27/08/2016

Sarà capitato a tutti di farsi assorbire dai pensieri durante un ascensione, talvolta il flusso è talmente forte che la voglia di cristalizzarli nel tempo diventa una necessità, senza pretesa di assunzione al cielo dei poeti, ma solo perchè si sente il bisogno di fissarli e condividerli. Vi proponiamo una riflessione che ruota attorno ad un luogo, carico di significati. C.P.

di Marco Lavaroni

A volte scrivo.
Di solito, dopo un po’, mi pento.
Ma oggi, con queste gambe indolenzite, il fiato che rantola, e il cuore che salta “fra l’aorta e l’intenzione” (…), l’andatura e’ lenta e c’e’ troppo tempo per pensare.

L’icona di questo posto e’ la diapositiva di una pesca presa a morsi in un pratino a mezza strada.
La pesca usciva da un contenitore in polistirolo “che la mantiene fresca”. E “la pesca disseta”. Io, forse meno che adolescente, maturavo il dubbio che il peso equivalente in acqua avrebbe dissetato di piu’. Ma erano tempi in cui la saggezza atavica dell’andare in montagna profetizzava sventure per i deboli di spirito che avessero bevuto per placare la sete. Le motivazioni piu’scientifiche andavano dal “si blocca la digestione” al “piu’ si beve più viene sete”…. La pesca nel polistirolo pero’ era buona e fresca, e credo fosse in ogni caso un primo affacciarsi sui tempi nuovi.

2017-01-18
La “pesca” – foto archivio M. Lavaroni


D’altro canto, erano passati solo pochissimi anni da quando noi gente di pianura si villeggiava dormendo in affitto nelle camere delle case di chi in montagna ci viveva. O ci era tornato dopo l’emigrazione. Noi, a Forni Avoltri, dalla Sute, occupavamo la soffitta, di cui credo di ricordare principalmente l’odore di legno e la sensazione che li’, in quella stanza, noi 3 e un Topolino che augurava un felice 1970, fosse tutto quello di cui c’era bisogno per stare bene.
Il vileggiante girava in pantaloni alla zuava, calzettoni di lana e scarponi. Sempre. Anche per la messa della domenica.
Una pesca, suggestione mediterranea, in un involucro sintetico, a 2300 metri di quota era gia’ frontiera.

Pochi anni dopo, un nostro amico che aveva l’età giusta per fare la rivoluzione, estrasse dallo zaino un contenitore in vetro con la peperonata.
E la peperonata, su questa cima, era un gesto politico.
Come tante altre idee dell’epoca, il senso della prassi era discutibile e l’avanguardia, per quel giorno, doveva farsi spazio fra i rutti e la sete. Pero’ il messaggio era chiaro: e’ possibile provare a fare quello che passa per la testa.
Risalendo al rifugio lanciò un’ultima provocazione iconoclasta: “Mona l’ultimo!”. E percorremmo correndo quei pochi metri che mancavano, mentre dietro partiva un mugugno di circostanza, che ammoniva, o forse serviva a prendere tempo per capire il mondo che cambiava.
Per fortuna gli dei tutelari di quegli anni non intuivano che tempo dopo sarei passato di li’ con un numeretto appiccicato a fare a chi arrivava primo (certo non io….). E neanche che oggi mi sarei presentato in cima con un paio di pantaloni e una maglietta che all’epoca avrebbero imbarazzato anche David Bowie, uno zainetto buono per la Barbie e un paio di babucce blu degne di un visir ottomano.

Poi venne il tempo delle notti passate sul pratone, con la tenda che non era piu’ la canadese dell’UPIM. O anche senza tenda, una volta capito che si poteva fare. Di solito capitava il 4 luglio. L’ultima volta in omaggio a una festeggiata che non c’era piu’.

Tempo dopo, sulla cimetta qui vicino, un pomeriggio, mi sono permesso un sonno improvviso facendomi svegliare dalle ali di un gracco.
Lo so che questa sembra una stronzata new age, ma e’ andata cosi’. Sotto, nel pratone, mi aspettavano una moglie e un figlio. La mattina avevamo fatto una delle sue prime ferrate. E sfiorato una vipera. Credo fosse contento dell’avventura. Pero’ so anche di non essere mai riuscito a dargli la sensazione che quel nucleo di 3 anime fosse quello che, almeno per un po’, poteva bastare. E credo che non trovero’ pace per questo.

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foto archivio M. Lavaroni

Poi sono arrivate altre competenze, un po’ per passione e un po’ per vanagloria.
Questo ometto indica l’uscita di una via percorsa un autunno di qualche anno fa, senza nessun merito particolare se non quello di essere contento con un amico, innondati dal giallo pomeridiano.
Piu’ su, da qualche parte, esce una via che per un po’ ho sognato. E forse puo’ anche esserci stato un tempo maturo per percorrerla. O almeno cosi’ mi piace far credere.
Ho anche imparato a vagare qui attorno con gli sci.
E, piano piano, tutto e’ diventato piu’ piccolo e scontato.

Inverno – foto archivio M. Lavaroni

Anche se, oggettivamente, poco e’ cambiato. Qualche sputacchiata di vernice bianca e rossa guida il percorso senza concedere piu’ sorprese, una croce di luccicante ordinanza rimpiazza la vecchia, genuina icona della Passione realizzata con un profilato della prima guerra malamente modellato. E una tastiera virtuale che mi permette di mandare una foto e improvvisare un pranzo: “Indovinate dove sono? Mangiamo insieme? Fra un’oretta e mezza saro’ alla macchina e poi il tempo di fare la strada”.
“Si’, certo, hai il tempo di mettere su la peperonata”.

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