Pompelmo

di Saverio D’Eredità

Get what you give dei New Radicals è quel genere di canzone che appena parte ti viene subito da alzare il volume. E’il pezzo perfetto per ogni genere di compilation, in qualunque punto tu la piazzi ti fa svoltare. Una canzone pop-rock pulita ed onesta, ottimista anche se un po’ ruffiana con un tocco di sfrontatezza. Get what you give era il brano di apertura della prima compilation che avevo fatto per Graziella ai tempi. Già. Ai tempi.

Non so perché mi viene in mente questa canzone adesso, fermo sugli sci che guardo Luca accingersi a far la prima curva e – ne sono abbastanza certo – prossimo a farla piuttosto male. Tanto io farò uguale se non peggio e almeno stavolta la colpa non è solo nostra, ma di questa neve orrenda, un po’crosta e un po’pappa che devi essere bravo, ma bravo bravo, a sciarci in modo che non si veda quanto fa schifo. E non è il nostro caso.

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Una lunga giornata – un viaggio solitario sulla ovest del Canin

di Piero Surace

Le giornate lunghe mi son sempre piaciute, come molti provo una qualche forma di piacere quando arrivo alla sera completamente distrutto, con le palpebre che si chiudono da sole sulla via di ritorno da una arrampicata o da una scialpinistica. Non so di preciso cosa mi attragga con tale forza verso queste esperienze, non so neanche se è importante capirlo ma sono sicuro che non sono l’unico a pensarla così.

Sciare la parete Ovest Del Kanin è un’avventura che potrebbe diventare una di quelle giornate, una giornata lunga. Già in fase di pianificazione ci si rende conto che, come usiamo dire, è un bel viaggio, a maggior ragione se fatto in totale autonomia e facendo coincidere punto di partenza e punto di arrivo.

Nel suo diario Mauro Rumez, il primo ad aver percorso con gli sci questa parete, racconta di non essere sceso fino a fondovalle in Val Resia ma di essere risalito fino a Sella Grubia per poi attraversare tutto l’altipiano che porta a Sella Bilapec o Sella Ursic per raggiungere Sella Nevea. È facile immaginare che le pagine scritte da Rumez le ho consumate a forza di sfogliarle, d’altronde Rumez era un triestino come me e pioniere dello sci ripido.

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La scelta di ripercorrere le sue orme è stata resa particolarmente facile dall’estetica della parete: entrare in Val Resia senza accorgersi della Ovest è impossibile come è impossibile non innamorarsene. Sbam, ti si para di fronte, bellissima e attorniata da pareti bellissime, in una valle incantevole. Decido di partire un sabato mattina da  Sella Nevea con relativa calma. Alle 7:30 ho le pelli sotto gli sci e inizio la risalita verso il Rifugio Gilberti pianificando di proseguire verso Sella Ursic. In mia casuale compagnia c’è Giorgio, scialpinista udinese appena conosciuto e anche lui alle prese con un avventura solitaria. Curioso condividere una parte della salita con un altro che ha deciso di andare per i fatti suoi, al suo ritmo e con le sue autonome scelte. Sul momento le chiacchiere che facciamo non mi fanno pensare più di tanto alla particolarità di questo breve incontro. Le nostre strade si dividono in Sella Ursic e proseguo da solo verso l’attacco della ferrata Divisione Julia, la risalgo interamente e mi ritrovo sulla estetica cresta del monte Kanin.

Le giornate lunghe non richiedono fretta e la fretta in quel momento non la contemplo minimamente: nulla mi vieta di stappare una birretta in cima, il tempo non mi manca e spero che col passare del tempo la neve si trasformi quanto basta per permettermi una discesa sicura e godibile.

Piero Surace sulla ovest del Canin – foto P.Surace

Si fa l’una del pomeriggio, penso che il sole potrebbe aver già scaldato la parete. Comincio a prepararmi: chiodi in tasca, corda pronta, picca nello spallaccio, attacchini chiusi e via, dopotutto sono stufo di aspettare! Da subito mi rendo conto che le speranze di trovare neve ammorbidita dal sole sono state mal riposte ma per fortuna un minimo di crosta permette alle lamine di tenere discretamente bene. Le prime curve si fanno su una pendenza costante e decisa, da metà in poi diventa meno ripido e da qui anche la neve inizia a perdonare qualcosa in più, il sole ha fatto il suo dovere e io posso far correre un po’ gli sci. Non ho neanche il tempo di godere per un po’ delle buone condizioni della neve che la mia discesa è temporaneamente finita.

Per ripercorrere i passi di Rumez devo scendere con una calata in doppia, sciare ancora qualche curva e poi lentamente rientrare verso Sella Nevea. Da quanto mi è stato riferito dovrei trovare la sosta per la calata sulla destra ed abbastanza in basso, capita però, che nelle giornate lunghe alcuni aspetti sembrino non voler girare nel verso giusto: la sosta infatti non si fa trovare. Poco male, mi accontento di un solido spuntone e inizio a calarmi con gli sci in spalla. Mi dico che “kevlarino” da 5 e una ghiera in vita saranno sufficienti, sono sicuro di non essere l’unico a propendere per uno zaino leggero. Inizio a scendere ma dopo soli cinque metri di calata sento un boato sopra di me.

Riconosco il rumore e spero con tutto me stesso che la valanga non mi stia seguendo nello stesso canalino nel quale mi trovo. Ho solo il tempo di pensare a tutto questo, vengo travolto da una scarica di neve, ghiaccio e pietre.

Quanto sarà durata? Un minuto? Tre minuti? A me è sembrata un’ora.

Fortunatamente rimango appeso alla corda fino alla fine della scarica. La sosta improvvisata tiene e maledico un po’ la scelta minimale in termini di attrezzatura, sento il sangue che mi esce dalla testa e cola verso il collo, mi stupisco di quanto sono stato fortunato a non svenire. Mi dico che non è il momento per perdersi in dubbi e domande, riprendo a calarmi fino alla base della parete e dopo essermi raccapezzato in qualche modo, continuo la discesa su uno dei firn più belli mai sciati. Devo ammettere che forse questo mio giudizio è influenzato dalla gioia di essere quasi del tutto integro seppure un po’ ammaccato.

Nelle giornate lunghe si cerca l’avventura e quando si cerca l’avventura spesso la si trova, infatti il cellulare non ha linea e so che non l’avrà fino a fondo valle. Fino a lì devo arrangiarmi da solo. Mi faccio forza pensando che in fondo sto vivendo esattamente quello che cercavo, seppure con qualche imprevisto. Da quel punto la soluzione migliore sarebbe rientrare a casera Kanin e da lì puntare a malga Coot per farsi venire a prendere da qualche generoso amico in automobile o sperare in un passaggio in autostop.

Non credo di essere nelle mie migliori condizioni, ma ricordo di un vecchio sentiero che porta a Rio Runk: inizio a cercarlo ma neanche questo sentiero vuole farsi trovare, mi ritrovo in piena parete con la certezza di dover fare almeno un altra doppia, per giunta da attrezzare. Cerco invano di piantare qualche chiodo ma nessuna fessura è così generosa da accoglierne.

La ovest del Canin in un anno di “magra” visto dal Picco di Carnizza – foto S.D’Eredità

Dopo una buona mezz’ora di tentativi individuo una vaga traccia, probabilmente battuta da qualche cacciatore. Decido quindi di abbandonare il piano della calata e di seguire questo percorso che un pò faticosamente mi porta al sentiero diretto a Coritis. Percorrendo questo sentiero mi volto per osservare la linea di discesa appena abbandonata e realizzo che è stata una fortuna non essere riuscito a piantare nemmeno un chiodo in quel punto: mi trovavo espostissimo sopra uno strapiombo e con una corda sicuramente troppo corta per raggiungere la base della parete. Una bella fortuna, dico tra me e me.

Continuo nel mio faticoso percorso e finalmente raggiungo un punto coperto da linea telefonica, approfitto subito per chiamare un’amica che accetta generosamente di venirmi a prendere.

Al nostro incontro vedo il terrore nei suoi occhi, la visione che le propongo deve essere più splatter di quel che pensavo, cerco di rincuorarla sulle mie condizioni ma le mie parole non sono sufficienti: Non riesco a convincerla di non portarmi in ospedale, ha tutte le ragioni del mondo per accompagnarmi al pronto soccorso. La mia giornata lunga, o forse ormai lunghissima  si conclude con qualche punto di sutura sulla testa e questa storia da raccontare. Il giorno dopo parlo della mia disavventura a Saverio, lui mi dice che “è la valanga della montagna che ti vuole bene”. Io ascolto in silenzio, dentro di me credo sia uno strano modo per dimostrare affetto.

Appendice

Il Lato Selvaggio – Canin, parete Ovest

Nel mondo dello sci ripido tutto è capovolto. Sia perché il senso del percorso è inverso rispetto all’alpinismo (dall’alto verso il basso), sia perché i tratti salienti vanno letti al contrario. Simile è la dinamica, opposta la direzione. Lo scalatore, come lo sciatore, individua i punti deboli di un percorso. Interpreta il terreno. Individua le vie d’uscita. Nella scalata si risolvono in un passaggio, una fessura che permette di proteggersi, una cengia che evita un tratto inscalabile. Nello sci ripido, invece, le cose si fanno un po’ più complicate. Ci sono le condizioni della neve, l’interazione con in raggi solari, la temperatura dell’aria, l’umidità. L’andamento dell’inverno, dei venti, dell’innevamento e di una miriade di componenti che fanno di questa disciplina un’arte.

Ci sono discese in cui l’uscita è un’enigma. Che tiene il fiato sospeso anche al più esperto, audace e preparato degli sciatori. La ovest del Canin è, in questo senso, emblematica. Non basta avere il coraggio di affacciarsi in questo imbuto aperto a ventaglio sulla val di Resia. Bisogna andare proprio alla strozzatura dell’imbuto, nel punto dove la gravità e l’inclinazione convogliano il peso della montagna. Dove sta la porta di uscita dalla parete.

La parete ovest del Canin

Selvaggia, misteriosa, tanto evidente quanto enigmatica, la “ovest” del Canin è forse una delle pareti più ignorate e al tempo stesso ambite a seconda degli occhi che si usano per guardarla. Anonimo pendio di sassi, rocce ed erba, fasciato dalle regolari sedimentazioni calcaree, si illumina solo nei tramonti delle giornate estive. Imbuto raccapricciante e seducente quando lo si guarda nelle corte giornate invernali, ricoperto di neve tanto da farlo apparire come un unico lenzuolo se visto da lontano. Ma quel lenzuolo è sospeso sopra un salto di almeno 20 metri che separa la parete dall’ampia conca sottostante. Una parete del genere non può che stuzzicare i sogni degli sciatori del ripido. Se la parete sud del Canin Basso è certamente più attraente per la sua eleganza e continuità, la “ovest”, girata in maniera quasi altezzosa conserva tutto la sua anima selvaggia. E quel salto in fondo non fa che aumentare la curiosità.

Curiosità che nel maggio del 1991 fu tolta da un fuoriclasse assoluto del ripido: Mauro Rumez. Il 22 maggio di quell’anno, infatti, Rumez sale in vetta al Canin per la via normale ed affronta per la prima volta l’imbuto. Quando la parete si stringe mancano 20, 30 metri alla “carnizza” sottostante dove terminano le difficoltà: Rumez attrezza una doppia e risolve il passaggio. Aveva trovato la “porta”, e anche se la corda si era resa necessaria (interrompendo quindi la linearità e continuità della discesa) rimaneva una impresa notevole, di grande valore esplorativo. L’impresa di Rumez viene ripetuta 5 anni più tardi da un’altra grande figura del ripido: Luciano De Crignis. Exploit notevole quello del maestro di sci carnico, che concatena (supportato però dall’elicottero) le due pareti, ovest e sud, nella stessa giornata: 1700 metri di sciata tra i 45 e i 55 gradi in poche ore!

Non passano tanti da queste parti, come si sa. La val di Resia non spicca certo tra le mete dei “top skiers” e la nostra parete rimane affare per pochi. Passa una generazione ed emergono nuovi sciatori del livello adeguato a questa sfida: il 3 aprile del 2014, al termine di un inverno memorabile, Andrea Fusari ed Enrico Mosetti si aggiudicano la seconda ripetizione, ma prima nello stile di Rumez, con salita in vetta per la normale. Ultimo in ordine di tempo (e per quanto si sappia!) il nostro Piero Surace “Pierin” che da solo si è lanciato giù dalla ovest nel 2021.

Difficilmente vedremo da queste parti frotte di specialisti affannarsi a cogliere le condizioni perfette, ammesso che esistano per una discesa del genere le cui caratteristiche sono quanto mai problematiche e legate alla quota, l’esposizione e le peculiarità di una montagna con pochi eguali come il Canin. Ma del resto non c’è da stupirsi ed in fondo va bene così. Per apprezzare una parete così riservata ed austera, che sembra quasi nascondersi, bisogna essere un po’come lei ed accettarne le regole. Solo così si potranno fare due passi “sul lato selvaggio” e cogliere il senso di un avventura che, talvolta, è difficile esprimere a parole.

Canin mt.2587 – parete Ovest

Dislivello: 700 metri

Difficoltà: 5.4, E4 (fino a 55°)

Prima discesa: Mauro Rumez, 22/05/1991

Skipedia – appunti per un’enciclopedia minima dello sci di montagna

di Saverio D’Eredità

In fondo non sono che parole. Ma le parole sono la nostra bussola nel mondo, in questo caos che cerchiamo di decifrare. La nostra più semplice ed efficace attrezzatura per affrontare i difficili percorsi della vita.

Quali sono le parole dello sci? Ne conosciamo molte, più spesso legate alla qualità della neve, alla morfologia della montagna, alle qualità degli attrezzi. Ne usiamo tante, di parole, nello sci. Ma quali sono i concetti che caratterizzano e differenziano lo sci, lo sci di montagna in particolare, da tutto il resto? Perché i semplici numeri (dislivelli, inclinazioni, scale più o meno dettagliate) non spiegano tutto e l’esperienza dello sci (che vogliamo restituire alla sua origine, ovvero lo sci “di montagna” piuttosto che affibbiare l’etichetto di “sci-alpinismo”, incompleta e limitante come accade con tanti -ismi) sembra essere qualcosa di più. Più profondo, più vasto.

La letteratura non manca di certo. Più raro però che anche gli sciatori, i grandi sciatori fossero essi i precursori della disciplina dello “ski-tour” o i “ripidisti” oggi meglio noti come “estremi”, abbiano saputo dare forma a quelle sensazioni. Non è mai facile, quando si è immersi nell’azione. Può risultare meno vivido, quando mediato dal tempo e dall’esperienza. Ci rimangono, quindi, parole. A guidarci attraverso i diversi approcci e stili, sia che siamo freerider che amanti dello sci ripido. Sci-turisti o sci-escursionisti. Guerrieri del “ravanage” o amanti di più miti ondulazioni. Lo sci di montagna è una grande comunità in cui ognuno usa però gli stessi strumenti sullo stesso terreno. Ci deve essere quindi, da qualche parte, una piccola enciclopedia da consultare, dove ritrovare parole che raccogliamo lungo le nostre tracce sulla neve. Una specie di indagine in cui raccogliamo le prove.

Ho provato a prendere solo alcune, segnalando per alcuni di questi, il luogo del ritrovamento. Questa quindi non è una scelta di itinerari (ancora!) e nemmeno una monografia. Potreste farne ognuno di voi una vostra, nei vostri luoghi, sulle vostre tracce. Ma, se volete, potete usare questa breve lista dei luoghi.

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L’uomo sulla piroga

di Saverio D’Eredità

Al di là di ogni tentativo di trovare una definizione o una categoria, per quanto ci si sforzi di descrivere le sensazioni che si provano, credo che sciare sia, essenzialmente, una possibilità. Non una cosa utile, né tantomeno necessaria. Divertente, spesso. Altre, a dire il vero, un po’frustrante. Altre ancora un tentativo o forse una scommessa. Eppure.

Eppure succede ogni volta di nuovo. Che quando hai quei due assi ai piedi, quando il “clak” degli attacchi sancisce il tuo legame, quando hai davanti un pendio, in quel preciso istante ciò che hai davanti è soprattutto qualcosa che ha a che fare con le possibilità. Di sicuro qualcosa succede, in te. Qualcosa che d’un colpo amplia la sfera del possibile e – in qualche modo – la sfera di te stesso. Anche se lì per lì assomiglia più ad un istinto incontrollabile, animale quasi, a metà tra infantile incoscienza e consapevole coraggio. Qualcosa che ci aggancia alla parte nascosta di noi, quella che ricacciamo sempre dentro a pugni. Perché non è bene. Perché non si fa. Perché. Perché.

Non ci sono perché, qui. Ci sono due assi attaccati ai piedi, c’è uno spazio da creare. Lasciare una traccia è un venire al mondo di nuovo. Anzi, è un modo di stare al mondo. Ancora di più, più preciso. È un modo di stare con il mondo. E ‘stabilire una relazione e quindi – ecco, sì – creare un po’ sé stessi. Rendersi possibili.

Creste Bianche – foto Saverio D’Eredità

A me, sciare, il percorrere uno spazio bianco decidendo – solo io, e solo per quel momento – la mia traiettoria, ricorda sempre la sensazione che ho provato il giorno in cui ho imparato ad andare in bici. Ve lo ricordate, voi, quando avete imparato ad andare in bici? Vi avranno tolto il ruotino senza dirvelo o un adulto premuroso vi avrà tenuto per il sellino, immagino. Io me lo ricordo bene, ahimè, un po’perché ero già grandicello e poi perché a dire il vero non c’è stato né ruotino né adulto premuroso. Ho imparato su una bici che non aveva freni e a casa di un compagno di classe, un 25 aprile della terza media. Del resto, la sola bici che poteva prestarmi l’amico era uno scassone senza freni e poi – a pensarci bene – per imparare qualcosa non deve essere sempre tutto perfetto. Non dobbiamo avere sempre tutto.

Ecco, il momento in cui son riuscito a fare due pedalate in equilibrio è stato soprattutto un momento in cui ho percepito delle “possibilità”. Ricordo che ho iniziato a prendere tutte le strade che mi capitavano e il mio amico Paolo mi inseguiva e rideva di me che pedalavo come un forsennato perché i freni non ce li avevo e non potevo che pedalare e basta. Ecco con lo sci è più o meno lo stesso. Cioè è ogni volta come imparare ad andare in bici la prima volta. Non so se mi riuscirà la prima curva. Non so se riuscirò a non cadere. È questo che lo rende interessante a mio modo di vedere. C’è uno spazio non del tutto noto. Un universo di possibilità.

Deve essere qualcosa che si è sovrascritto nei geni dell’essere umano. Almeno dal momento in cui il primo uomo ha intuito come un tronco potesse trasportarlo sull’acqua. Ve lo vedete il primo uomo su una piroga? Qualche volta me lo immagino, quell’essere un po’rozzo e non molto evoluto che – inconsapevole di varcare una soglia epocale – con uno sguardo determinato, spinge quel tronco scavato nell’acqua e ci si getta sopra. Me lo vedo si, quello sconosciuto antenato dai denti storti, la pelle sporca, i peli ruvidi e gli occhi colmi di stupore, che si allontana sull’acqua, il cuore un tumulto di paura e mistero verso quella sponda ignota che lo attende. Lo sapeva, quell’essere umano di migliaia di anni fa, che quello stesso gesto, quello stesso sguardo, quelle stesse indecifrabili sensazioni si sarebbero ripetute un numero infinito di volte per centinaia e centinaia di generazioni? Che quella piccola spinta avrebbe determinato il futuro del pianeta nudo che aveva davanti?

Come l’uomo sulla piroga, anche lo sci ci offre un varco attraverso il quale ci è dato espandere la conoscenza e la consapevolezza dello stare al mondo. È una possibilità che si ripropone indefinite volte, basta saperla cogliere. Saperla leggere, come possibilità.

Tutto sommato però sciare non è che una delle declinazioni possibili di questa possibilità. Un modo come molti altri (bè, forse più affascinante, di altri) di attraversare quel varco che ci permette di proiettarci verso dimensioni nuove e diverse di noi stessi. Qualcosa di necessario. Talvolta quel varco, quel breve spiraglio in cui intravediamo una possibilità, è l’unica cosa che ci rimane. E a cui ci aggrappiamo con tutte le nostre forze.

Scendendo da Forca La Val – foto Marco Battistutta

Sto esagerando. Non è solo lo sci che ti permette di varcare quella soglia. Ma la sensazione, ecco, quella sensazione – ci siamo capiti – potete cercarla dove vi pare, con chi vi pare, con l’attrezzo che preferite o anche senza niente. E la cosa sorprendente è che accade senza che tu possa deciderlo. In qualsiasi momento e ovunque. Una mattina d’estate in una stanza senza suoni e senza finestre. Lungo strade polverose, dove ti chiedi se ancora qualcosa di puro è rimasto. Può essere dietro ad una telefonata, tra le carte di un ufficio, all’uscita da scuola lungo la strada che fai sempre e un giorno – clack, il suono degli scarponi che ritorna, tin-tin, i bastoncini che sbattono a scrollarsi la neve, l’occhio che coglie una luce particolare su un particolare insignificante – invece ti apre quella possibilità. E sei di nuovo l’uomo sulla piroga.

Un giorno siamo saliti sul solito monte dove vanno tutti. Dove siamo andati centinaia di volte e torniamo quasi come se ci fosse, tra le strade, nelle indicazioni stradali, nei nostri umori, una sorta di declivio che ci lascia scivolare da quella parte. Siamo saliti lungo la solita strada, misurato per l’ennesima volta passi, curve, dossi, alberelli e radure. Notato, nell’intercapedine degli anni, qualcosa che ci era sfuggito e qualcosa che non c’è più. Siamo arrivati in cima, il solito giro di panorama, il solito commento che pare veniamo qui per ridire le stesse cose sempre. Ma stavolta su quel monte ci siamo girati dall’altra parte. E la vista di quel pendio – e la solita domanda: hai mai provato a scendere di là? – è stata irresistibile. Come sempre. Ma come nessuna altra volta prima di allora, abbiamo voltato le spalle alle tracce conosciute e ci siamo rivolti a quel fazzoletto sospeso verso non-so-dove. Non abbiamo bisogno sempre di saperlo, come non abbiamo sempre bisogno di tutto. Come i freni della bicicletta quando ho imparato ad andarci.

Quel gesto, quell’unico gesto, ha cambiato tutto. Come una lampadina accesa d’improvviso in una stanza buia, ci ha fatto capire che non eravamo venuti per percorrere la stessa traccia, ma per vagliare delle possibilità. Abbiamo chiuso gli scarponi, allineato le tavole, pulito gli attacchi dalla neve. In quella cura c’era la nostra responsabilità. In quella scelta un principio di libertà.

Proprio come l’uomo sulla piroga, lasciandoci scivolare lentamente sul pendio abbiamo ripetuto quel gesto antico. Allontanato la riva andando verso spazi bianchi, senza sapere esattamente cosa ci sarebbe stato oltre la linea d’orizzonte. Come avremmo attraversato il limite di quel bosco che pareva un muro senza crepe. Se ci sarebbe stato possibile raggiungere la valle da lì. Per sentirci nuovamente, selvaggiamente, il primo uomo o ogni uomo sulla Terra, una mattina di cinquemila anni fa da qualche parte in Indonesia o forse chissà in Mesopotamia. O anche adesso, in ogni luogo dove qualcuno cerca una via d’uscita. Un po’più vicini a quell’uomo, e forse un passo più lontani dal morire. O almeno, illudendoci di esserlo.

Neve di Aprile

di Saverio D’Eredità

Credo non esista gioia più grande, più piena, più rotonda, sulla faccia di questa terra dello sci di primavera. Oddio, forse esagero: certo che esiste, anzi vi dirò che potrebbero essercene almeno cinque sei (non di più) di più belle. Tra queste figureranno la campanella del sabato, la chiamata inattesa di un amico che non sentivi da tempo, l’ecografia del terzo mese e un gol sottoporta al secondo tempo supplementare. Ma mi spiace, non oggi. Oggi nulla batte la sensazione vellutata, leggera, erotica direi dello sci di primavera. O sarà forse merito del fatto che ho finalmente trovato il modo in cui il cavetto usb scassato fa contatto con l’Ipod e la playlist scorre che è un piacere.

Lo sci di Aprile è una promessa mantenuta. Di neve dura al mattino che per incanto o legge fisica diventa firn. Aprile ha gli occhiali a specchio ed odore di crema 50 sulla pelle. Che sei in dubbio se riempire il thermos di tè caldo o portarti due litri d’acqua e alla fine metti tutti e due. Aprile ha una luce tutta sua che inonda le valli, che entra ovunque, che fa chiasso, che ride, che canta. Aprile sono corone di montagne in technicolor, un segreto svelato e che scopri essere bellissimo. Quando realizzi che tutto quel freddo, quell’attesa, quel buio che hai sfidato per mesi – cappucci tirati su e mani tra le cosce prima di scendere dall’auto, quel girare di soppiatto nei boschi sotto lo sguardo di pareti cupe – ecco, tutto quello aveva un senso ed era questo. Aprile è ancora una polvere gelosamente custodita che non posso dirti dove. Per trovarla non serve essere atleti e nemmeno esperti. Per trovarla devi essere credente. Allora sì. Se avrai fede nel sole e nella notte. Se saprai scendere a compromessi con albe attonite e accettare quel poco di sci sulle spalle e unghie rotte negli scarponi. Allora si, nella bilancia finale del giorno, tutto ciò peserà molto poco. Più alto è il fine, più lieve sarà la pena. Del resto, siamo o no in missione per conto di dio?

Canin, aprile

Non lo scopro certo io, che lo sci di primavera è il più bello di tutti, e ora che ci penso sta guadagnando posizioni nelle cose più belle della vita, più della campanella del sabato, ma ancora un gradino sotto il primo bacio. Assomiglia piuttosto alla lettera di dimissioni quando cambi lavoro, con quella leggerezza, quella fiducia nel futuro che mai più riproverai. Che ti fa sentire così gioiosamente fuori controllo e forse proprio per questo mai così in controllo. Aprile – di questo sono tuttavia sicuro – ha un modo di sciare che segue più l’improvvisazione del jazz che non il basso e batteria del rock. Diciamo che si sente più il sax di John Coltrane di “A love supreme” che non la base ritmica di “Ten” dei Pearl Jam.

Aprile si porta un piccolo dolore ne cuore. Come certe ombre che fai fatica a stanare e che forse rimarranno sempre. Non le eviteremo, non le negheremo. Anzi ci aiuteranno a riconoscere la vita anche dove si nasconde. Come segni su una mappa.

Lo sci di primavera, si dai, non sarà proprio la cosa più bella della vita, ma la cosa più bella di oggi senz’altro. Non fosse altro che per queste strade sgombre, che con l’auto fili via veloce e pare che dai balconi escano signore e bambini a salutarti con i fiori, che tutto pare facile, ovvio direi – “ma scusate non potevate dirmelo prima che era così bello?” pensi mentre i chilometri scorrono lenti ma leggeri, mentre il serbatoio rimane pieno e hai sempre una bottiglia d’acqua piena accanto e la tua canzone preferita in cuffia.

Sarà forse merito delle ultime curve e del firn – che dio lo benedica, il firn – o del cavetto dell’Ipod che ora funziona, ma se ci penso bene bene lo sci di primavera è una cosa decisamente bella – si anche come il primo bacio, o meglio il primo bacio che non ti aspetti – e magari lo metto in alto in quella lista di cose che. Che non sai mai quanto dura e che potrebbe finire già domani. Quindi lo vivi di più, lo rallenti di più. Come rimanere a letto domenica mattina (dopo che hai sciato ovviamente).

Lo sci di primavera ha la tenerezza e la forza della mia piantina di ginko biloba: ogni aprile aspetto di vedere un piccolo puntino verde farsi largo nella corteccia rugosa. Ogni aprile riesce a stupirmi quella prima gemma, che mi ricorda che siamo qui, siamo vivi. E che quella cosa lì, continueremo a cercarla ancora.

Il Foro, la luce, le curve

Precario

di Saverio D’Eredità

Ho chiesto al Batti delle foto elettrizzanti della gita dell’altra volta. Anche se era stata una giornata un po’ così, senza arte né parte, ero certo che il Batti la sua foto “alla Batti” me l’avrebbe tirata fuori. La classica dello sciatore nell’istante della curva, un poco grandangolata per dare profondità e un po’ di “wow”, con il soggetto nella terza parte dell’inquadratura e quel bilanciamento del bianco tecnicamente ineccepibile, ma vagamente insipido. La classica foto alla Batti – che ahilui – non può mai contare su performer di riguardo, gente bene in piega, con lo spruzzo, colorata, arrogante, sbarazzina, che sa sciare, che sa fare, che sa tutto. No, lui c’ha gente come noi, il Biondo al più per aggiungere un tocco da south rock americano, altrimenti il Pasc o me. Me che son il peggiore anche perché non gli faccio mai la curva dove dice lui per la foto. E nemmeno dove dico io. La curva viene dove deve venire, io sta cosa ancora non la domino bene, quindi la foto viene, inoppugnabilmente, male.

Ma la foto elettrizzante, al Batti, l’avevo chiesta perché volevo parlare del Leupa. Anzi a dire il vero la gita l’avevo approvata “così” potevo parlare del Leupa. Sapete, sto un po’in fissa con sta cosa che se non parlo io delle montagne, specie quelle un po’ diciamo “di nicchia”, poi non ne parla nessuno. E quindi su Google non si trovano. E quindi praticamente è come se non esistessero. Solo che il Leupa / Lopa in sloveno, con quella quota facile da ricordare (2402, bel numero), non ha proprio niente di interessante. Non è brutta, forse al più anonima. Più che brutta è “non-figa” che tutte le montagne pare siano fighissime e invece no, alcune non sono niente. A parte essere montagne, ovviamente. Ma quelle del Canin, poi più che montagne-montagne sono tipo cippi lungo la strada. Tutte circa uguali, squadrate, tarchiatelle, striate, poco alte (non basse, solo poco alte). Il Leupa pure è così. A forma di rettangolo, con una cresta piatta come cima, e le regolari stratificazioni calcaree che a me, magari un po’prosaicamente, ricordano le pieghette dell’omino Michelin. Tutte le cime del Canin son un po’come l’omino Michelin, quel fisico non slanciato, pacioccoso diciamo ma pur sempre ingombrante che se si sposta fa un casino.

Il Batti di foto me ne tira fuori due, pure un po’deluso che non c’era molta ispirazione (a nord, con il cielo terso, la poca neve, le solite cime, uffa). In una ci sono io, un puntino rosso in mezzo all’altipiano che punto dritto verso la nord del Leupa. Probabilmente in quell’istante, stavo pensando a cosa dire del Leupa, quindi potremmo dire che è una foto matrioska, oppure aristotelica a seconda del vostro gusto, ma in quel momento a me venivano in mente più che Leupa Aristotele e Matrioske, gli influencers. Che, poracci, devono sempre dire qualcosa della loro giornata – tipo me, adesso, solo che non ci vado a fare la spesa con ste cose che vi racconto – e deve essere una vitaccia, eh, sempre qualcosa da dire di una giornata.

Altopiano del Poviz – verso il Leupa – foto M.Battistutta

Vabè visto che non son influencer scrivo solo se mi pare oppure ho una mezzora libera, o voglio che il tag “Leupa” compaia più spesso su Google. Solo che il Leupa non ha niente di interessante. La parete, abbiamo detto. Banconate calcaree sia compatte che fragili, che a mio modesto quanto insindacabile modo di vedere, sono praticamente inscalabili. Si si, litighiamo pure però prima andate sul Leupa e io vi guardo da sotto. Chiamiamo anche i maghi del misto o del dry, una Angelika Rainer se si degna di venire qua e vediamo. Se agganci una picca una. Se ti proteggi a meno di 25 metri. Se quello che metti come protezione tiene più della vostra giacca. Vediamo. Tutti bravi. E poi: tiè c’è il Leupa. Che Buscaini, secondo me, è andato in fiducia quando gli hanno detto che c’erano 2 vie. Secondo me manco è andato a vedere che diciamolo, su, chi vuoi che vada a scalare 150 metri di quella roba lì. Io il canale friabile e la cengetta a sinistra e lo spigolo etc mica li ho visti. Ma lo capisco, il Busca, anche lui ogni tanto ha spuntato la lista perché andava di fretta magari. Peccato perché io dal Busca tiro sempre fuori robe interessanti, anche con 3 nomi una data e un “1 chiodo lasciato” che ci ricamo su le favole. Invece il Leupa niente. Ha due creste, sappiatelo. Una Est, una Ovest (facile). Non ha un versante sud (si ovvio che ce l’ha, ma voi fate come se non). Due normali. Una Est, una Ovest (facile). Quella ovest, “Celo”! Un inverno di anni fa, con Stief e Cricca, di quei tempi che la cima era il must. Che ti presenti “sciallo” e dopo neanche 5 minuti sei lì che ti muovi tipo gli acrobati di Oceans’eleven. Cengette spioventi, ghiaccietto, canalino-ok, uscita-non ok, cresta – sospiro – giù subito e piano e aspetta che vedo di piantare un chiodo valà – ah guarda c’è! (1 chiodo lasciato, avevi ragione Busca) – e via di doppia sul chiodo che ti pare un pilone. La est mi mancava, sarebbe pure la normale, ed è l’unica traccia digitale in Google (grazie Raffaello!). Cresta a tratti esposta, passaggio di II che d’inverno sarà una esaltante goulotte di ben 3 metri, cresta saliscendi. Facile. E qui veniamo alla seconda foto. Nella seconda foto ci sono sempre io, che traverso con fare delicatissimo e l’occhio sgranato sta cengetta che in realtà è pure larga eh, e avrà un saltino che so di 1 metro? e poi sotto c’è neve. Ma io paio sospeso sull’abisso. In quella foto c’è tutta la mia, la nostra, la sua (del Leupa), precarietà. Sarà il movimento che il Batti ha preso, sarà il casco, lo sfondo non lo so, ma lì c’è tutta la precarietà di questo nostro andare, di questo nostro essere. Se solo ci fosse più neve. Se solo sapessi se posso calarmi. Se solo capissi perché ci tenevo tanto a parlare del Leupa. Questo monte che tutti fingono di conoscere (“guarda! quello è il Leupa” dicono indicando un punto tra la Cima Confine e il Sart, che magari l’hanno letto su Peak Finder un attimo fa) e nessuno ci è stato mai. Questo monte che nessuno si fila, ma poi, se non c’è o se un giorno non lo vedi, ti dispiace. Come l’amico – che chiameremo non so, Fred – che c’è sempre a tutte le serate, ma non dice molto, non è antipatico, nemmeno simpatico, ma si ricorda del tuo compleanno e magari ti porta a casa quando sei sbronzo. Fred c’è. Il Leupa c’è. Ma se una volta non lo trovi ci stai male.

Però senti questa precarietà, questo senso di qualcosa che non sai mai quanto dura. Me lo si legge in faccia, nella piega del ginocchio, nelle mani che scorrono la roccia ed è precaria anche lei. E quindi non hai certezze più.

Sulla cima non ci siamo andati, poi. Era appunto un po’troppo precaria, quella poca neve, quel poco ghiaccio, quel poco tutto, anche la voglia magari. Siamo andati per poterci ricordare questa montagna e ne siamo tornati con meno certezze di prima. La montagna, a me, altro che fiducia in sé stessi e quelle cose che ci raccontano, mi da sempre meno certezze. Queste poi, mai. Ma forse è proprio questa assenza a rendere tutto molto interessante. E penso di nuovo agli influencers, che sono sempre certi di tutto, hanno sempre qualcosa da dire, mentre io oggi mi tengo stretta questa foto, questa precarietà che dovremmo sempre avere a cuore, come le montagne che nessuna sa dove sono, eppure ci sono sempre. A fare da sfondo. A portarci a casa.

Nei pressi di Forca Sopra Poviz, verso la cresta del Leupa – foto M.Battistutta

Una speciale Trilogia nel segno di Comici

di Saverio D’Eredità

Stilare classifiche e liste è sempre un giochetto divertente seppur fine a sé stesso. Nel mondo alpinistico le raccolte più o meno note di “le 100 più belle…” (scalate, sciate, cime, traversate…l’elenco può essere lunghissimo) sono una costante e bisogna ammettere che ognuno di noi ha le sue liste segrete. Che poi, si sa, lasciano il tempo che trovano, ma dato che viviamo una passione che per metà è sogno e metà azione, quella parte di sogno va pure coltivata! Il bello delle liste è che se ne possono creare di tutti i tipi. Il brutto (ma anche il bello, su) è che non metteranno mai tutti d’accordo, e mi sembra normale. Ma c’è un tipo del tutto particolare di liste, quelle che potremmo definire “filologiche”, che sono certamente da intenditori, ma almeno abbastanza oggettive. Sono le liste che si costruiscono sulla storia, sui legami sottili tesi attraverso le epoche, i personaggi, gli stili. Richiedono conoscenze, una certa dose di gusto e anche capacità di osservazione. Se dovessi iniziare a parlare di una “Lista” di linee sciistiche di alto livello citando Emilio Comici forse qualcuno inizierebbe a non seguirmi. Non è infatti noto a tutti che proprio Comici, lo scalatore simbolo dell’epoca del sesto grado, fosse anche un altrettanto appassionato esploratore di salite su neve e ghiaccio. Le Alpi Orientali, si sa, non sono il terreno ideale per questo genere di salite, eppure una caratteristica propria delle Dolomiti e delle Giulie sono proprio i grandi canaloni nevosi. Cupi e incassati tra le pareti, spesso interrotti da salti “misteriosi” in quanto imprevedibili e soggetti all’andamento delle stagioni, i canali dell’est hanno caratteristiche peculiari rispetto a quelli dell’ovest. Soprattutto, sono linee “naturali” e per questo non possono che attrarre l’insaziabile occhio dei cacciatori di linee. Tanto di salita quanto di discesa.

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Collezionisti di ricordi

Per Carlo e Federico

Per chi rimane

Per chi continuerà ad andare

di Saverio D’Eredità

Inutile cercare le parole, perché non ci sono. Se le avessero inventate, le parole, quelle parole lì da dire o da pensare in momenti come questo, quando ti avvicini troppo a quel bordo, avremmo risolto il problema. Se esistessero per davvero, quelle parole, se qualcuno le avesse analizzate o approvate, forse le avrebbero messe nel libretto delle istruzioni, verso gli ultimi capitoli. Ad esempio dove si parla di cosa fare in caso di rottura, come riavviare il programma, chi chiamare in caso di assistenza. Invece niente, quel capitolo non c’è. Come non c’è nemmeno quello iniziale. In questa strana, intricata, faccenda che è la vita ci mancano questi due capitoli. Non si sa come si inizia, né tantomeno cosa fare quando finisce. In mezzo, però, siamo pieni di dettagli, suggerimenti, percorsi. Magari un po’contradditori, talvolta difficili, altri entusiasmanti, altri ancora dolorosi. Ma chi chiamare, cosa dire o fare, quando tutto si inceppa, no: lì non dicono niente.

E invece sei qui che cerchi le parole, perché ti è mancato qualcosa sotto i piedi e stai camminando troppo vicino al bordo. Eppure ci servono, le parole. Vi attribuiamo grande importanza perché qualche volta riescono a formare un argine, una rete di protezione verso quel vuoto. Ad osservarlo senza caderci dentro. Forse è questo il punto.

Non molto tempo fa, chiacchierando davanti a un caffè del più e del meno (che è quasi sempre “come è la neve? ha fatto vento?a che ora si parte?”) un amico mi fa, secco “Sai che se ti succede quella cosa lì, non sarà più un tuo problema. Lo sarà semmai per gli altri, ma questa è un’altra storia”. E così invece di rassicurarmi o fornirmi un indizio da inserire in quel famoso capitolo finale, l’amico ha finito per complicare la faccenda. La verità è che certi argomenti non si dovrebbero affrontare davanti ad un caffè, ma la domanda rimane. In che senso non è “più” un mio problema? E soprattutto cosa ne è del mio problema se poi tutto va a finire così, senza nemmeno il tempo di mettere a posto le cose e riordinare, senza trarne delle conclusioni, senza una cerimonia di premiazione, un brindisi, niente? Forse non ho voglia di saperlo ed aveva ragione lui a dire che il problema era degli altri. Di chi rimane, di chi aspetta, di chi – alla fine dei conti, nonostante tutto – continuerà ad andare. Le parole, vedi, sono importanti. Qualche volta ci proteggono, impedendoci di intraprendere certi sentieri neri che non dovremmo imboccare.

Ma se le parole mancano, abbiamo pur sempre i ricordi, di cui siamo instancabili collezionisti. Di Federico, ad esempio, conservo quello di una discesa “illegale” dal Foro. Illegale sia per la scarsità di neve di quell’inverno, cosa di cui ovviamente nessuno si lamentò più di tanto, come tutti quelli che con un paio di sci ai piedi sono felici sempre e comunque. E illegale anche perché ci fermò la polizia mentre tentavamo una discesa di soppiatto per la pista chiusa. Gran ramanzina e poi giù ad orecchie basse. Che dire, qualche volta abbiamo rapporti difficili con la legge e le regole. E infine tanti incroci più o meno casuali in discesa e in salita, con quella sorta di riverenza che puoi provare per un Maestro come lui, che ti veniva ogni volta da abbassare lo sguardo e togliere il cappello. Perché di sciatori forti ce ne sono in giro, ma quando scendeva lui capivi cosa voleva dire veramente sciare. Poter dire di aver sciato con “Delu”, era una menzione d’onore, una spilletta. Soprattutto perché sapeva accompagnare quel talento ad un’ancora più autentica e vera umiltà. Riusciva a parlarti della gita facile con gli amici come della linea più hardcore con la stessa purezza, lo stesso entusiasmo. Vivendo quella passione e quel talento in una straordinaria normalità. Penso che questo facesse di lui un Maestro, sopra ogni altra cosa.

Federico Deluisa in una giornata di inizio inverno al Foro del M.Forato

Con Carlo abbiamo fatto l’ultima via della scorsa stagione, su e giù per le creste precarie di Val d’Inferno in una di quelle giornate autunnali belle da far male. Carlo non saprà mai quanto sia stata difficile per me quella giornata, passata a scacciare i fantasmi di un incidente dalla testa e accettare il fatto di aver paura e forse, persino, di non aver più voglia. Una giornata in cui non mi vergognai di chiedere di essere assicurato una volta in più e in cui Carlo nemmeno una volta me lo fece pesare. Vedevo già in lui la stoffa della guida, traguardo che si era sudato e meritato come pochi. Mi ero promesso di ringraziarlo un po’meglio, ma ci si mette di mezzo sempre questa specie di pudore che nasconde i sentimenti e ci fa sentire più uomini, più adulti. Alla fine di quella giornata, osservando le creste dei Brentoni, parlammo delle pietre del Natisone, verso le quali sentivamo entrambi un debito di riconoscenza. Ecco, segniamoci anche questo e mettiamolo in quel capitolo in fondo. Quando dobbiamo ringraziare una persona, diciamoglielo. Se sentiamo il bisogno di amare, baciare, abbracciare, facciamolo. Se siamo felici, ammettiamolo, una volta tanto. Se c’è da piangere, lasciamo scorrere le lacrime. Il resto lo farà il tempo.

Ogni mattina mi alzo e guardo le montagne. Lo faccio sempre, anche quando è brutto, o non si vede niente, o devo solo andare a lavoro. Una specie di rituale. L’altra mattina invece sono rimasto mezz’ora davanti alla tazzina senza aver il coraggio di aprire la finestra, vedere quanta neve c’era e annusare l’aria. Sono rimasto lì, senza le parole per proteggermi e con la voglia di far finta di niente. Come se la cosa non mi riguardasse veramente. Ma erano solo scuse. Perché chiunque si sia legato ad un capo della tua corda è un amico. Chiunque abbia condiviso con te una traccia nella neve, un fratello. Non potevo far finta di niente. La loro mancanza era diventata la mancanza di una parte di me. Una piccola morte che rimane dentro per sempre. Allora son andato nella stanzetta dei bimbi, da dove riesco a scorgere la catena dei Musi e la cima del Chiampon. L’ultima nevicata metteva in rilievo i solchi, le rughe delle pareti, le fratture delle creste. Le montagne sono il risultato di una demolizione. La loro bellezza è fatta anche dai loro crolli. Dalle perdite.

Verranno un giorno le parole, e sarà una liberazione. Verranno e sapremo dare un nome a tutto questo, saremo forse in grado di comprenderlo o anche solo di accettarlo. Verranno le parole, ma ora che non ci sono mi affaccio alla finestra e guardo le montagne. Aveva ragione il mio amico. Bisognerà riprendere in mano il problema, sbrogliare i nodi uno ad uno, ritrovare il filo che qualcuno ha nascosto così bene. Allora forse ritroveremo le parole, per loro ma anche per noi. Per chi rimane, dopo tutto, non resta che riprenderlo in mano e andare avanti.

Carlo Picotti – cresta Val d’Inferno, autunno 2020

L’età incerta

di Saverio D’Eredità

C’è stato un tempo, molto tempo fa, prima che tutto iniziasse – o non era forse già iniziato? tempo di cartine Tabacco stropicciate tra libri di scuola, tempo di numeri di Alp che duravano mesi sul comodino, letti e riletti e mandati a memoria, pubblicità incluse – c’è stato un tempo, dicevo, in cui mi ero posto un grande obiettivo: salire in inverno tutte le maggiori cime delle Giulie occidentali. Un obiettivo tanto grandioso quanto stupido: che valore poteva mai avere un progetto alla portata di ogni alpinista medio? Nessuno, probabilmente, come nessuna era la possibilità che avevo di realizzarlo, allora. Ma tutto questo non potevo ancora saperlo. Eppure quello strano sogno diventò a poco a poco il pane della mia solitudine. É una solitudine tutta particolare, quella che provi a 14 anni. Simile a quella di chi emigra o di chi porta con sé un grande dolore. La solitudine di chi realizza di non aver più un passato mentre vive un presente di argilla. Paradossalmente il futuro diventa la cosa più concreta cui tu possa aggrapparti.

Se è vero che nel dipingere bisognerebbe prima posizionare il soggetto e poi definire lo sfondo, io procedevo all’inverso. Nella mia immaginazione non facevo che disegnare sfondi. E lo sfondo, il mio sfondo, era la corona di montagne spiate di nascosto dal colle del Castello sul quale passavo i pomeriggi e mille sconosciuti tramonti. In quella solitudine, di quel tempo in cui tutto era ancora possibile, tracciavo i miei confini.

In discesa dal Jof Fuart, un pomeriggio di fine inverno: sullo sfondo le Cime Castrein – foto G.Simeoni

L’alpinismo invernale ha senza dubbio un grande fascino e credo che abbia a che fare proprio con l’idea di un confine. Di un qualcosa che è posto ai margini e per questo motivo ci attrae. Come la notte o l’amore, la sua inconoscibilità è ciò che ci interessa. Perché come esseri umani siamo naturalmente portati ad andare verso un confine. E la montagna d’inverno è un confine. É remota. Aliena. Scorre in un altro tempo. I suoni, gli odori, le luci. Tutto è straniero. Inconoscibile. Forse era proprio per quello che la ricercavo. L’inverno era quanto di più lontano fosse dalla mia conoscenza. Un buon motivo, quindi, per mettersi su quella strada

Sono arrivato sulla cima del Jof Fuart – casualmente da solo – in uno degli ultimi giorni d’inverno. Solo quando ho visto la grande scritta in vernice rossa sull’ultimo masso prima della cima ho realizzato che stavo per portare a termine quello stupido progetto di tanti anni prima. Me ne ero quasi dimenticato, eppure quell’idea aveva vissuto con me molto più di tante altre persone, cose, passioni in questi anni. In qualche maniera mi aveva definito.

In discesa dalla normale del Jof Fuart – foto G.Simeoni

La cima era silenziosa e l’aria calma. Grandi nubi si arroccavano sulle creste del Montasio. Un po’più in là, il Canin fluttuava come un pack ghiacciato sopra la valle. Ho percorso la cresta piatta fin quando, all’estremo opposto, non ho potuto scorgere la Spragna. La cima è sempre là dove puoi guardare oltre. Non faccio mai niente di particolare, quando arrivo in cima ad una montagna. Mi limito a sistemare lo zaino, bere un sorso d’acqua e guardarmi attorno. Poi penso solo a scendere. E’ curioso che il luogo verso il quale concentriamo tutte le nostre energie finisca per diventare solo un passaggio transitorio e quasi senza sentimento. Ho provato a scattare una foto, ma il laconico “be-bop” del telefono ne ha preannunciato lo spegnimento. Finita la batteria, senza più altro da fare, rimasi lì fermo sul bordo della cornice con nient’altro che me. A ben vedere, però, non ero solo. Al margine di quella cresta, infatti, mi aveva aspettato quel ragazzo che fui, quello che saliva sul Castello a spiare le montagne e disegnava sfondi. Mi ha aspettato pazientemente in tutti questi anni, quel ragazzo, solo su questa cima come me adesso. Mi ha visto invecchiare, prendere altre strade. Credo di averlo deluso. Forse non ho avuto il coraggio di diventare ciò che lui avrebbe desiderato e me ne vergognavo un po’. Eppure oggi ero qui, le nostre solitudini ritrovate e un debito saldato.

Una frotta di nubi risaliva a conquistare la cima, preceduta da un vortice di fiocchi di neve. Guardai nuovamente attorno, poi iniziai a scendere seguendo a ritroso la processione dei miei passi. Mi voltai un’ultima volta prima di veder scomparire quelle quattro pietre, le mie impronte sulla neve e quel ragazzo di 14 anni che stavo salutando per l’ultima volta. Si sarebbe allontanato da me, piano piano svanendo tra le nebbie che ora avvolgevano la cima. Avevo raggiunto il suo confine e procedevo oltre.

C’è stato un tempo, molto tempo fa, in cui in qualche modo tutti noi siamo stati senza passato e abbiamo cercato di definire noi stessi. Il più delle volte non ne abbiamo che una vaga idea. Un’immagine sfocata. Una tavolozza di colori mescolati e qualche linea appena abbozzata. Presi dalla fretta di vivere, abbiamo presto dimenticato quel tempo, in cui senza rendercene conto abbiamo spostato lo sguardo un po’più in là, tracciando i nostri confini. In quell’età incerta, l’unica cosa che avevamo era il futuro.

Scienza degli attimi

di Saverio D’Eredità

Volume 1 – il miracolo del Buinz

Che lo scialpinismo sia una questione di attimi, è una cosa che ci siamo detti varie volte. Essere bravi a coglierli, però, è tutta un’altra storia. Più passa il tempo, infatti, più mi convinco che il miglior scialpinista non sia tanto quello che scia meglio, o scia più forte, o sul più ripido (tutte cose che vanno bene, intendiamoci), ma quello che conosce più profondamente questa scienza inesatta degli attimi. Sapere ad esempio il momento in cui la neve fa tac! e trasforma il pendio da una lastra di marmo ad un morbido tappeto di panna su cui scivolare. Capirlo dall’angolazione dei raggi solari, dalla conformazione di un versante, dal vento, dall’umidità, dalla temperatura e dalla struttura dei cristalli di neve. E tutto questo poi condensarlo in un frazione di tempo minima, l’attimo, appunto.

Salendo a Sella Buinz -foto L.Barbui

Per quanto si provi a trovare la formula esatta che sta dietro quell’attimo, a me pare che sai più facile ragionare come in cucina. Avete presente il “QB” delle ricette? Ho visto gente molto razionale andare in totale confusione con la storia del “Quanto Basta” di una quantità di zucchero o di cannella. Voi come lo calcolate? C’è un algoritmo? Uno studio di funzione? No, è “QB”, punto. Il resto si vedrà. Ecco, a pensarci bene quel famoso attimo in cui Ia neve fal “tac!” ad una certa ora su un certo pendio è simile al QB delle ricette di cucina. 

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