L’età incerta

di Saverio D’Eredità

C’è stato un tempo, molto tempo fa, prima che tutto iniziasse – o non era forse già iniziato? tempo di cartine Tabacco stropicciate tra libri di scuola, tempo di numeri di Alp che duravano mesi sul comodino, letti e riletti e mandati a memoria, pubblicità incluse – c’è stato un tempo, dicevo, in cui mi ero posto un grande obiettivo: salire in inverno tutte le maggiori cime delle Giulie occidentali. Un obiettivo tanto grandioso quanto stupido: che valore poteva mai avere un progetto alla portata di ogni alpinista medio? Nessuno, probabilmente, come nessuna era la possibilità che avevo di realizzarlo, allora. Ma tutto questo non potevo ancora saperlo. Eppure quello strano sogno diventò a poco a poco il pane della mia solitudine. É una solitudine tutta particolare, quella che provi a 14 anni. Simile a quella di chi emigra o di chi porta con sé un grande dolore. La solitudine di chi realizza di non aver più un passato mentre vive un presente di argilla. Paradossalmente il futuro diventa la cosa più concreta cui tu possa aggrapparti.

Se è vero che nel dipingere bisognerebbe prima posizionare il soggetto e poi definire lo sfondo, io procedevo all’inverso. Nella mia immaginazione non facevo che disegnare sfondi. E lo sfondo, il mio sfondo, era la corona di montagne spiate di nascosto dal colle del Castello sul quale passavo i pomeriggi e mille sconosciuti tramonti. In quella solitudine, di quel tempo in cui tutto era ancora possibile, tracciavo i miei confini.

In discesa dal Jof Fuart, un pomeriggio di fine inverno: sullo sfondo le Cime Castrein – foto G.Simeoni

L’alpinismo invernale ha senza dubbio un grande fascino e credo che abbia a che fare proprio con l’idea di un confine. Di un qualcosa che è posto ai margini e per questo motivo ci attrae. Come la notte o l’amore, la sua inconoscibilità è ciò che ci interessa. Perché come esseri umani siamo naturalmente portati ad andare verso un confine. E la montagna d’inverno è un confine. É remota. Aliena. Scorre in un altro tempo. I suoni, gli odori, le luci. Tutto è straniero. Inconoscibile. Forse era proprio per quello che la ricercavo. L’inverno era quanto di più lontano fosse dalla mia conoscenza. Un buon motivo, quindi, per mettersi su quella strada

Sono arrivato sulla cima del Jof Fuart – casualmente da solo – in uno degli ultimi giorni d’inverno. Solo quando ho visto la grande scritta in vernice rossa sull’ultimo masso prima della cima ho realizzato che stavo per portare a termine quello stupido progetto di tanti anni prima. Me ne ero quasi dimenticato, eppure quell’idea aveva vissuto con me molto più di tante altre persone, cose, passioni in questi anni. In qualche maniera mi aveva definito.

In discesa dalla normale del Jof Fuart – foto G.Simeoni

La cima era silenziosa e l’aria calma. Grandi nubi si arroccavano sulle creste del Montasio. Un po’più in là, il Canin fluttuava come un pack ghiacciato sopra la valle. Ho percorso la cresta piatta fin quando, all’estremo opposto, non ho potuto scorgere la Spragna. La cima è sempre là dove puoi guardare oltre. Non faccio mai niente di particolare, quando arrivo in cima ad una montagna. Mi limito a sistemare lo zaino, bere un sorso d’acqua e guardarmi attorno. Poi penso solo a scendere. E’ curioso che il luogo verso il quale concentriamo tutte le nostre energie finisca per diventare solo un passaggio transitorio e quasi senza sentimento. Ho provato a scattare una foto, ma il laconico “be-bop” del telefono ne ha preannunciato lo spegnimento. Finita la batteria, senza più altro da fare, rimasi lì fermo sul bordo della cornice con nient’altro che me. A ben vedere, però, non ero solo. Al margine di quella cresta, infatti, mi aveva aspettato quel ragazzo che fui, quello che saliva sul Castello a spiare le montagne e disegnava sfondi. Mi ha aspettato pazientemente in tutti questi anni, quel ragazzo, solo su questa cima come me adesso. Mi ha visto invecchiare, prendere altre strade. Credo di averlo deluso. Forse non ho avuto il coraggio di diventare ciò che lui avrebbe desiderato e me ne vergognavo un po’. Eppure oggi ero qui, le nostre solitudini ritrovate e un debito saldato.

Una frotta di nubi risaliva a conquistare la cima, preceduta da un vortice di fiocchi di neve. Guardai nuovamente attorno, poi iniziai a scendere seguendo a ritroso la processione dei miei passi. Mi voltai un’ultima volta prima di veder scomparire quelle quattro pietre, le mie impronte sulla neve e quel ragazzo di 14 anni che stavo salutando per l’ultima volta. Si sarebbe allontanato da me, piano piano svanendo tra le nebbie che ora avvolgevano la cima. Avevo raggiunto il suo confine e procedevo oltre.

C’è stato un tempo, molto tempo fa, in cui in qualche modo tutti noi siamo stati senza passato e abbiamo cercato di definire noi stessi. Il più delle volte non ne abbiamo che una vaga idea. Un’immagine sfocata. Una tavolozza di colori mescolati e qualche linea appena abbozzata. Presi dalla fretta di vivere, abbiamo presto dimenticato quel tempo, in cui senza rendercene conto abbiamo spostato lo sguardo un po’più in là, tracciando i nostri confini. In quell’età incerta, l’unica cosa che avevamo era il futuro.

In contemplazione del Mistero

di Nicola Narduzzi

“Sono parte di tutto ciò che ho incontrato;
eppure ancora tutta l’esperienza è un arco attraverso cui
brilla quel mondo inesplorato i cui confini sbiadiscono
per sempre e per sempre quando mi muovo.”
(A. Tennyson, Ulysses)

Chiudo gli occhi. Penso a una parete, penso a quella parete: il mio frutto proibito. La sogno, come si sogna il sole nell’ora buia che precede l’alba. La desidero, sapendo che il desiderio non verrà appagato. L’ho anche sfiorata, conservando però sempre la consapevolezza che non sarei mai arrivato al suo cuore. Continua a leggere

27/08/2016

Sarà capitato a tutti di farsi assorbire dai pensieri durante un ascensione, talvolta il flusso è talmente forte che la voglia di cristalizzarli nel tempo diventa una necessità, senza pretesa di assunzione al cielo dei poeti, ma solo perchè si sente il bisogno di fissarli e condividerli. Vi proponiamo una riflessione che ruota attorno ad un luogo, carico di significati. C.P.

di Marco Lavaroni

A volte scrivo.
Di solito, dopo un po’, mi pento.
Ma oggi, con queste gambe indolenzite, il fiato che rantola, e il cuore che salta “fra l’aorta e l’intenzione” (…), l’andatura e’ lenta e c’e’ troppo tempo per pensare.

Continua a leggere

L’illusione del Bianco – Appunti dalla montagna di domani

di Saverio D’Eredità

Prologo

Una lunga cresta nevosa si spinge in avanti, a definire lo spazio tra terra e cielo. I passi che precedono il momento solenne, percepire l’appagamento nel penultimo passo quello che ancora nasconde il mistero ultimo della salita ed è per questo il più prezioso.
Ma la vetta, questa vetta che ricorre nei miei sogni, d’improvviso si appiattisce e scompare.
Si trasforma. Diventa un banale terrazzino con ringhiera. Oltre non c’è il vuoto delle pareti. No, si apre una distesa di asfalto e cemento. Sembra un parcheggio. Più in là vedo che la mia cresta sottile diventa la passeggiata di un vialetto alberato in un parco cittadino. Smarrimento. Delusione. Mi sveglio.
Questo sogno ricorrente mi tormenta. Mi fa visita in notti inaspettate. Non mi spaventa, come gli incubi, semmai ha un effetto peggiore. Insinua dubbi. Mina le fondamenta delle mie aspirazioni. In breve, mi fa vivere un po’peggio, o un po’più malamente il resto della giornata.
Ed è questa la vetta che così spesso raggiungo nei sogni, questa vetta che per anni ho cercato di sovrapporre a cento altre, senza mai trovarla. Continua a leggere