Inverno Liquido – reimmaginare l’inverno è possibile?

di Saverio D’Eredità

Una perturbazione si avvicina alle Alpi. Inizia a nevicare. Dapprima a quote alte, altissime. Sotto i 2000 piove. Ma siamo quasi abituati. Purché nevichi. Purché piova. Domani forse vedremo nuovamente l’arco alpino nella sua veste più consona. Per qualche giorno volteremo le spalle alla realtà, ci accontenteremo della neve caduta, delle sciate finalmente di nuovo possibili. Durerà qualche giorno, forse. Il tempo per dimenticarsi che il problema è ancora lì. Presente. Futuro. Non passato.

Domenica 12 marzo 2023 si sono tenute diverse manifestazioni in varie località dell’arco alpino e appenninico dal titolo “Re-imagine winter”, promosso dal movimento di “The Outdoor Manifesto” (https://www.theoutdoormanifesto.org/azioni/reimagine-winter-basta-nuovi-impianti/). Neanche a farlo apposta (ma non ci voleva molto) in molti di questi luoghi erano già fioriti i crocus e lo scenario più tardo primaverile che invernale sembrava uno sfondo ideale ai temi della manifestazione. Re-immaginare l’inverno. Prendere coscienza del cambiamento. Intervenire. Cambiare.

Il movimento che – genericamente – definiremmo “ambientalista” (anche per affibbiargli una categoria e liquidarlo così più facilmente) negli ultimi anni ha cambiato pelle. Merito o causa di una generazione diversa (vorrei ora dire, con un pizzico di rivendicazione: la nostra) che ha preso in mano quelle cause e ha saputo aggiornarle ai tempi odierni. A quei movimenti ho sempre rimproverato una certa auto-referenzialità e l’incapacità di catturare un pubblico diverso da quello che già crede o si riconosce nei suoi valori. Rischiando sempre di rimanere a parlarne tra quattro gatti. Ma le cose stanno cambiando. Una generazione più a suo agio con la comunicazione di massa, forte dei dati (ormai incontrovertibili) che certificano un netto cambio delle tendenze climatiche, e forse anche più disinibita, sta cercando di portare il discorso su un altro livello.

Ricordate Mountain Wilderness? I blitz sui piloni della funivia del Bianco? Ecco, quel tipo di movimentismo è forse passato, all’azione “dimostrativa” si va via via sostituendo una proposta ponderata. Razionale. Basata sui dati e sui modelli economici.

Ecco, qui sta il punto. Se agitare spettri di apocalisse, predicare decrescite (felici o infelici che siano), drammatizzare sullo stato (effettivamente comatoso) degli ecosistemi può non far presa sulle coscienze (perché – diciamolo – fare i rompiscatole quando vorremmo goderci una giornata sulla neve senza pensieri non è esattamente il modo per farsi ascoltare), forse la strategia può essere diversa. Agire sulla leva economica. Usare codici e parametri tipici della nostra società (capitalista, liberale e aperta) per iniziare a ragionare verso prospettive diverse. Mercati diversi.

In queste settimane ho avuto modo di leggere un libro-inchiesta, piuttosto interessante e oggettivo, che andrebbe letto serenamente, proprio per documentarsi e senza che questo imponga a prescindere una posizione. “Inverno liquido – La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa” (Maurizio Dematteis e Michele Nardelli, ed. Derive Approdi, 2022) è un saggio-inchiesta su un modello economico e culturale che oggi pare avviato alla sua fine. Questo non implica necessariamente la sua scomparsa. Ma un suo aggiornamento. Per dirla in termini imprenditoriali un “cambio del modello di business”. Lo sci, prodotto che in termini economici possiamo definire “maturo”, necessita di un cambiamento. Che non può per ragioni ancora più che climatiche (per chi non vuole crederci, nonostante i dati) bensì economiche reggersi su quei parametri che lo hanno sorretto finora. Ovvero sull’investimento “pesante” fatto di infrastrutture, di bacini di raccolta delle acque per l’innevamento artificiale, di consumo di suolo. Un modello altamente dispendioso, “energivoro” come si usa dire oggi e soprattutto con enormi limiti di “ritorno” del profitto. Parliamoci chiaro: quanti investitori oggi punterebbero i propri capitali su questo tipo di turismo? Con le prospettive di aumento delle temperature e riduzione delle precipitazioni che generano sempre maggiori costi di gestione? E’ ancora, quello del turismo invernale di tipo sciistico, un prodotto promettente?

Sembra di no. Ed ecco perché il cambio di discorso, porre il problema su questo piano può essere davvero l’approccio giusto per innescare il cambiamento. Parliamo di un modello economico che ha letteralmente tirato fuori dalla povertà buona parte dell’arco alpino. Ma rischia di diventare la causa di un nuovo impoverimento. Cosa faremo quando dalla semplice alternanza di annate buone e meno buone, passeremo a bienni o trienni di assenza di precipitazioni?

Il libro compie un viaggio per le Alpi, toccando nel cuore le ferite, andando a scoprire i costi dei comprensori e scoprendo che spesso è il sistema pubblico (la collettività!) a tenere artificialmente in vita queste economie. E che – qua e là, proprio come i crocus – stanno emergendo alternative non solo affascinanti, ma anche economicamente attraenti. Val Maira, Valpelline sono solo alcuni esempi di come fare ancora ricchezza grazie alle attrattive naturali, ma diversificando l’offerta. E scoprendo che al “cliente” non va imposto un prodotto, ma data possibilità di scelta. E tutto sommato noi, su queste pagine, ne avevamo parlato in tempi in cui l’argomento era – come al solito – relegato tra le fila dei “menagrami” che dicevano “no” a tutto. Non era esattamente così. https://rampegoni.wordpress.com/2016/02/02/miopia-bianca/

Non siamo ingenui: tutti noi abbiamo imparato a sciare prendendo almeno uno skilift e su una pista battuta. Diverso è però il cosidetto “accanimeto terapeutico”, laddove la materia prima manca del tutto. Diverso è dire che è questa l’unica soluzione. Che è inevitabile. Oggi, di inevitabile, c’è solo questa pioggia che tocca quota inimmaginabili. Di inevitabile c’è l’adattarsi a condizioni sempre più difficili.

Mi soffermo ancora un momento sull’ottica del cliente, senza annoiarvi: è vero che ci sono tanti modelli di turismo sostenibile che si potrebbero tenere workshops e pubblicare papers per i prossimi 5 anni. Ma i “clienti” siamo noi (ci piaccia o meno definirci così). Ed è la nostra testa che va cambiata. Nel surreale inverno della pandemia 2020-21, un inverno beffardamente ricco di neve, i boschi e le vallate erano – nei limiti delle restrizioni – affollati di persone di ogni tipo. Gli “elitari” avranno storto il naso. Io invece lo trovavo consolante. Persino promettente. Di fronte all’assenza di impianti e pacchetti preconfenzionati le persone erano tornate a passeggiare. Scoprendo la bellezza semplice di un bosco. Non serve dire altro.

Strade senza uscita

di Saverio D’Eredità

Nella cultura occidentale parlare di strade equivale, nell’immaginario, a parlare di progresso. “Costruire strade” è infatti sinonimo di civiltà, di sviluppo in senso buono, quello che unisce territori, persone, culture. Che contribuisce a far circolare conoscenze e idee. Oggi, quando si sente parlare di strade, soprattutto in montagna, la prima reazione è di allarme. Strade? Ancora? Il sospetto non è fondato tanto su pregiudizi, ma su precedenti. Raramente infatti, negli ultimi decenni, queste strade hanno creato qualcosa di buono, assolvendo a quella funzione di “unire”. Semmai, piuttosto, hanno contribuito a “consumare”.

Di “cambi di paradigma” sono pieni vuoti proclami a diversi livelli. Nel lavoro, nella società, nella cultura. Ma il “cambio di paradigma” quando si parla di ambiente montano, sembra non solo non arrivare, ma agire in senso contrario. Purtroppo negli ultimi anni, nonostante una teorica “sensibilità” verso la tutela delle montagne come “patrimonio”, si è visto proprio il contrario. Strade aperte e nuove infrastrutture costruite con il pretesto di rendere accessibile, ma che di fatto consumano territorio. E intanto la vera accessibilità (che si traduce in servizi sociali o in vere opportunità per evitare spopolamento e perdita di benessere) rimane un miraggio.

Il tracciato della strada che ricalca quello dei sentieri 227/228 – tratto dal gruppo FB Salviamo i sentieri Cai 227-228

Sulle montagne friulane, da qualche anno, sembra che l’unica proposta di “sviluppo” sembra essere costruire strade, allargare strade, sistemare (magari sbancando) strade. Ricordiamo il progetto di collegamento Paluzza – Rifugio Marinelli e ultimo (ma temiamo non il solo) collegamento tra la Val Pesarina e Sappada, attraverso il monte Talm, il Rifugio Chiampizzulon e Malga Tuglia. Ovvero sui tracciati dei sentieri CAI 227-228.

Alcuni giorni fa, parlando proprio di queste infrastrutture, un amico (non appassionato di montagna, quindi un ottimo esempio di persona estranea a certe sensibilità”) ha osservato: “Ma non trovi che queste strade possano migliorare l’accessibilità’?”. Questa osservazione, apparentemente di buon senso, nasconde un problema forse ancora più profondo. Il discorso dominante ha sequestrato il significato delle parole, così che rivestendo di termine come accessibilità, sostenibilità e resilienza si possa giustificare tutto. Mettendosi automaticamente dalla parte del giusto. Ma verrebbe da citare la famosa frase di Bertold Brecht “Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati”.

Casera Tuglia, tratto dal gruppo FB Salviamo i sentieri Cai 227-228

Non è una questione di essere pro o contro qualcosa, nella logica bipolare cui siamo sempre più abituati. E’ una questione di consapevolezza. Quello che sta accadendo sui sentieri CAI 227-228 che attraversano il pregevole ambiente alpino sottostante le pareti del Pleros, in Carnia, è solo l’ultimo, ma non il solo, dei tanti casi di cosidetta “valorizzazione” del territorio che pare non prendere in considerazione lo stato attuale delle cose. Sembrano, in altre parole, appartenere ad un’altra epoca, quando lo sviluppo coincideva con lo sfruttamento (poi chiamato “valorizzazione”). E che rischia di ritorcersi contro. Ecco un altro sequestro della parola “valore”: come può dare valore un progetto che – nei fatti – finisce per sottrarre quel valore stesso ai luoghi? Luoghi cercati e ammirati proprio per la loro integrità, che si amano in quanto non urbanizzati, dove prevale il tempo della Natura su quello dell’Uomo. Così come “accessibilità” è diventata la giustificazione di ogni intervento, così “valorizzare” diventa la parola magica che automaticamente mette chi è in disaccordo dalla parte del torto, di chi “non capisce”.

Il progetto di costruzione di una strada forestale in quel particolare territorio ha senza ombra dubbio un impatto rilevante sull’ecosistema alpino. Come altri progetti di questo tipo sono stati avallati ora con i fondi per il ripristino dei danni di “Vaia” (abbastanza ironico, che proprio il modello di sviluppo alla radice di alcune delle cause dello stravolgimento climatico sia ancora il rimedio per riparare l’errore), ora con i fondi europei del PSR. Fondi che, varrebbe la pena ricordare, vengono erogati dalle istituzioni comunitarie ma la cui effettiva gestione ed utilizzo spetta alle comunità locali. E questo è ancora più allarmante, dato che la decisione non arriva da un’autorità “lontana”, ma da quelle che dovrebbero essere più vicine ai reali bisogni. Dove l’ansia di “rendicontare” sostituisce l’obiettivo primario che è la vera tutela del patrimonio ambientale.

Come ricordato sul Messaggero Veneto del 7 settembre nell’articolo di Melania Lunazzi, questo progetto prevede 3km di strada larga 4,5 metri con cinque piazzole di sosta (di 144 metri quadri) per il passaggio di mezzi a motore a 1600 metri di quota. Progetto che, tra le altre, avrebbe anche dei fini legati all’esbosco (oltre a delle non ben precisate e indiretti effetti sull’attrattività turistica). Peccato che, sempre nell’articolo citato, viene ricordato “come iI tratto tra Tuglia e Chiampizzulon è infatti privo di boschi di produzione e presenta invece un “bosco di protezione” che ha la funzione di proteggere il territorio da franamenti e valanghe. L’area ha vari vincoli, tra cui quello idrogeologico. La nuova strada taglierebbe quattro canali di franamento, che comporterebbero costosi lavori di manutenzione che non si sa chi potrebbe essere in grado di sostenere lasciando l’area irrimediabilmente devastata. Oltre a intaccare un’area naturale di pregio si cancellerebbero le tracce di opere militari della Prima Guerra Mondiale.”

L’articolo di Melania Lunazzi, Messaggero Veneto del 7/9/2022

Ora, la domanda forte di fondo, è se questa è l’idea della Montagna che si ha oggi e per il futuro. Dove una malintesa accessibilità finirà per contraddire il senso stesso di quei luoghi. Rendendoli si più accessibili, ma al tempo stesso anonimi, omologati e in ultimo deturpati. Il nutrito (oltre 3000 iscritti) gruppo Facebook “Salviamo i sentieri CAI 227-228” (https://www.facebook.com/groups/1765997663733738) chiede a gran voce di prendere in considerazione gli effetti di quest’opera. Ed è sintomo di un sentimento profondo, di una vera coscienza che chiede un’idea di futuro.

Esserne consapevoli è il primo passo, che non si può esaurire nella singola iniziativa, ma che deve coinvolgere più livelli e creare il terreno per nuove idee. Ecco, viene da dire che al di là di tutto, mancano proprio le idee. E quindi si ripetono i gesti di sempre, senza la minima idea di futuro. Procedendo in strade senza uscita.

In questi giorni mi capita spesso di leggere un ottimo blog, cui rimando per letture più “aperte” sui problemi del mondo di oggi, curato da Giovanni Ludovico Montagnani la cui storia, da sola, merita una visita alle sue pagine. Riporto un pensiero che credo riassuma bene ciò di cui stiamo parlando: che sia oggi una strada in Carnia, un’infrastruttura impattante legata al turismo o progetti di urbanizzazione di ambienti naturali sotto il velo della valorizzazione.

Non conoscendo l’ambiente poco antropizzato, il turista vuole ritrovare le sensazioni di casa o di uno spazio commerciale collocate in mezzo a degli scorci “naturali”. È comprensibile, ma secondo me è deleterio per il territorio che cede a questo modello di sviluppo: non possiamo più pensare di ampliare la capacità ricettiva dei territori meno antropizzati, antropizzandoli di più. Dovremmo imparare a riconoscere l’errore dello sviluppo sfrenato senza farne una colpa a nessuno e semplicemente cambiare modello di business”.https://dopolincidente.wordpress.com/2022/09/01/sono-abituato-a-sbagliare/

Chiamiamole montagne, per favore

di Saverio D’Eredità e Carlo Piovan

Agli uomini piace parlare della guerra per allontanare il momento dell’entrata in battaglia. Questa è una delle lezioni che si possono trarre dall’Iliade di Omero¹ e che ritroviamo in questi giorni. Gli uomini (intesi come genere maschile) di fronte ad un problema che li ha spaventanti e che li ha trovati spiazzati, hanno scelto di riesumare le parole della guerra come veicolo comunicativo con la comunità (italiana, nel nostro caso). Perché è sicuramente più facile segnare una linea per terra e dividersi in due fronti che valutare la complessità di un evento. Perché parlare della guerra, come ci ha insegnato il poeta Greco, rimanda il momento della battaglia in cui è noto che senza una strategia non si vince. Chissà che paradigmi sarebbero stati usati per affrontare il problema sanitario, se la presenza femminile nelle varie task force governative, invece di essere in netta minoranza, fosse stata perlomeno pari agli uomini. Si sarebbe parlato ancora di guerra? Continua a leggere

Lasciate surfare la mia gente, la “smisurata preghiera” di Yvon Chouinard.

di Carlo Piovan

Con un titolo che inneggia alla necessità di azione e al tempo libero, Yvon Chouinard racconta la sua vita in questa appassionate biografia firmata dal signor “Patagonia”.

Se dovessi scegliere un colonna sonora per questo libro, non avrei dubbi nell’eleggere “Smisurata preghiera” di Fabrizio De Andrè.

Il libro si snoda tra racconti di avventure in parete e in officina, in baracche sulla spiaggia o in giro per il mondo a cercare i tessuti migliori per i capi in fase di elaborazione, dove la vita di Yovn e il suo rapporto di amore / odio con la professione di impreditore, altro non è che un percorso in direzione ostinata e contraria.

La dualistica figura di Yvon imprenditore ed ambientalista, che inevitabilmente il nostro tempo ci pone come due aspetti contrapposti, cerca di trovar sintesi nella politica aziendale di Patagonia.

Se a molti in prima istanza potrebbe sembrare un’azione di marketing, l’interessante introduzione di Naomi Klein sgombera da subito il campo da eventuali dubbi.

Un libro che è più di una semplice biografia, un manifesto per imprenditori e si spera “ex” consumatori.

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