Di Davide Vitale
Una meta stupida per gente stupida.
Warawarani. Cima poco nota dal nome poco pronunciabile. Sopratutto con la erre moscia. E una delle montagne più basse dell’intera Cordillera Real. Svetta, dal verbo « svettare », un’occupazione un poco monotona ma piena di dignità, appuntito e solitario in mezzo a un circo glaciale pieno di montagne più alte di lui. Il toponimo significa « posto con tante stelle » in aymara, e questo è un nome bellissimo. Fu salito per la prima e penultima volta nel 1975 da un gruppo di sacerdoti bergamaschi, dato molto indicativo delle doti di cocciutezza necessarie per superare la parete est.
E sconosciuto dai fortissimi andinisti americani ed europei, che per essere considerati tali dai loro compari hanno l’obbligo morale di scalare solo pareti famosissime su montagne altissime. Le guide boliviane, che siano di Pinaya, Palcoco o Chukura, non lo considerano, troppo ripido per i clienti. E come se questo quadro generale non fosse abbastanza sfigato, le valli che circondano il Warawarani erano popolate a nord da pastori indigeni dal carattere spiccatamente territoriale e dotati di Mauser e a sud da minatori con l’interessante abitudine di risolvere i conflitti a colpi di dinamite.
Ora le cose vanno un po meglio. Le miniere sono quasi del tutto esaurite. I briganti degli alti passi si sono resi conto che cento turisti vivi e contenti spendono di più che due avventurieri morti. I pastori, i pochi che non sono ancora emigrati verso la città di El Alto o l’Argentina, si sono sempre dimostrati estremamente amichevoli col sottoscritto, professore dei loro figli e nipoti.
Coi miei amici boliviani Jhonny Ticona detto « Concejal » e Ricardo Mamani detto « T’uxu », arrampichiamo spesso sulle rocce rosse che circondano il bel paesino di Peñas dove lavoriamo tutto l’anno. Guardavamo con curiosità le ragnatele dei canali di neve. Per un’attimo immaginavamo di essere appesi lassù. Per fortuna l’intrigante cuspide era lontana. Dopo un rapido fantasticare tornavamo rapidamente al tranquillo gioco soleggiato delle nostre belle e piccole vie, letteralmente dietro casa, volando trenta metri sopra i bianchi fiori dei campi di patate.
Iniziarono a visitare il paese i primi turisti, un po’ spaesati nel mondo di tradizioni ancestrali e lingue gutturali dove approdavano ma in generale sempre curiosi e disponibili a dare una mano. Con loro esplorammo le nostre montagne. Iniziammo dalle più conosciute come il Huayna Potosi, diventato praticamente il nostro pane quotidiano e continuammo poi verso i gruppi più remoti. Siamo diventati improvvisate ma coraggiose guide andine. Un giorno salimmo con due milanesi la Piramide Blanca di Warawarani. Ci rendemmo conto che la parte di dietro della Piramide Negra è quasi altrettanto ripida di quella davanti e molto più frastagliata.
Dalle falde del Wila Lloje avevamo vagamente avvistato alcuni canali nevosi paralleli, come costole di un immenso stegosauro o la maglia della Juventus, sul dorso della parete est. In generale la Piramide Negra di Warawarani ci appariva poco raccomandabile, difficilmente accessibile, problematica, forse impossibile. Una meta stupida per gente stupida. Nell’idioma alpinistico standard, una meta stupida per gente stupida si dice un’affascinante sfida.
La maledizione della Piramide Negra.
Le ricerche didattiche più avanzate e le moderne conoscenze psicologiche suggeriscono che l’insegnamento delle lingue è più efficace quando viene effettuato attraverso canzoncine ripetitive, giochetti e mimiche. Quando queste teorie vengono applicate a trentacinque bambini scalmanati con una radio ormai agonizzante in un’aula chiusa dal soffitto basso e dal pavimento di legno marcio generosamente rimbombante, ci sono dei risultati collaterali. Uno di questi è che il malcapitato professore, a meno di essere già sordo come una campana o di possedere la pazienza di un monaco buddista, finisce la lezione leggermente attonito e un poco provato.
Avido di intravedere finalmente i grandiosi silenzi e grandi spazi selvaggi per i quali la Cordillera Real è famosa, mi armo di corda e piede di porco e vado a pulire una via che scaleremo nei prossimi giorni. Un modo strano ma effettivo per rilassarsi, in un posto dove comunque l’offerta di stupefacenti e discoteche è limitata assai.
Due arrampicatori si trovano già sulle vie, e altri due stanno stravaccati alla base delle stesse approfittando degli ultimi raggi del sole e dell’odore della k’oa, una pianta dell’Altipiano che sa di menta e timo ed è molto buona per cucinare il pesce. Facciamo amicizia. Ci sono due cileni, uno dei quali coi rasta e l’altro con i bicipiti grossi come le mie cosce, Sun il coreano e Berbetty, dalla nazionalità poco chiara. Ammirando il tramonto sulla Cordillera gli ultimi due rimangono incantati dalla Piramide Negra.
Passano pochi giorni e siamo in macchina verso Alto Peñas. Una breve pausa dall’Arles Vargas a farci regalare del formaggio, una seconda per togliere una pietra che diceva gloc-gloc-gloc, incastrata tra le ruote. Mal informati e pessimamente preparati iniziamo a camminare all’altezza delle ultime case di fango del villaggio. Seguendo vaghe tracce di camelidi attraversiamo le distese di sabbia e pietre del Cerro Kimsa Chata. Non c’è né acqua né piante. Solo queste lande brulle, brutte e inutili, gialle e grigie.
–Parece Atacama ! dice Berbetty.
–Si. Conoces Atacama ? Es muy bonito, aggiunge Sun.
–No. Debe ser orrible. mi lamento.
–No es orrible. Es un destino turistico muy famoso.
–Los turistas famosos son tarados.
Accampiamo sulle rive della limpida e meravigliosa Laguna Warawarani. A forma di cuore, la parte superiore color celeste e la parte inferiore blu scuro, col riflesso dei ghiacciai, è un posto molto romantico. Rimpiangiamo amaramente di essere una compagnia di soli maschietti. Noi dormiamo su una spiaggetta di sabbia grigia, nell’esile lingua di terra in mezzo ai due specchi d’acqua. Scende una leggera brezza, che è il modo standard di dire che soffia un vento gelido quando si è in un posto molto romantico.
Da Peñas ci siamo portati dietro un pentolone con due chili di pasta già cotta che riscaldiamo ora ogni volta, cioè spessissimo, che ci viene il desiderio di mangiare.
Nella luce grigia di un’alba grigia attacchiamo un canale di neve sporca tra due pareti rosse. Stiamo demolendo un tiro di roccette marce quando Berbetty grida :
–Donde esta mi grampon ?
–Como que donde esta tu grampon ?
–Aqui no hay ! dichiara categorico esibendo uno scarpone sinistro effettivamente privo di tale attrezzo, staccatosi probabilmente perchè allacciato male.
Insultandolo generosamente, provvedo a calare Berbetty assicurandolo da uno spuntone. Sun continua a salire nel canale, anche lui appioppando epiteti in spagnolo, inglese e in vari dialetti asiatici al nostro maldestro amico.
Spariscono tutti e due dalla mia vista.
–Eres un sonso ! continua a inveire il coreano.
–Que tienes delante de los ojos ? T’aja[1] ? aggiungo compassionevole.
La voce di Sun non giunge più’ all’orecchio di Berbetty per la distanza eccessiva. Mi incarica quindi, trovandomi a metà strada tra loro due, di ripetere le parolacce che continua a sgranare. Assolvo il compito con zelo, convinto che potrò’ far figurare sul mio già variegato curriculum un impiego come « facilitatore di comunicazione internazionale in ambiente estremo ».
Quasi contemporaneamente mi giungono due notizie. Bebetty ha trovato alla base della parete i frammenti del rampone, sconquassato dal volo. Sun si è trovato bloccato da uno strapiombo dall’apparenza molto difficile e scende a raggiungermi. Con una doppia siamo tutti sul ghiaione. Ripariamo il rampone in qualche modo. Non reggerebbe una scalata ma per camminare va ancora bene. Ci toccano adesso varie ore di passeggiata per ghiacciai e valichi per raggiungere Jankho Khota, dove abbiamo appuntamento con il nostro autista.
I miei compagni, poco abituati all’alta montagna vogliono regolarmente sdraiarsi per improbabili pennichelle in mezzo ai seracchi. Siamo troppo lenti. Sono preoccupato. Dopo le paroline dolci e le frasi d’incoraggiamento, sono ridotto a usare altri aggettivi poco lusinghieri. La quantità di pause diminuisce per un po’ ma siamo ancora lentissimi.
Fa caldo e abbiamo sete. Sprofondiamo nella neve molle. L’asiatico inciampa e cade a pancia in giù. Malgrado tutte le mie offese non si rialza. Risoluto, mi avvicino e con un calcio preciso alla superficie nevosa gli riempio il colletto di una polvere bianca, fredda e fastidiosa.
–What the fuck are you doing ?
–I don’t want to sleep here you heavy fucking potato bag !
–Let’s go please Sun ! interviene Berbetty.
Sforzi inutili. Una corsa disperata nelle morene della valletta di Jishka Pata serve solo a intravedere la macchina scomparire sulla strada che porta giù a Peñas. Scoraggiato dal nostro ritardo e preoccupato per l’arrivo imminente della notte, Javier sta andando via dai poco sicuri paraggi della Mina Fabulosa. Dormiamo, affamati e di pessimo umore, in una piccola torbiera ai bordi della sterrata.
Il giorno seguente abbiamo la sorpresa di vedere a cinquanta metri l’auto bianca di padre Antonio Zavatarelli, che è venuto a cercarci nel cuore della notte e ci è passato accanto senza vederci. C’è anche la barella e un sacco di cibo nel capiente bagagliaio (chiuso) del fuoristrada, ma del prete nessuna traccia. Passano due ore e Antonio arriva con Ricardo. Fortunatamente hanno visto le nostre tracce sul nevaio e hanno capito l’equivoco.
La maledizione continua.
Questa volta sono presenti il flemmatico scozzese Neil Mac Gougan e Ronal Choque detto « Husky », un ragazzo di quindici anni del vicino paese di Kerani. Ronal è appassionato di montagne e di musica argentina di nuova generazione. Sconsiglio a chiunque si sia fermato agli Autenticos Decadentes di provare a scoprire che cos’è la musica argentina di nuova generazione.
Guidati da Ronal, questa volta passiamo dal villaggio di Jallywaya e in sole tre ore per sentieri di lama in una ridente valletta siamo alla Laguna. La prima parte della camminata passa per un lunghissimo acquedotto, scavato dai contadini per vari chilometri sui fianchi delle montagne. Siamo un buffo trio, un gringo vecchio vecchio coi capelli bianchi, un gringo giovane magro magro e un boliviano giovane piccolo piccolo. I pastori ci accompagnano con benevolenza e ci offrono alcune manciate di amare foglie di coca da masticare.
I piedi di qualcuno emanano un fetore immondo. Dormo poco e male.
Neil si incarica della cena mentre Ronal, a cui è stata confiscata la radiolina portatile, e io piantiamo le tende. Neil fa onore alla reputazione culinaria dei fedeli sudditi di Sua Maestà. Salviamo la situazione con un paio di minestre istantanee.
Visto il cattivo risultato del tentativo precedente, ci teniamo alla larga dalla parete ovest. In mezzo al ghiacciaio di sinistra, sto’ annaspando in un cumulo di neve fresca quando –bluuuuf– vengo risucchiato verso il basso. Mi fermo con un braccio da ogni parte del crepaccio, come ali di pollo e le gambe a penzoloni nel vuoto. La frontale illumina un’inquietante mondo di riflessi bluastri.
–Jale Husky ! urlo a Ronal che, prontissimo, aveva già teso la corda e stà adesso ridendo a crepapelle.
–You look a little bit too heavy for this job, dice Neil serafico.
Con un po’ di contorsioni esco dal buco.
Il sole compare da dietro una cresta e noi sbuchiamo sulla sella nevosa che divide la Piramide Blanca dalla Piramide Negra. Ancora un pezzo di ghiacciaio, un ghiaione ripido e siamo sulla cresta nord, la cui parte inferiore è difficilmente praticabile per i numerosi torrioni. Su’ una cengia nevosa sospesa molti metri sopra un ghiacciaio dobbiamo rimettere i ramponi. Seguono due tiri di difficoltà media su’ roccia pessima. Ci ritroviamo su’ un’alta torre isolata. I blocconi tremolanti della punta ci sconsigliano di andare avanti. Lo spigolo arcigno e friabile aldilà dell’abisso ce lo proibisce.
-Tornate a casa, inutili ! dice la Piramide Negra.
La Squadra Internazionale dei Mangiatori di Carne Cruda.
Passano le settimane. Continuo a lavorare, un po’ coi bambini e un po’ sulle montagne. Amici arrivano, altri partono. Capita che i primi di ottobre mi vengono a trovare Juvenal Condori, guida di Copacabana, Rodrigo Lobo di Cochabamba e un gigante russo viaggiatore di nome Artem Bilinsky. Scaliamo una via strapiombante in una nicchia piena di guano.
Osservo la tecnica di Juvenal, la forza di Rodrigo e il materiale, molto moderno per gli standard boliviani, di Artem (ha persino dei tricams e dei friends nuovi). Mi convinco che questi tre sono forti e possono trainarmi su’ per le pendici del Warawarani. Con una cena abbondante e alcune birre solletico la curiosità e attizzo le ambizioni alpinistiche dei tre.
A dire il vero non avevano molto bisogno di essere solleticati.
Prepariamo cibo ed attrezzi. Juvenal e Artem contano, distendono sul letto, ricontano, impacchettano, spacchettano, tolgono, aggiungono, completano, integrano e soppesano una quantità di ferri e arnesi sufficiente ad ancorare al suolo il missile Saturn 4 con tutti i reattori al massimo e i marziani cannibali alle calcagna. Rodrigo ed io passiamo rapidamente in padella il ch’arki, carne di lama essiccata al sole e poi salata. Questa carne cruda piace molto a tutti e quattro, e le nostre due cordate adottano cosi il nome di Squadra Internazionale dei Mangiatori di Carne Cruda. Il ch’arki sarà il nostro complemento proteinico integrante speciale per la giornata di sforzo anaerobico, almeno cosi dice Juvenal che se ne intende di alimentazione tecnica.
La mattina, dopo la paziente ricerca di un automezzo, carichiamo i nostri corpi stanchi sui sedili e tutti i nostri aggeggi tecnologici sul tetto del pulmino di Edwin Apaza. Tutti ? No…
-Tu tienes la soga azul ? chiede Rodrigo a Juvenal, guardandolo negli occhi dopo quindici minuti di strada.
-No… Tu tienes la soga azul ? chiede Juvenal a Rodrigo, aprendo gli occhi come una trota appena pescata.
Torniamo velocemente a prendere la corda blu. Edwin lo fa con piacere, contrattando il rispettivo aumento del prezzo della corsa.
A Jallywaya arriviamo con un ritardo sopportabile e una fame insopportabile. Per orgoglio, partiamo subito. Un’ora dopo, vicino ai blocchi di pietra di un’antica miniera, ammettiamo di non poterne più. Artem tira fuori merendine ed il ch’arki dallo zaino. Tagliamo col coltello una striscia di carne per ognuno di noi, dovendo assolutamente tenerne da parte per lo sforzo anaerobico di domani. E buono. Decidiamo che un pezzettino in più non potrà farci male. Mangiato il pezzettino, avvertiamo ancora un piccolo spazio vuoto nello stomaco. Riempito questo spazio, la quantità di ch’arki rimasta è diventata cosi ridicola che non ha più senso conservarla, cosi ingoiamo senza rimorso le ultime riserve strategiche proteiniche ancora prima di aver attaccato la parete.
La notte al campo della Laguna trascorre tranquilla e troppo breve.
Squilla la sveglia di Artem. Lui borbotta qualcosa in russo e torna a dormire.
Squilla la sveglia di Juvenal. Lui borbotta qualcosa in aymara e torna a dormire.
Emergiamo penosamente dal sonno e dalle tende ed usciamo a riveder le stelle. Ingoiamo un the e risaliamo il pendio morenico. Centinaia di gabbiani parlano animatamente tra di loro nella lingua dei gabbiani sulle rive del lago. Fanno un gran casino. Chi canta gli immacolati silenzi dell’alta montagna probabilmente non si è mai imbattuto in una simile conferenza di volatili.
Saliamo slegati per un largo pendio di neve gelata. Quando questo diventa canalino di neve molle, ci leghiamo. Siamo divisi in due cordate parallele secondo la stazza. Rodrigo con Juvenal e Artem con me. Nell’oscurità, superiamo vari tiri su’ campi di neve interrotti da roccette. Ci assicuriamo su dei fittoni di alluminio fabbricati artigianalmente a El Alto. Più saliamo più la pappa bianca si fa molle e bisogna scavare degli autentici crateri per sistemare gli ancoraggi.
La parete si raddrizza. Fortunatamente, la qualità della roccia migliora, passando da pessima a cattiva e diventa possibile piazzare alcuni tricam. Usciamo su una cresta dalla quale si erge uno spigolo minaccioso e verticale. Albeggia. La Squadra Internazionale dei Mangiatori di Carne Cruda esita.
Juvenal sale lo spigolo direttamente, io attraverso verso destra e lascio ad Artem il seguente canalino dalla neve farinosa. Le nostre due cordate salgono lentamente, incontrando entrambe difficili passi di misto. Viene fuori il sole. Usiamo tecniche improbabili, grattiamo la roccia coi ramponi, appendiamo le picche alle tacche e le incastriamo nelle fessure. Si tratta del moderno metodo del dry-tooling, una parola celtica che significa « l’arte di rovinare attrezzature costose scalando tiri di misto in condizioni discutibili».
Facciamo un uso copioso delle ginocchia, dei gomiti e delle terga. Ha scritto Walter Bonatti, « Per la natura stessa della montagna, l’ibrido buona roccia e buon ghiaccio non si verifica mai ». Sulla parete ovest del W., si verifica l’ibrido brutta roccia e brutto ghiaccio.
Una volta in cima Juvenal estrae con rispetto dalle profondità della giacca una bottiglia di gassosa, la più piccola sul mercato. Basta appena per bere un sorso per uno. Assaporiamo bene il sorso e ci sentiamo già più proteinici. Il panorama, che finalmente abbiamo tempo di guardare bene è splendido anche grazie alla posizione isolata della Piramide.
Ci sleghiamo e vagabondiamo sulla cresta alla ricerca dei canali del versante est. Una doppia ci porta su un terrazzane detritico. Vari canali piombano giù verso i crepacci del ghiacciaio. Ne imbocchiamo uno a caso dopo un’oculata scelta basata sul lancio di una moneta. Risulta più ripido del previsto. Traversiamo delle roccette, entriamo in un secondo canale appoggiato. La neve è pessima, questo posto è al sole dalle 6 del mattino. Ad ogni passo l’orrida sostanza bianca lambisce pericolosamente le nostre mutande.
Scesi al campo attraverso due ghiacciai e una corta ma intensa bufera di neve entriamo subito a dormire. Mi fanno male dei muscoli che non sapevo neppur di avere. Solo l’indomani cuciniamo quella che doveva essere la nostra cena. Una ricetta rivoluzionaria : pasta, purè di patate liofilizzato e miele.
[1] Ȁ Parola aymara che indica le deiezioni ovine.
foto tratte dal blog RockclimbingPenas ad esclusione dell’ultima tratta da http://www.boliviaclimbinginfo.org
Davide Vitale
Davide, classe 1991, il primo di una numerosa famiglia Italo – Belga.
Nonostante la sua giovane età ha già all’attivo un significativo numero di ascensioni tra Dolomiti, Alpi Centrali ed Cordigliera Real (Ande Boliviane).
Nel 2006 inizia la prima esperienza di volontariato in Niger; nel 2009 un anno di volontariato sociale a “El Alto”, in Bolivia, in cui lancia un progetto di microcredito per finanziare strumenti di lavoro per le mamme dei bambini della scuola, ma tornerà ancora in Bolivia, per insegnare inglese e francese a giovani ed adulti.
Nel 2011 incontra “Padre Topio” (Padre Zavatarelli, alpinista italiano e parroco della comunità di “Peñas”, piccolo villaggio ai piedi della Cordillera): per la sua ONG, “Manos Abiertas”, Davide aprirà una trentina di vie di arrampicata sulle falesie sopra il paese, realizzando una guida che illustra aspetti culturali e vie di arrampicata.
Nel 2012, accompagnando in un’ascensione alcuni ospiti della Comunità, Davide è vittima del freddo, e subisce un’amputazione della prima falange delle dita dei due piedi, ma non si arrende e qualche mese ritorna ad arrampicare riprendendo velocemente il tempo perduto.
Consolida la collaborazione con “Manos Abiertas” avviando anche un doposcuola ed il progetto “lana cotta” per dare lavoro alle donne del paese.
Davide ha vinto il Premio “Marcello Meroni” 2014 promosso dal CAI di Miliano, nella categoria “Solidarietà”.