Solitudine

di Saverio D’Eredità

Vedi, se dovessi dirtelo con una parola, ti direi che lo sci è solitudine. Ma non per l’ambiente, la montagna, la neve e quelle cose lì. No, io dico proprio una solitudine profonda, radicale. E’ qualcosa che ti porti dentro sempre, dall’inizio. Ha l’odore dei baracchini fumanti di salsiccia e cipolle e il suono della musica incalzante che esce dalle casse. Quella solitudine sa di maglietta sudata, di lana che pizzica attaccata al fondoschiena, sa di unghie rotte mentre cerchi di chiudere gli scarponi. Gli occhiali appannati. Quella solitudine si riflette nelle maschere a specchio oltre le quali cerchi uno sguardo di comprensione o almeno conforto, mentre ti aggiri smarrito in un campetto nella folla assordante. 

E’ una solitudine strana, quella dello sci. E’ la solitudine dello straniero in terra straniera, che passa attraverso la folla che passa. Sei solo nelle cadute a bordo pista, che ti dimeni scomposto mentre cerchi di rialzarti e ti senti solo un mostro con zampe lunghe e rigide e i piedi bloccati in delle ganasce infernali. Sei solo nella seggiovia dondolante, che guardi le punte degli sci e ascolti i discorsi stupidi di chi ti sta accanto e pensi che nessuno ti potrà aiutare, nessuno potrà capirti. A parte, forse, proprio gli sci. O quando sei l’ultimo della fila e inizi a scendere sotto gli sguardi di derisione di tutti, e il mondo è un luogo ostile, la Natura indifferente e tu sai che stai per cadere.

Ho trovato questa solitudine in tanti posti, in tante giornate, potrei dirti in tutte. Nello scendere un bosco sul finire del giorno, e ogni curva in discesa era un ponte tagliato con il ritorno. Nell’aprire una traccia nella neve fresca, in tutti gli innumerevoli, impercettibili, determinanti scelte che sei portato a fare e che potranno determinare la prossima curva, l’intera giornata o forse il tuo destino. 

Non è una cosa che ti passa con il tempo, la solitudine, o perché diventi magari più bravo o smetti di cadere. No, io la sento sempre, la sento anche oggi in questo canalone tanto lungo che non se ne vede il fondo. La sento anche se davanti c’è Andrea ad aprire traccia. Scendiamo il canale mantenendo una distanza di sicurezza. C’è un punto in cui si stringe e se ti affacci non riesce a vedere sotto. Mentre aspetto che si metta in un posto sicuro sento di nuovo quella solitudine del campetto e dei baracchini con la salsiccia. Osservo le punte degli sci proiettate verso l’imbuto del canale e sono sempre quello di 30 anni fa, ultimo in fondo alla fila. E penso che in questa solitudine non hai nient’altro che i tuoi sci.

Niente c’è, di più solo dello sci. Perché la curva è tua e tua soltanto. Tua è la traiettoria, la scelta del movimento e del tempo, del peso e dello spazio. Tu dirai, bè non è mica solo lo sci così. Eppure io non conosco nulla che restituisca questa pienezza, questa totalità e che tutto ciò si origini dalla più profonda solitudine.

Ecco, se dovessi dire a mia figlia che oggi impara a sciare e segue il maestro sui campetti e cerca di rialzarsi quando cade, le direi questo. Che questa solitudine un giorno le sarà utile. La ritroverà mille volte nella vita di ogni giorno. Nelle metro affollate del mattino come in quelle svuotate della sera. La ritroverà il giorno prima di una partenza, davanti ad un foglio bianco il giorno dell’esame, nel rispondere a una domanda dalla quale dipenderà il suo futuro. Allora quella solitudine le sarà preziosa. 

Bisogna saperla abitare, la solitudine, capire che è la tua migliore alleata. Portarla gelosamente con sé, come cosa preziosa. Ricordarsi che la curva è tua e tua soltanto. Qualunque essa sia, che ti venga bene o male, perfetta o sgraziata, ma tua. Come tua è la solitudine, per definizione. Quella solitudine sarà la tua dichiarazione di indipendenza.

Di piccoli gesti, silenzi e pigrizia

Pensieri sparsi di una reclusione

di Nicola Narduzzi

Dicono che durante questi giorni di quarantena dobbiamo riscoprire i piccoli gesti. Penso sia una delle cose più sensate da fare, suppongo, visto che praticamente ogni altra cosa è vietata e per chi come me vive in un appartamento le occasioni di fare qualcosa di interessante sono davvero limitate.

Il mio piccolo gesto riguarda il solo affacciarsi ad una finestra, o forse sarebbe meglio dire alla finestra. Non una qualunque, bensì quella che mi ha visto crescere per anni da bambino e ora mi vede, spero, da uomo adulto. Sul suo davanzale ho passato lunghe ore da bambino, chiuso in quella che allora era la mia cameretta, appoggiato alla ringhiera per leggere o anche solo per guardare le montagne. Sì, perché una persona qualsiasi potrebbe pensare che Fagagna, dolcemente adagiata sui primi rilievi collinari nel cuore del Friuli, non abbia niente a che fare con le montagne, mentre in realtà esiste un filo invisibile che le lega. Le montagne sono distanti, tuttavia fanno parte della quotidianità di tutti noi, anche se non sempre ne siamo consapevoli. Delimitano il nostro orizzonte quotidiano come in un grande abbraccio, dalle solari montagne di Piancavallo protese verso la laguna veneziana all’immenso scivolo del monte Nero e poi ancora, più giù, verso le alture del Carso che poi si perdono diventando Istria. Continua a leggere

Due solitudini

di Saverio D’Eredità

La sosta era appesa nel posto peggiore di tutta la torre. Sotto il culo sprofondava quel vuoto nauseante e sopra di noi c’era appena qualche ruga da seguire fino in cima. Questa non era una via: era un viaggio allucinante nella mente di un pazzo furioso. Che motivo c’era di abbandonare la linea sicura di fessure incise nella parete per buttarsi in quel vuoto cosmico? Cosa avrà suggerito la minuscola cornice che traversa verso lo spigolo, ad Ernesto?

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