Salire solo con la montagna

La salita solitaria della Ovest dell’Averau e l’apertura della via “Toto & Paola”

di Marco Berti – 10 settembre 1987

 

“Se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia.”

Jean-Paul Sartre

 E’ una mattinata uggiosa di giugno ma parto ugualmente da Venezia in direzione del rifugio Cinque Torri a Cortina. Sono in compagnia di due amici. La vecchia Fiat 126 è carica di zaini e materiali da scalata che al nostro arrivo ci rende alquanto complicato uscire dalla macchina. Alcune persone sorridono per il mio imprecare mentre gioco al contorsionista tra zaini, corde e viveri. Mi chiedono informazioni circa le mie intenzioni.

Mentre sistemo gli zaini alcune guide alpine di Cortina mi sconsigliano di affrontare itinerari particolarmente lunghi. Il meteo chiama pioggia.

I miei due amici, Toto e Paola, novelli sposi, mi comunicano che vista la giornata preferiscono rimandare la loro prima esperienza da rocciatori ad una prossima occasione e mi lasciano libero di fare.

Decido di salire la via Illing-Pompanin sulla parete Ovest dell’Averau. Una bella solitaria su una via che conosco già per averla percorsa più di una volta. Lascio tutto il materiale in macchina, mi porto solo il sacchettino con il magnesio e le scarpette da arrampicata.

E’ una giornata stupenda per il silenzio e la solitudine che mi è offerta. Sulla parete nessuna cordata.

Con Toto e Paola mi avvicino alla montagna. Loro seguiranno la via comune, la ferrata, e aspetteranno che io sbuchi dalla parete ovest. Ci dividiamo sulla forcella Nuvolau.

Guardando verso l’alto, gli strapiombi, la parete gialla, verso la cima, mi accorgo di quanto inizio a considerare le montagne un po’ più piccole, più accessibili, più umane, più amiche. Sento la montagna come una madre che nell’accorgersi dell’affetto, pudico e mascherato, del figlio, lo accoglie a braccia aperte e lo stringe a sé fino a quando e quanto lui lo desideri.

Mi distendo sopra una piazzola per fare un po’ di training autogeno. Mi aiuta a rilassarmi e a concentrarmi prima di una salita, in particolare le solitarie.

La parete quando arrampichi da solo non la misuri più in metri ma con la voglia di arrivare in cima e così, questo muro che hai scelto di salire, con l’avanzare della tua sagoma, con la voglia di sentirti forte e libero, diventa un muro apparentemente breve, tanto da allinearsi con te ed essere, semplicemente, un amico con il quale condividere un momento intenso ed esaltante.

Guardo più volte verso l’alto e penso che il salire slegato non mi impone un percorso già disegnato da altri. Il solitario è un artista, un inventore del gesto, non ha vincoli con i chiodi, la parete è sua. Con queste riflessioni lascio l’attacco della “Illing” e mi sposto più a destra, dove sale un bellissimo diedro chiuso da un tetto. La roccia, con mia grande sorpresa, è solidissima, arrampicare è divertente e salgo dove la montagna mi apre facilmente le sue porte e continuo ad avanzare lasciandomi portare dall’istinto. Raggiungo una fessura gialla e strapiombante che mi permette di salire in verticale anche se la roccia non è solida. Guardo verso il basso. Alla vista del vuoto, per un riflesso incondizionato, le dita stringono i due piccoli appigli che mi sostengono.

La parete, sempre caratterizzata da roccia gialla, mi impegna sempre di più.

Due volte rimango con le gambe penzoloni nel vuoto ma per fortuna, gli assidui allenamenti sui muri senza intonaco di Venezia servono a qualcosa perché le mie mani riescono a sostenermi tranquillamente.

Un corvo galleggia nell’aria a poco più di un metro da me.

Arrampico e canto canzoni degli anni ’60 mentre le nuvole diventano scure e una pioggia fine ma insistente avvolge la montagna.

L’ambiente si è fatto severo, più tetro, l’acqua corre lungo la parete. Le dita, causa il freddo, iniziano a diventare insensibili; soprattutto quando devo salire tra placche bagnate. Non lontano dalla cima devo affrontare un traverso. Negli ultimi metri le braccia “mi avvertono” che cominciano ad essere stanche e mi accorgo quanto sia strapiombante questo tratto di parete. Alla base di un diedro, una specie di camino appena accennato, trovo due buoni appoggi per i piedi che mi permettono di lasciare le braccia penzoloni.

Recupero un po’ di forze.

M rendo conto di non essere lontano dalla cima.

Mi guardo attorno e ascolto il silenzio del vento interrotto dal fischiare di una marmotta. Aggirando uno spigolo non trovo più appigli. Con la mano esploro tutta la superficie di roccia che il mio braccio può coprire.

Niente.

Ritento una, due, tre volte ed ogni volta le braccia stanche mi costringono a una ritirata di due, tre metri fino ad un terrazzino dove posso riposarmi.

Riprovo.

Gioco d’equilibrio con i piedi e trattengo il respiro.

I pochi secondi che mi servono per superare questo tratto sembrano eterni.

Guardo bene gli inesistenti appigli che uso per mantenermi in equilibrio. Gli appoggi per i piedi sono piccoli ma evidenti. Spostato tutto il corpo a sinistra cambio molto lentamente appiglio per la mano sinistra poi l’appoggio per il piede sinistro. Distendo le gambe e la mia testa sbuca dalla parete e vedo, vicina, la cima.

Tocco la croce di vetta e guardo verso la conca cercando di scorgere i miei amici.

E’ tutto colmo di neve e ancora silenzio.

 Averau_vie_rid

 

Una risposta a "Salire solo con la montagna"

  1. Roberto Iacopelli 27 agosto 2014 / 18:09

    Ciao Marco! Bella storia, in più mi hai fatto scoprire anche questo sito…. ciao e a presto!
    Roberto

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