Il fuoco e la neve

di Saverio D’Eredità

Avevo salito il canalone nord del Siera esattamente dieci anni fa, al termine del mese di febbraio più memorabile che si ricordi e poco dopo aver saputo che aspettavamo Francesca. Questo canale, lineare e ben visibile in tutta la sua traiettoria quando si scollina a Cima Sappada, è senza dubbio tra quelli esteticamente più belli in Carniche, immancabile nel carnet dello scialpinista. Non troppo difficile, nemmeno banale, imbattibile dal punto di vista ambientale ed estetico: aperto perfettamente tra il corpo principale del Siera e del suo fratello “Piccolo”, mostra una forma regolare che dal conoide finale man mano si stringe fino all’acuta e spesso invalicabile forcella. Aggiungeteci il fatto che, quando si sbuca dal canale, si plana letteralmente sulle piste di Sappada e gli ingredienti di una sciata ideale ci sono tutti.

L’avevo percorso 10 anni fa, dicevo, ed in un certo senso è stato come tornare a chiudere la linea di un cerchio. Venti anni prima, infatti, mettevo per la prima volta gli sci sui campetti di Cima Sappada e poi sulle piste del Siera e quel canale ce l’avevo sempre davanti agli occhi: nei momenti in seggiovia – spesso da solo – che erano rilassanti solo in parte perché le partenze e gli arrivi mettevano a dura prova la mia goffaggine. Era davanti agli occhi – spesso distratti – mentre aspettavo di eseguire gli esercizi impartiti dal Maestro – il “baffone” con gli occhiali a specchio sempre con la battuta tagliente e vagamente razzista sulla bocca (ah, cosa si direbbe oggi!). Era sempre lì. E io ero sempre a terra. A maledire tutto, ma non lo sci. Sentivo, nello sci, qualcosa di implacabile ma onesto. Che non potevo che rispettare, pur subendolo.

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Dopo la discesa del canale scrissi qualcosa che voleva essere un po’ l’epilogo di una storia di riscatto, in un certo senso Tre Storie – di neve, di sci e di quella strana, insolita, grazia Uno schema classico: il brutto anatroccolo insegna. Fatto il canale, tradotte in parole le sensazioni, come immaginavo non ci sono più tornato. Coincidenze, scelte, piccole ritualità. Quando chiudiamo i conti con qualcosa, mettiamo tutto in una scatola che ficchiamo da qualche parte senza sapere dove ritrovarla. Sappiamo che c’è ma non si sa dove. Chiudiamo i conti, talvolta, semplicemente per non pensarci più.

Risalgo la pista, indurita dal rigelo notturno, mentre man mano il cielo schiarisce e lascia intuire meglio la spolverata notturna. Il Siera ha dalla sua una certa eleganza, non bilanciata però da altre peculiarità che ne farebbero una montagna di prestigio. Le pareti rotte da canali, colatoi, inframmezzati da cenge e pulpiti la rendono disomogenea e poco attraente. Ma quando si spolvera anche solo leggermente diventa d’improvviso seriosa e al tempo stesso conturbante. Transito vicino al Rifugio Siera e costeggio lo skilift, forse in cerca di quei ricordi di ormai trent’anni fa. Certo che la pista è davvero poco pendente, rifletto, poco più di un campetto. Eppure quella volta mi pareva ripidissima. Dove è finito tutto questo? Quella volta che caddi poco prima della fine dello skilift sotto gli occhi divertiti e sarcastici dei compagni, la solita invettiva del Maestro contro la mia incapacità, il piumino verde, gli occhiali appannati, tutto quel mondo ostile, dove si trovano tutte queste immagini adesso? Sono in quella scatola chiusa e messa da qualche parte?

Svolto e punto verso il conoide, sorpreso o forse deluso che di tutte queste sensazioni non rimanga più nulla. Si devono chiudere i conti per arrivare a questo? A questa specie di stasi, di annullamento delle emozioni? Probabilmente è questo quello cui tendiamo. Stare sereni. Stare in pace con il mondo. Deporre le armi e lasciarsi trascinare dalla corrente. È tutto così normale, ora. No alarm/No surprises.

Dove è finito l’occhiale a specchio del Maestro, dove sono le risate di scherno, quel sentirsi soli, esclusi, inadeguati? “E cosa ci fa uno di Palermo sulla neve?”. Quanto hanno pesato queste cose nello sviluppo di una mia identità, quanto nelle mie scelte, quanto nei miei errori? Immagino tutti questi frammenti inabissarsi in un fondale indistinto e opaco, perdere forma e sostanza, non essere che immagini e poi nemmeno quelle. Come i ricordi di Riley in Inside-Out e il suo elefante rosa. Dove saranno ora?

Arriva un punto, risalendo un canalone di neve, in cui tutti sanno che bisogna fermarsi, staccare gli sci e caricarseli in spalla. Comincia il battere traccia. È uno dei momenti che preferisco, anche se non dovrei dirlo che se no la prossima volta mandano avanti me – anche se ci andrei lo stesso. C’è un che di meditativo e al tempo stesso devoto, nell’atto di aprirsi la traccia nella neve. Nel percepire la diversa consistenza della neve, nello scegliere la traiettoria, nel suono cavo del cuore che batte. Il tempo si contrae e dilata a seconda dell’incidere dei passi. Si penetra una dimensione mentale fluttuante per il tramite di una fatica fisica orrenda. Qualcosa che avvicina alle pratiche del misticismo orientale. Io ho invece solo la sensazione di meritarmi davvero qualcosa di questo mondo. Aprendo traccia nella neve. Ansimando in un canale buio alle prime ore del mattino. Devozione e riconoscenza.

Dentro il canalone del Siera – foto S.D’Eredità

Dopo un tratto incassato, in cui i piccoli scaricamenti ci passano sulla testa senza toccarci, il canale si apre leggermente, là dove si intravvede la fine. La differente consistenza del mio passo ci arresta. Ci guardiamo un secondo e senza che si debba dire altro ci fermiamo, scaviamo un piccolo ripiano, poggiamo gli zaini e ci prepariamo a scendere. È bastato un minimo dubbio, il passo diverso, lo sfarinamento della neve che cambia suono, per farci invertire la rotta. Da cosa viene tutto questo? Da quale coscienza collettiva, da quale substrato di esperienze? Lo abbiamo attinto da quel fondale dove si sono sedimentati i ricordi, le paure, le emozioni? La rinuncia non pesa. È un atto dovuto. Riconciliazione. Sarebbe stato così anche dieci anni fa?

Le procedure prendono più tempo del solito, non sono tra i più abili nei cambi assetto e vedo i compagni già pronti. Sarà una bella sciata, questo 30 centimetri di polvere ce li siamo guadagnati. E’ sempre stato così o lo siamo diventati? Qualche volta penso che accumuliamo esperienze per farne sempre meno. Praticamente miglioriamo non per andare avanti, ma per tornare indietro. La cosa strana è che non è stata la paura. Nessuno di noi ha avuto veramente paura. Era solo ciò che andava fatto. Conservazione della specie. Forse è questo che in definitiva orienta i nostri gesti, i nostri pensieri. Andare avanti, per tornare indietro. Riportare indietro qualcosa. Il fuoco.

Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

(La Strada – di Cormac McCarthy)

Risalita a Forcella Rinsen – foto C.Betetto

Alcuni giorni fa ho sciato una mattinata in pista con Francesca e Graziella. Era la prima volta che sciavo insieme a mia figlia per davvero e non sui tappetini dei campi scuola. È stata in una di quelle mattine serene di sole e di pace, che possono accadere anche in uno normale comprensorio sciistico e senza per forza cercare l’intensità della fatica o il piacere del tracciare pendii. Si prende la seggiovia, si guarda attorno, si scia lenti ad aspettarsi. Qualche consiglio normalmente inutile o inascoltato, le brevi soste per decidere quale bivio prendere. Il panino a fine giornata. Quelle giornate in cui ti rimetti in linea, in cui non cerchi niente più che un paio d’ore di sole e di leggerezza e mi rendo conto che difficilmente ci accontentiamo di questo. Ma sappiamo anche che non esisterebbe l’una senza l’altra.

Abbiamo fatto tutte le piste blu anche più volte – del resto, lo Zoncolan non è che offra chilometri di piste ma almeno sono facili e la mattina c’è il sole – qualche stradina, un paio di saltini. Verso la fine delle ore di skipass, dondolando in seggiovia verso il “cubo” in cima ho notato come la “2” fosse pressoché deserta. “Potremmo fare questa, Franci, cosa dici” le ho chiesto già sapendo che avrebbe detto di no. Non insistere. Non imporre. Non proiettare la tua immagine sui tuoi figli. Non fare realizzare a loro i tuoi desideri. Esegui. Conduci. Non voltarti indietro. Ho sempre cercato di ripetermi questi comandamenti, che non credo si trovino in nessun decalogo per padri o in corsi di genitorialità. Io devo andare avanti. Devo solo aprire la strada. Saranno loro a percorrerla, se vorranno.

“E’ una rossa?”

“Sì, ma è larga, non è difficile. È come una blu solo più lunga”

Francesca guarda sotto, mentre da un pilone all’altro fuggiamo verso il cielo.

“Va bene, facciamo questa”

Quindi inizia tutto di nuovo così? Nuovamente una seggiovia, una linea, una traccia lasciata nella neve?Silenzio. Alzo la sbarra, una spinta, scendiamo.

Dopo alcune curve facili, arriva il primo muretto. Mi volto a guardarla mentre punta i bastoncini, si abbassa, imposta la curva sulla base del suo piccolo bagaglio di esperienze. Acquisisce una postura. Interagisce con il mondo. Capisco che non posso fare nulla. Non devo fare più nulla.

Posso solo andare avanti. La neve di mezzogiorno è pesante, piccoli mucchietti costellano la pista come i buchi delle talpe. La sciata diventa faticosa.

“Segui la mia traccia, Franci: scia dove passo io così porto via un po’di neve ed è più facile”.

Non posso insegnare. Non devo insegnare. Io posso solo aprire una strada. Educare. E-ducere: trarre fuori. Allevare. Questo è il mio ruolo. Questa la mia missione. Il fuoco. Devo tenere acceso il fuoco. Dopo altre tre curve mi fermo. Non segue le mie tracce, ma percorre una sua linea. Si ferma, fa fatica. Ogni tanto spazzaneve. Non cade. Persiste. Mi sembra di intravvedere, nella sua cocciuta ostinazione (nel fallire, nel riuscire, nel provare) un piccolo filamento del mio DNA. Ero anche io così? Per questo sono ancora qui? Origine della specie.

Procediamo di muretto in muretto, ora fermandoci. Ogni tanto affiorano i nervi e la stanchezza. Ma siamo due mondi, due universi separati. Io non posso entrare nel suo, posso solo assecondarne la forza. Lo sci è solitudine. Mi allontano appena in tempo da un piccolo pianto, proseguo sulla mia linea, ogni tre curve mi fermo. Dove finirà questo momento in lei? Dove finiranno questi ricordi, si faranno opachi, un giorno forse non le diranno più niente. Sarò ai suoi occhi quello che fu per me il baffuto e sarcastico maestro sappadino? O un padre egoista che pretende dai figli ciò che lui non è riuscito a fare? Che compensa su di essi le proprie mancanze? Evoluzione della specie.

Ci sono giorni in cui – più di altri – realizzi cosa vuol dire essere padre. Questo è uno di quei giorni. La guardo scendere ora sulla mia traccia, ora aprendo la sua e penso solo che siamo qui perché mi ha chiesto lei di portarla a sciare. Perché è voluta scendere per la 2, anche se era rossa. Perché è iniziato tutto di nuovo.

Sciando il conoide alla fine del canalone – foto C.Betetto

Qualche giorno fa ho trovato un commento di Francesca alla “Pasqua” di Guido Gozzano “se c’è la vita, c’è l’impossibile”. Questa strana frase mi è risuonata in testa per giorni, e ad ogni passo mentre salivamo il canalone. E’ questo dunque, il senso del fuoco, il senso della neve?

Si arriva ad un certo punto – a quel punto, quello in cui ti fermi guardi il compagno e semplicemente scendi – proprio perché lo scopo in noi è un altro. È mettere a frutto tutto quello che siamo stati. Issarci su quel fondale nebuloso dove sono precipitati i ricordi senza che questi ci portino in giù. Abbiamo sperimentato il limite. Siamo le nostre esperienze. Siamo il fuoco che deve passare attraverso di noi. Siamo il desiderio di aprire quella traccia di nuovo. Siamo l’impossibile.

Salendo il canalone del Siera, inverno 2014

Pompelmo

di Saverio D’Eredità

Get what you give dei New Radicals è quel genere di canzone che appena parte ti viene subito da alzare il volume. E’il pezzo perfetto per ogni genere di compilation, in qualunque punto tu la piazzi ti fa svoltare. Una canzone pop-rock pulita ed onesta, ottimista anche se un po’ ruffiana con un tocco di sfrontatezza. Get what you give era il brano di apertura della prima compilation che avevo fatto per Graziella ai tempi. Già. Ai tempi.

Non so perché mi viene in mente questa canzone adesso, fermo sugli sci che guardo Luca accingersi a far la prima curva e – ne sono abbastanza certo – prossimo a farla piuttosto male. Tanto io farò uguale se non peggio e almeno stavolta la colpa non è solo nostra, ma di questa neve orrenda, un po’crosta e un po’pappa che devi essere bravo, ma bravo bravo, a sciarci in modo che non si veda quanto fa schifo. E non è il nostro caso.

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Neve di Aprile

di Saverio D’Eredità

Credo non esista gioia più grande, più piena, più rotonda, sulla faccia di questa terra dello sci di primavera. Oddio, forse esagero: certo che esiste, anzi vi dirò che potrebbero essercene almeno cinque sei (non di più) di più belle. Tra queste figureranno la campanella del sabato, la chiamata inattesa di un amico che non sentivi da tempo, l’ecografia del terzo mese e un gol sottoporta al secondo tempo supplementare. Ma mi spiace, non oggi. Oggi nulla batte la sensazione vellutata, leggera, erotica direi dello sci di primavera. O sarà forse merito del fatto che ho finalmente trovato il modo in cui il cavetto usb scassato fa contatto con l’Ipod e la playlist scorre che è un piacere.

Lo sci di Aprile è una promessa mantenuta. Di neve dura al mattino che per incanto o legge fisica diventa firn. Aprile ha gli occhiali a specchio ed odore di crema 50 sulla pelle. Che sei in dubbio se riempire il thermos di tè caldo o portarti due litri d’acqua e alla fine metti tutti e due. Aprile ha una luce tutta sua che inonda le valli, che entra ovunque, che fa chiasso, che ride, che canta. Aprile sono corone di montagne in technicolor, un segreto svelato e che scopri essere bellissimo. Quando realizzi che tutto quel freddo, quell’attesa, quel buio che hai sfidato per mesi – cappucci tirati su e mani tra le cosce prima di scendere dall’auto, quel girare di soppiatto nei boschi sotto lo sguardo di pareti cupe – ecco, tutto quello aveva un senso ed era questo. Aprile è ancora una polvere gelosamente custodita che non posso dirti dove. Per trovarla non serve essere atleti e nemmeno esperti. Per trovarla devi essere credente. Allora sì. Se avrai fede nel sole e nella notte. Se saprai scendere a compromessi con albe attonite e accettare quel poco di sci sulle spalle e unghie rotte negli scarponi. Allora si, nella bilancia finale del giorno, tutto ciò peserà molto poco. Più alto è il fine, più lieve sarà la pena. Del resto, siamo o no in missione per conto di dio?

Canin, aprile

Non lo scopro certo io, che lo sci di primavera è il più bello di tutti, e ora che ci penso sta guadagnando posizioni nelle cose più belle della vita, più della campanella del sabato, ma ancora un gradino sotto il primo bacio. Assomiglia piuttosto alla lettera di dimissioni quando cambi lavoro, con quella leggerezza, quella fiducia nel futuro che mai più riproverai. Che ti fa sentire così gioiosamente fuori controllo e forse proprio per questo mai così in controllo. Aprile – di questo sono tuttavia sicuro – ha un modo di sciare che segue più l’improvvisazione del jazz che non il basso e batteria del rock. Diciamo che si sente più il sax di John Coltrane di “A love supreme” che non la base ritmica di “Ten” dei Pearl Jam.

Aprile si porta un piccolo dolore ne cuore. Come certe ombre che fai fatica a stanare e che forse rimarranno sempre. Non le eviteremo, non le negheremo. Anzi ci aiuteranno a riconoscere la vita anche dove si nasconde. Come segni su una mappa.

Lo sci di primavera, si dai, non sarà proprio la cosa più bella della vita, ma la cosa più bella di oggi senz’altro. Non fosse altro che per queste strade sgombre, che con l’auto fili via veloce e pare che dai balconi escano signore e bambini a salutarti con i fiori, che tutto pare facile, ovvio direi – “ma scusate non potevate dirmelo prima che era così bello?” pensi mentre i chilometri scorrono lenti ma leggeri, mentre il serbatoio rimane pieno e hai sempre una bottiglia d’acqua piena accanto e la tua canzone preferita in cuffia.

Sarà forse merito delle ultime curve e del firn – che dio lo benedica, il firn – o del cavetto dell’Ipod che ora funziona, ma se ci penso bene bene lo sci di primavera è una cosa decisamente bella – si anche come il primo bacio, o meglio il primo bacio che non ti aspetti – e magari lo metto in alto in quella lista di cose che. Che non sai mai quanto dura e che potrebbe finire già domani. Quindi lo vivi di più, lo rallenti di più. Come rimanere a letto domenica mattina (dopo che hai sciato ovviamente).

Lo sci di primavera ha la tenerezza e la forza della mia piantina di ginko biloba: ogni aprile aspetto di vedere un piccolo puntino verde farsi largo nella corteccia rugosa. Ogni aprile riesce a stupirmi quella prima gemma, che mi ricorda che siamo qui, siamo vivi. E che quella cosa lì, continueremo a cercarla ancora.

Il Foro, la luce, le curve

La Dinamica

Rimozione. Colpevolezza. O consapevolezza? Sono queste le domande che sorgono quando apriamo il libro nero degli incidenti in montagna. Quello che non vorremmo sfogliare mai. Eppure sappiamo bene come quelle pagine, per quanto dolorose, siano in realtà la chiave per comprendere meglio e aiutarci a decidere e valutare le nostre azioni.

L’alpinismo, lo scialpinismo, l’escursionismo e l’arrampicata sono attività di natura pericolose in quanto ci espongono ai rischi (oggettivi della montagna e della natura) e soggettivi (delle nostre azioni ed omissioni). Ma sono anche attività che arricchiscono di conoscenza come poche. Diceva Massimo Mila che l’alpinismo è una forma di conoscenza superiore in quanto prevede sia la teoresi che l’azione. Peccato che una volta a casa raramente ripensiamo a cosa abbiamo fatto e se l’abbiamo fatto bene. Affidarsi alla fortuna come elemento di riduzione del rischio non è un’idea saggia, tanto come pensare di esser esenti da rischi solo perché facciamo le cose “in sicurezza”. Cosa vuol dire sicurezza? E’ un protocollo codificato o forse la somma di esperienze pratiche sul campo, razionalizzate ed analizzate?

La verità, scomoda, è che non ci piace aprire quel libro. E che quando “succede” l’istinto sia quello di rimuovere i traumi per andare avanti. E’umano. Ma non ci fa evolvere in quella conoscenza che dovrebbe essere parte integrante dell’esperienza. Così facendo lasciamo il campo alla colpevolezza (chi si fa male, si sa, ha sempre torto per l’opinione pubblica), che ci amareggia quando tocca leggere i soliti commenti pressapocchisti e superficiali di chi quella conoscenza non ce l’ha e si permette di giudicare. Finita l’era (o quasi) della montagna assassina intrisa di retorica, la società securitaria odierna reagisce agli incidenti (siano essi fatali o no) con un miscuglio di moralità e contabilità. Moralità quando si tratta di giudicare come “stupide” queste attività (salvo poi essere elogiate e reclamizzate quando si fa marketing dell’outdoor…) e contabilità quando il tutto si riduce ad una nota spese degli interventi di soccorso (come se il soccorso stesso non fosse espressione della solidarietà naturale non solo di chi frequenta la montagna ma degli esseri umani!). Ecco quindi che la risposta non può che venire dalla consapevolezza. Di ciò che accade, di come accade e di come possiamo migliorare. Sapendo che l’imponderabile esiste e può fare male. Che il rischio non si azzera, ma solo si riduce. Che il bello, se volete, di ciò che viviamo in quei giorni in montagna è proprio imparare, esplorando spazi interiori di consapevolezza.

Il progetto di Fabio Gava, “La Dinamica” è una novità in questa pagina così poco approfondita delle attività in montagna. Sono storie di incidenti di arrampicata, alpinismo, scialpinismo e canyoning, raccontate direttamente dai protagonisti e condivise per contribuire ad aumentare la sicurezza in montagna.

La formula è quella del podcast ed è una risposta per chi crede che sia necessario sviluppare, tra i frequentatori della montagna, una cultura che faccia sentire le persone libere di rendere pubbliche le proprie esperienze negative senza essere giudicate, colpevolizzate o umiliate. Lo scopo di questo podcast è di ridurre il numero di futuri incidenti in montagna, attraverso i racconti degli incidenti passati.

L’ideatore del progetto è disponibile ad essere contattato da chiunque voglia raccontare la propria esperienza. Ascoltate le prime uscite. Si parla di incidente in arrampicata o sci, direttamente da chi li ha vissuti e può riportarli, e soprattutto da semplici appassionati “della domenica”.

Sito web: http://www.ladinamicapodcast.it

Instagram & Facebook: @ladinamicapodcast

Link agli episodi su Spotify:

https://open.spotify.com/show/01y8ShLjhHqNmtBZXg2LSo

(il podcast è disponibile anche su tutte le principali piattaforme di podcasting, quali Apple Podcast, Google Podcast e Amazon Music)

Elmer, l’elefante sulla neve

di Saverio D’Eredità

Oltre il dosso la traccia finiva, e con essa il rumore. Più in là era il silenzio e nient’altro che due larici naufragati nel pendio grigioazzurro del mattino. Non credete che le tracce facciano rumore? Eppure le puoi sentire. Il vociare chiassoso delle tracce di sci confuse a quelle delle racchette da neve, disturbate dallo zampettare di cani e da buchi di impronte. Tutto un rincorrersi, un sovrapporsi di parole, e suoni e odori anche. E poi ci sono le tracce incerte come bisbigli, che vanno qua e là, tornando indietro nel dubbio. Ci sono le tracce regolari, sicure, ben scandite, che seguono geometrie euclidee. Le invidio, nella loro sicurezza, nel loro non aver nemmeno un’esitazione. E ancora quelle che sanno di sudore, fatica e bestemmie (una sbavatura nella corsia, il forsennato pestare dei bastoncini a trovare un equilibrio) e infine le tracce che cercano. Le capisci da subito, le tracce che cercano, paiono segugi che fiutano l’aria. In apparenza indugiano, in realtà osservano. Si adattano. Le vedi da come si plasmano al pendio, hanno una loro logica anche se sgraziate. Arrivano, il più delle volte. Altre, invece, scompaiono.

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K2 la Discesa

di Carlo Piovan

Per un alpinista la salita di una delle cime più alte della terra può rappresentare il sogno di una vita, la tecnologia e le tecniche di allenamento, oggi, concedono sicuramente più possibilità di successo rispetto ad una volta, ma le condizioni dell’ambiente in cui ci si muove rimane molto complicato e le condizioni possono diventare sovente ostili alla permanenza in quota. In un’ascensione di tale portata raggiungere la cima è la meta per molti e la discesa, come si legge spesso nei diari delle salite, è una fuga da un mondo sfavorevole alla vita dell’uomo, verso la salvezza del campo base.

Per uno scialpinista la salita e la cima sono solo l’antefatto dell’obbiettivo principale: scendere.

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Cima Carega … tutto a posto

di Carlo Piovan

Le citazioni che intervallano il testo sono tratte dal brano Tutto a Posto (1974 Alberto Salerno, Bruno Tavernese) interpretato dai Nomadi

E’ per lei, io vedo quella ferrovia
Che è fra i sassi, la mia via
Nel passato e nel presente corre già.

Le architetture del fumante, oggi scintillano di bianco, ne rimango incantato come fosse la prima volta che i miei occhi si posano sulle loro forme. Scatto una foto e la spedisco con il buongiorno alla mia compagna per condividerne la bellezza.

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Il canale nascosto del Piccolo Mangart

di Saverio D’Eredità

È  innegabile che uno degli aspetti sociali più caratteristici dello scialpinsimo – almeno nella sua versione 2.0 – sia quello di vantare (per non dire ostentare) la scoperta dell’itinerario perfetto, possibilmente originale, con neve sempre e comunque di qualità eccezionale, ovviamente senza essere umano alcuno a parte i novelli esploratori. Il tutto sarebbe persino accettabile se ciò non fosse pervaso da una vaga supponenza per non dire un accenno di giudizio morale su quanti (al contrario) non fanno che ripercorrere banalmente e senza creatività i medesimi itinerari di sempre. Continua a leggere

Miopia bianca

di Carlo Piovan

A mio parere, non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo,
Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.

J. Saramago, Cecità.

Sbagliare è umano ma perseverare è diabolico, recita un antico adagio. Ed è quello che ho immediamente pensato quando ho letto la notizia dell’annuncio del potenziale sviluppo del comparto scistico di Sella Nevea sul versante dell’altopiano del Montasio.

http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/ricerca?tags=sci&sort=pubdate&sortDir=desc&page=1

Notizia, che cade in una stagione magrissima di coltre bianca, in cui siamo stati abituati a vedere tristi scene di lingue di neve creata artificialmente in mezzo ad un paesaggio dominato da varie gradazioni di giallo.

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