sax su questi interminabili tiri finali. Dovremmo forse assaporarli, invece di guardare l’orologio e pensare al buio che accompagnerà insindacabilmente la nostra discesa. Così come dovremmo riascoltare quei 7 minuti di rock e blues prima che tutti i vinili diventino irriproducibili, prima di sbriciolare quelle note in un impalpabile spazio digitale.

Sopravanzava la notte come a chiudere definitivamente le pagine della guida, dalla quale bisognerà spostare altrove il segnalibro blu.

Sembrano un poco più lise, ora.

Pubblicato su IN ALTO – 2014

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