Una lunga giornata – un viaggio solitario sulla ovest del Canin

di Piero Surace

Le giornate lunghe mi son sempre piaciute, come molti provo una qualche forma di piacere quando arrivo alla sera completamente distrutto, con le palpebre che si chiudono da sole sulla via di ritorno da una arrampicata o da una scialpinistica. Non so di preciso cosa mi attragga con tale forza verso queste esperienze, non so neanche se è importante capirlo ma sono sicuro che non sono l’unico a pensarla così.

Sciare la parete Ovest Del Kanin è un’avventura che potrebbe diventare una di quelle giornate, una giornata lunga. Già in fase di pianificazione ci si rende conto che, come usiamo dire, è un bel viaggio, a maggior ragione se fatto in totale autonomia e facendo coincidere punto di partenza e punto di arrivo.

Nel suo diario Mauro Rumez, il primo ad aver percorso con gli sci questa parete, racconta di non essere sceso fino a fondovalle in Val Resia ma di essere risalito fino a Sella Grubia per poi attraversare tutto l’altipiano che porta a Sella Bilapec o Sella Ursic per raggiungere Sella Nevea. È facile immaginare che le pagine scritte da Rumez le ho consumate a forza di sfogliarle, d’altronde Rumez era un triestino come me e pioniere dello sci ripido.

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La scelta di ripercorrere le sue orme è stata resa particolarmente facile dall’estetica della parete: entrare in Val Resia senza accorgersi della Ovest è impossibile come è impossibile non innamorarsene. Sbam, ti si para di fronte, bellissima e attorniata da pareti bellissime, in una valle incantevole. Decido di partire un sabato mattina da  Sella Nevea con relativa calma. Alle 7:30 ho le pelli sotto gli sci e inizio la risalita verso il Rifugio Gilberti pianificando di proseguire verso Sella Ursic. In mia casuale compagnia c’è Giorgio, scialpinista udinese appena conosciuto e anche lui alle prese con un avventura solitaria. Curioso condividere una parte della salita con un altro che ha deciso di andare per i fatti suoi, al suo ritmo e con le sue autonome scelte. Sul momento le chiacchiere che facciamo non mi fanno pensare più di tanto alla particolarità di questo breve incontro. Le nostre strade si dividono in Sella Ursic e proseguo da solo verso l’attacco della ferrata Divisione Julia, la risalgo interamente e mi ritrovo sulla estetica cresta del monte Kanin.

Le giornate lunghe non richiedono fretta e la fretta in quel momento non la contemplo minimamente: nulla mi vieta di stappare una birretta in cima, il tempo non mi manca e spero che col passare del tempo la neve si trasformi quanto basta per permettermi una discesa sicura e godibile.

Piero Surace sulla ovest del Canin – foto P.Surace

Si fa l’una del pomeriggio, penso che il sole potrebbe aver già scaldato la parete. Comincio a prepararmi: chiodi in tasca, corda pronta, picca nello spallaccio, attacchini chiusi e via, dopotutto sono stufo di aspettare! Da subito mi rendo conto che le speranze di trovare neve ammorbidita dal sole sono state mal riposte ma per fortuna un minimo di crosta permette alle lamine di tenere discretamente bene. Le prime curve si fanno su una pendenza costante e decisa, da metà in poi diventa meno ripido e da qui anche la neve inizia a perdonare qualcosa in più, il sole ha fatto il suo dovere e io posso far correre un po’ gli sci. Non ho neanche il tempo di godere per un po’ delle buone condizioni della neve che la mia discesa è temporaneamente finita.

Per ripercorrere i passi di Rumez devo scendere con una calata in doppia, sciare ancora qualche curva e poi lentamente rientrare verso Sella Nevea. Da quanto mi è stato riferito dovrei trovare la sosta per la calata sulla destra ed abbastanza in basso, capita però, che nelle giornate lunghe alcuni aspetti sembrino non voler girare nel verso giusto: la sosta infatti non si fa trovare. Poco male, mi accontento di un solido spuntone e inizio a calarmi con gli sci in spalla. Mi dico che “kevlarino” da 5 e una ghiera in vita saranno sufficienti, sono sicuro di non essere l’unico a propendere per uno zaino leggero. Inizio a scendere ma dopo soli cinque metri di calata sento un boato sopra di me.

Riconosco il rumore e spero con tutto me stesso che la valanga non mi stia seguendo nello stesso canalino nel quale mi trovo. Ho solo il tempo di pensare a tutto questo, vengo travolto da una scarica di neve, ghiaccio e pietre.

Quanto sarà durata? Un minuto? Tre minuti? A me è sembrata un’ora.

Fortunatamente rimango appeso alla corda fino alla fine della scarica. La sosta improvvisata tiene e maledico un po’ la scelta minimale in termini di attrezzatura, sento il sangue che mi esce dalla testa e cola verso il collo, mi stupisco di quanto sono stato fortunato a non svenire. Mi dico che non è il momento per perdersi in dubbi e domande, riprendo a calarmi fino alla base della parete e dopo essermi raccapezzato in qualche modo, continuo la discesa su uno dei firn più belli mai sciati. Devo ammettere che forse questo mio giudizio è influenzato dalla gioia di essere quasi del tutto integro seppure un po’ ammaccato.

Nelle giornate lunghe si cerca l’avventura e quando si cerca l’avventura spesso la si trova, infatti il cellulare non ha linea e so che non l’avrà fino a fondo valle. Fino a lì devo arrangiarmi da solo. Mi faccio forza pensando che in fondo sto vivendo esattamente quello che cercavo, seppure con qualche imprevisto. Da quel punto la soluzione migliore sarebbe rientrare a casera Kanin e da lì puntare a malga Coot per farsi venire a prendere da qualche generoso amico in automobile o sperare in un passaggio in autostop.

Non credo di essere nelle mie migliori condizioni, ma ricordo di un vecchio sentiero che porta a Rio Runk: inizio a cercarlo ma neanche questo sentiero vuole farsi trovare, mi ritrovo in piena parete con la certezza di dover fare almeno un altra doppia, per giunta da attrezzare. Cerco invano di piantare qualche chiodo ma nessuna fessura è così generosa da accoglierne.

La ovest del Canin in un anno di “magra” visto dal Picco di Carnizza – foto S.D’Eredità

Dopo una buona mezz’ora di tentativi individuo una vaga traccia, probabilmente battuta da qualche cacciatore. Decido quindi di abbandonare il piano della calata e di seguire questo percorso che un pò faticosamente mi porta al sentiero diretto a Coritis. Percorrendo questo sentiero mi volto per osservare la linea di discesa appena abbandonata e realizzo che è stata una fortuna non essere riuscito a piantare nemmeno un chiodo in quel punto: mi trovavo espostissimo sopra uno strapiombo e con una corda sicuramente troppo corta per raggiungere la base della parete. Una bella fortuna, dico tra me e me.

Continuo nel mio faticoso percorso e finalmente raggiungo un punto coperto da linea telefonica, approfitto subito per chiamare un’amica che accetta generosamente di venirmi a prendere.

Al nostro incontro vedo il terrore nei suoi occhi, la visione che le propongo deve essere più splatter di quel che pensavo, cerco di rincuorarla sulle mie condizioni ma le mie parole non sono sufficienti: Non riesco a convincerla di non portarmi in ospedale, ha tutte le ragioni del mondo per accompagnarmi al pronto soccorso. La mia giornata lunga, o forse ormai lunghissima  si conclude con qualche punto di sutura sulla testa e questa storia da raccontare. Il giorno dopo parlo della mia disavventura a Saverio, lui mi dice che “è la valanga della montagna che ti vuole bene”. Io ascolto in silenzio, dentro di me credo sia uno strano modo per dimostrare affetto.

Appendice

Il Lato Selvaggio – Canin, parete Ovest

Nel mondo dello sci ripido tutto è capovolto. Sia perché il senso del percorso è inverso rispetto all’alpinismo (dall’alto verso il basso), sia perché i tratti salienti vanno letti al contrario. Simile è la dinamica, opposta la direzione. Lo scalatore, come lo sciatore, individua i punti deboli di un percorso. Interpreta il terreno. Individua le vie d’uscita. Nella scalata si risolvono in un passaggio, una fessura che permette di proteggersi, una cengia che evita un tratto inscalabile. Nello sci ripido, invece, le cose si fanno un po’ più complicate. Ci sono le condizioni della neve, l’interazione con in raggi solari, la temperatura dell’aria, l’umidità. L’andamento dell’inverno, dei venti, dell’innevamento e di una miriade di componenti che fanno di questa disciplina un’arte.

Ci sono discese in cui l’uscita è un’enigma. Che tiene il fiato sospeso anche al più esperto, audace e preparato degli sciatori. La ovest del Canin è, in questo senso, emblematica. Non basta avere il coraggio di affacciarsi in questo imbuto aperto a ventaglio sulla val di Resia. Bisogna andare proprio alla strozzatura dell’imbuto, nel punto dove la gravità e l’inclinazione convogliano il peso della montagna. Dove sta la porta di uscita dalla parete.

La parete ovest del Canin

Selvaggia, misteriosa, tanto evidente quanto enigmatica, la “ovest” del Canin è forse una delle pareti più ignorate e al tempo stesso ambite a seconda degli occhi che si usano per guardarla. Anonimo pendio di sassi, rocce ed erba, fasciato dalle regolari sedimentazioni calcaree, si illumina solo nei tramonti delle giornate estive. Imbuto raccapricciante e seducente quando lo si guarda nelle corte giornate invernali, ricoperto di neve tanto da farlo apparire come un unico lenzuolo se visto da lontano. Ma quel lenzuolo è sospeso sopra un salto di almeno 20 metri che separa la parete dall’ampia conca sottostante. Una parete del genere non può che stuzzicare i sogni degli sciatori del ripido. Se la parete sud del Canin Basso è certamente più attraente per la sua eleganza e continuità, la “ovest”, girata in maniera quasi altezzosa conserva tutto la sua anima selvaggia. E quel salto in fondo non fa che aumentare la curiosità.

Curiosità che nel maggio del 1991 fu tolta da un fuoriclasse assoluto del ripido: Mauro Rumez. Il 22 maggio di quell’anno, infatti, Rumez sale in vetta al Canin per la via normale ed affronta per la prima volta l’imbuto. Quando la parete si stringe mancano 20, 30 metri alla “carnizza” sottostante dove terminano le difficoltà: Rumez attrezza una doppia e risolve il passaggio. Aveva trovato la “porta”, e anche se la corda si era resa necessaria (interrompendo quindi la linearità e continuità della discesa) rimaneva una impresa notevole, di grande valore esplorativo. L’impresa di Rumez viene ripetuta 5 anni più tardi da un’altra grande figura del ripido: Luciano De Crignis. Exploit notevole quello del maestro di sci carnico, che concatena (supportato però dall’elicottero) le due pareti, ovest e sud, nella stessa giornata: 1700 metri di sciata tra i 45 e i 55 gradi in poche ore!

Non passano tanti da queste parti, come si sa. La val di Resia non spicca certo tra le mete dei “top skiers” e la nostra parete rimane affare per pochi. Passa una generazione ed emergono nuovi sciatori del livello adeguato a questa sfida: il 3 aprile del 2014, al termine di un inverno memorabile, Andrea Fusari ed Enrico Mosetti si aggiudicano la seconda ripetizione, ma prima nello stile di Rumez, con salita in vetta per la normale. Ultimo in ordine di tempo (e per quanto si sappia!) il nostro Piero Surace “Pierin” che da solo si è lanciato giù dalla ovest nel 2021.

Difficilmente vedremo da queste parti frotte di specialisti affannarsi a cogliere le condizioni perfette, ammesso che esistano per una discesa del genere le cui caratteristiche sono quanto mai problematiche e legate alla quota, l’esposizione e le peculiarità di una montagna con pochi eguali come il Canin. Ma del resto non c’è da stupirsi ed in fondo va bene così. Per apprezzare una parete così riservata ed austera, che sembra quasi nascondersi, bisogna essere un po’come lei ed accettarne le regole. Solo così si potranno fare due passi “sul lato selvaggio” e cogliere il senso di un avventura che, talvolta, è difficile esprimere a parole.

Canin mt.2587 – parete Ovest

Dislivello: 700 metri

Difficoltà: 5.4, E4 (fino a 55°)

Prima discesa: Mauro Rumez, 22/05/1991

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Una speciale Trilogia nel segno di Comici

di Saverio D’Eredità

Stilare classifiche e liste è sempre un giochetto divertente seppur fine a sé stesso. Nel mondo alpinistico le raccolte più o meno note di “le 100 più belle…” (scalate, sciate, cime, traversate…l’elenco può essere lunghissimo) sono una costante e bisogna ammettere che ognuno di noi ha le sue liste segrete. Che poi, si sa, lasciano il tempo che trovano, ma dato che viviamo una passione che per metà è sogno e metà azione, quella parte di sogno va pure coltivata! Il bello delle liste è che se ne possono creare di tutti i tipi. Il brutto (ma anche il bello, su) è che non metteranno mai tutti d’accordo, e mi sembra normale. Ma c’è un tipo del tutto particolare di liste, quelle che potremmo definire “filologiche”, che sono certamente da intenditori, ma almeno abbastanza oggettive. Sono le liste che si costruiscono sulla storia, sui legami sottili tesi attraverso le epoche, i personaggi, gli stili. Richiedono conoscenze, una certa dose di gusto e anche capacità di osservazione. Se dovessi iniziare a parlare di una “Lista” di linee sciistiche di alto livello citando Emilio Comici forse qualcuno inizierebbe a non seguirmi. Non è infatti noto a tutti che proprio Comici, lo scalatore simbolo dell’epoca del sesto grado, fosse anche un altrettanto appassionato esploratore di salite su neve e ghiaccio. Le Alpi Orientali, si sa, non sono il terreno ideale per questo genere di salite, eppure una caratteristica propria delle Dolomiti e delle Giulie sono proprio i grandi canaloni nevosi. Cupi e incassati tra le pareti, spesso interrotti da salti “misteriosi” in quanto imprevedibili e soggetti all’andamento delle stagioni, i canali dell’est hanno caratteristiche peculiari rispetto a quelli dell’ovest. Soprattutto, sono linee “naturali” e per questo non possono che attrarre l’insaziabile occhio dei cacciatori di linee. Tanto di salita quanto di discesa.

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La curva del Gasex

di Saverio D’Eredità

Si dice che l’avventura inizi sempre “un po’più in là”, oltre quella che un termine piuttosto abusato e dal sapore di marketing chiama la “zona di comfort.” Sinceramente non ho mai capito cosa sia questa zona di comfort né ho speso del tempo a definirla. Se dovessi proprio rifletterci, dovrei dire che ci sono situazioni piuttosto comuni (tipo passeggiare in un centro commerciale o cercare l’auto nei parcheggi sotterranei) in cui sento di trovarmi ben al di là della mia “zona di comfort”. Però è un po’triste come cosa, per farne un’avventura.

Il tubo del Gasex spunta dalla neve come il boccaglio di un sub dall’acqua e passandoci vicino mi chiedo se sono ancora nei margini della mia zona di comfort, su questo pendio circondato da impalcature, seggiovie e con l’“unz-unz” di sottofondo che sale dagli altoparlanti degli impianti. A giudicare dal numero di volte che mi fermo per valutare la pendenza dovrei ammettere che non è esattamente così. Strano monte, eh, il Forato. Come tante cime del Canin non brilla per eleganza o bellezza, con quella sua forma a parallelepipedo e le forme ingombranti. Pare un lavoro lasciato a metà o un rudere dimenticato. Come tante cime del Canin, però, offre angolazioni stupefacenti dalle quali appare affilato e persino leggero. Una bellezza sempre un po’controversa, quella del Canin, dove è la somma delle parti, più che il singolo scorcio, a fare impressione. Soprattutto quando l’inverno qui si fa paziente artigiano, operando stucchi e decorazioni, rendendo le anonime stratificazioni e i profili spigolosi incredibilmente vari, affascinanti e misteriosi.

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In tutto questo, però, il povero Forato se la passa sempre un po’ male, quasi si fossero messi d’impegno ad imbruttirlo. Grovigli di cavi, piloni, sbancamenti circondano e avviluppano ogni versante. Dimenticavo, in cima c’è anche uno strano bussolotto che sembra una stazione lunare e qua e là se ci fai caso spuntano vecchi ferri ritorti della guerra e fili spinati. Non si direbbe proprio una montagna dove vivere grandi avventure. Eppure, non c’è una volta delle tante in cui ci sono salito che non mi sia trovato, anche solo per una breve parentesi, a passare quella soglia che divide l’abitudinario dall’ignoto. Come ad esempio sulla curva del Gasex. Bisogna ammettere che se non ci fosse questo brutto tubo di metallo, la pala est del Forato passerebbe quasi inosservata. Non così lunga da fare veramente impressione e non così ripida da solleticare sciatori di livello. Eppure quel tubo, piantato lì in mezzo, pare star lì apposta per disegnarci una curva attorno. A segnare il confine dell’avventura a pochi passi dal mondo conosciuto.

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Da bambino mi spaventava il blu profondo del mare. Dalla spiaggia di ciottoli potevo vedere le varie gradazioni di azzurro scurirsi via via da quello più chiaro e trasparente della riva, fino al nero del mare alto. Ad una distanza che non riuscivo mai a stimare, emergeva dalle acque una strana struttura, una specie ragno di cemento e acciaio a quattro zampe corroso dalla salsedine e dal vento. Mi sembrava che il mare lì fosse più cattivo e nero. Persino più lontano. Ma forse era proprio quello strano scheletro tappezzato di alghe e mitili, a farmi paura. A dare una dimensione alla profondità del mare. Ogni volta che arrivavo lì, deciso a nuotare nel mare nero, succedeva qualcosa che mi ricacciava indietro. Un giorno, infine, decisi di passarci attraverso. Potevo aggirarlo o nuotare in un’altra direzione, è vero, ma il mare alto, il mare nero, iniziava lì. Per farmi forza presi a battere forte i piedi ed infine mi immersi a pelo d’acqua, cercando di contrastare la corrente. Appena sotto la superfice l’acqua era calma e ferma. Piccoli pesci brucavano le alghe appese al palo di cemento e tutto era silenzio. Riemersi appena oltre, nel mare alto e nero, oltre il confine della paura e di un tempo che mi parve infinito. La riva chiassosa di mamme e bambini non era che a poche bracciate da lì.

Inforco gli sci sulla lunga dorsale della cima e mi avvicino al bordo. Attraverso le punte, posso vedere il profilo del gasex e intuire l’inclinazione del pendio, come quel ragno di cemento mi dava la profondità del mare. Come quella volta, devo passarci attraverso. Se dovessi pensare alle altre volte che sono sceso di qua, alla neve cotta a puntino e al fatto che – in fin dei conti – non sono che poche curve dovrei sentirmi all’interno della mia zona di comfort. Anche meglio di un parcheggio sotterraneo. Eppure la curva del gasex riesce a smontare una ad una le mie certezze, i precedenti e il senso di controllo. Non sto più contando le volte in cui questa scena si è già ripetuta, né ricordando come avevo fatto la prima curva l’ultima volta, che traiettoria avevo preso o se posso distinguere le voci degli sciatori, l’unz-unz degli altoparlanti e l’odore di fritto. L’avventura è come un varco aperto d’improvviso in un mondo parallelo. Puoi decidere di entrarci o meno, e con quali regole. Soprattutto, l’avventura inizia nel momento in cui le nostre certezze vengono meno e affiorano le domande più elementari. Quando iniziamo a dare un valore alle cose. Quando tutto è di nuovo in discussione. E ci riappropriamo di una parte di noi.

Salendo al Forato: alla nostra destra, il tubo del Gasex – foto Melania Lunazzi

Dove la città finisce

di Saverio D’Eredità

Certo che è una cosa strana, la neve. Perché per metà sicuramente è scienza, qualcosa che trovi in certi libri che lo spiegano, ma che io non sono mai riuscito a leggere, o capire. Però per l’altra metà è un qualcosa che sfugge. I più romantici ti dicono che è il mistero della Natura, altri che in verità basta studiare di più, ma io sostengo che sia fondamentalmente culo. Certo, ci sarà qualcuno che ti verrà a spiegare che quello che tu chiami culo in realtà è sapiente dosaggio di osservazione, esperienza e memoria. Però nulla mi toglie dalla testa che una percentuale – che può anche essere minima – è culo. Oppure un senso di cui non abbiamo consapevolezza, ma che alla prova dei fatti funziona. Un po’come intuire il momento in cui scolare la pasta.

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Una cosa stupida

di Saverio D’Eredità

Palline.
Palline che sfrecciano e si srotolano a raggiera sul pendio, intrecciandosi e disperdendosi, senz’altra meta se non il nulla.
“Qua mi pare ripido”
“Già”
“Ma ripido tipo Huda Palica o meno?”
“Tipo. Forse di più”
Perché per noi l’Huda è un po’il riferimento per tutte le discese un po’più incazzate. C’è un “più del Huda” e un “meno del Huda” e attorno a questo asse valutiamo le nostre capacità e ambizioni.
Intanto, palline.
Palline che partono da sotto i miei scarponi, lanciandosi verso l’imbuto del canale e svanendo in questo latte freddo, come non fossero mai esistite.
Una volta di qua rotolavano corpi di uomini, uccisi per un motivo tanto inafferrabile quanto invece tangibile era la paura nei loro cuori. Avrei dovuto pensare a questo, durante questa lunga ora accovacciato dentro la cornice della forcella, che come un’onda gelata ci sovrasta ed avvolge.

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La pattuglia acrobatica/atto I: prima discesa con gli sci della Gola Nord della Veunza per Cecon, Limongi e Mosetti

di Saverio D’Eredità

“Impossibile non sia stata ancora sciata!”

Ogni qualvolta mi capita di passare dalle parti di Fusine ed osservare quella vena bianca che fila sinuosa nel ventre della Veunza, mi faccio sempre la stessa domanda. Per una generazione che si muove nel “post-tutto”, il rischio è che anche quell’immaginazione che un tempo doveva andare al potere possa inaridirsi. Eppure la domanda tornava costante “E se ancora non fosse stata sciata”?

Incassato tra le pareti della Strugova e della Veunza, questo canale noto come “Gola Nord della Veunza” (in realtà l’apice del canale è la Forca di Fusine, passaggio sulla grande cresta Ponze-Mangart) è pressoché invisibile nella sua interezza da qualunque angolazione lo si osservi. La vena, sinuosa, appare da lontano solo per un breve tratto della sezione superiore, salvo essere “inghiottita” alla vista dalle pareti che vi si ripiegano attorno. Nemmeno andandovi alla base, al culmine del bel conoide della Strugova, è chiaro esattamente se questo canale abbiamo o meno continuità: bisogna dunque entrarci per scoprire che un “muro” di circa trenta metri si pone a difesa di questa linea che ha tutto per essere “ideale” ma che nella migliore tradizione giuliana riserva sempre qualche sorpresa.

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The Pink Punk Donkey – Una storia d’amore

di Saverio D’Eredità

La notizia, già rimbalzata prima tramite social quindi ripresa dai giornali locali, è ormai nota. A 30 anni dalla prima discesa di Rumez e Gardossi, la parete Nord del Nabois è stata nuovamente scesa con gli sci da due specialisti del ripido, Enrico Mosetti e Zeno Cecon.

La Nord del Nabois non è propriamente quella che diremmo una parete sciabile. Qui una linea va inventata più che cercata, congiungendo effimeri pendii nevosi sospesi come lenzuola ad un balcone di mille e passa metri sopra la Val Saisera. Una nord molto particolare, come i profili di questa montagna ingombrante ed orgogliosa che come uno scudo si frappone tra i boschi della Saisera e le nobili pareti del Fuart. L’inclinazione è sfuggente e progressiva, la neve fatica ad incollarsi tanto da creare dei corridoi sciabili. Eppure, con un battito d’ala che si verifica poche volte in un decennio o forse un paio di decenni, le condizioni si ripresentano, anche se parlare di condizioni è quasi eufemistico in casi come questo dove, più che quelle della parete servono le doti visionarie di sciatori appartenenti ad un’altra concezione dello sci stesso. Continua a leggere