Una o due cose, sullo Stenar

di Saverio D’Eredità

Io sullo Stenar volevo dire una cosa o due al massimo. Che ovviamente è una montagna molto bella e se vista dal Triglav molto elegante e anche il Triglav visto dallo Stenar è meraviglioso e quindi mi immagino i due, Stenar e Triglav, che ogni mattina si fanno i complimenti l’un l’altro di quanto stanno bene. Che lo Stenar è anche una delle pochissime cime delle Giulie che puoi partirci con gli sci diretto dalla cima, almeno per noi sciatori senza qualità e fantasia, e che sembra fatto apposta quel pendio che ogni curva fai un inchino al Triglav.

Volevo dire una cosa, ma anche due in effetti, sullo Stenar, che ogni volta che ci penso o me lo chiedono, metto una faccia tipo vecchio lupo di mare che ha cacciato nelle baleniere giapponesi e dice “Ah, lo Stenar” tipo “ah! Il mare di Barents!” perché con lo Stenar c’ho avuto delle storie complicate. Di quella volta che sono salito a giugno che pareva marzo e la neve in vita e un freddo cane (quindi sarebbe un’invernale, di fatto). O di quando poco sotto la cima ci siamo fermati un momento a metter su la giacca che tirava vento e il Batti si è girato a pisciare e un colpo di vento lo ha prima messo in ginocchio e poi sbattuto per terra con la faccia nella neve e il coso pure. E un secondo dopo è arrivata una nube nera tipo Mordor e ci siamo rintanati in una dolina che sta proprio alla fine del traverso prima della cima. La nube ci ha letteralmente inghiottiti per mezzora, tanto che a un certo punto ci siamo detti e “mo che cazzo facciamo”.

Che lo Stenar quella volta, quella dopo Mordor e il Batti a faccia in giù, siamo scappati giù per la Sovatna e il vallone era una ghisa mortale e io la ghisa (ghisa: dicesi di neve talmente dura da non essere scalfibile manco dalla fresa) non la so sciare e allora a metà vallone ho fatto un numero da equilibrista per togliere gli sci mettere i ramponi e non perdere nulla – da quella volta lo Stenar è tipo un archetipo della gita sfigata, nel nostro immaginario.

Che lo Stenar, un’altra volta, c’era una nebbia, ma una nebbia, di quelle che ti ribalti da solo da fermo. E quindi in cima che ci andiamo a fare.

Insomma, sullo Stenar altro che due cose: mille ce ne sarebbero, ma ne voglio dire una. Che però riguarda anche tante altre montagne delle Giulie e slovene in primis che ovviamente sono superiori a tutte le altre (del mondo, che discorsi) perché a un certo punto basta con questi giudizi ponderati, basta moderazione e un sano arrogantissimo localismo mi fa bene, specie ora che si apre la stagione del “si potrebbe andare 3 giorni a…” e non si fa nulla anche quest’anno.

E quindi, vi dico, dove le trovate montagne dove potete sciare tutti e dico tutti i tipi di neve possibile? Si, non dico in un giorno con gli impianti, ma proprio sullo stesso monte! Che c’abbiamo avuto la neve arata, la neve arata, ma senza fondo, la neve cartonata e al tempo stesso ventata portante (nello stesso raggio di curva intendo), e poi la pistata e poi ancora la farina pesante e quella meno pesante. Poi la trasformata (2 o 3 secondi mi pare) e il firn (un momento proprio). E poi il cemento “sablè” diciamo (accogliamo quindi la neve sabbiata nel nostro gergo, ci darà tante gioie nel futuro mondo climaticamente impazzito che non avete idea), che è insciabile secondo me. E poi la polvere. Polvere vera, altro che gennaio, polvere per 100, 150 metri che stai già pensando come alzare la cresta poi con gli amici e invece – sbam! – crosta. Crosta portante. Indefinito. Indefinito portante un po’indurito. Gesso. Gesso mollato. Pappetta. Caffè shakerato (non ve l’aspettavate eh?) che è diverso da granita al caffè immediatamente successiva (il caffè è la sabbia di cui sopra inumidita). Poi panna. Panna con mugo sotto a rischio risucchio. Bagnata. Ghiaione.

Ecco, io volevo giusto dire una cosa sullo Stenar, ma in generale sulle montagne, queste montagne. Che quando torni giù (dove lo trovi un bosco di faggi centenari ti accompagna al prato dell’Aljazev dom, in un turbinio di neve che pare polistirolo?) con sci in spalla, scarponi pure e pantaloni arrotolati sotto al ginocchio ti sembra di portare un mondo intero sulle spalle. Vite intere. Universi interi. Che tutte quelle curve diverse, il cambiare assetto e posture e sguardi sono tutte un allenamento alla vita. Al non darsi per scontati ed essere preparati. A non aspettarsi niente e lasciarsi sorprendere da tutto e ad ogni istante. Questo andrebbe insegnato, questo andrebbe tramandato. Bisognerebbe sciare anche solo per questo. Per realizzare che non andiamo lì per prendere qualcosa, per consumare qualcosa. Ma per guadagnare qualcosa, per imparare qualcosa. Questo volevo dire, ora, mentre mi accorgo dopo anni che tutto sommato sto sentiero non è nemmeno così infame e io non so nemmeno così stanco. Cioè che mettendo da parte la perfezione, se si rinuncia alla perfezione (di una montagna, della neve, delle condizioni o della prestazione: traducete pure tutto questo nelle cose di ogni giorno), paradossalmente alla perfezione ci si avvicina di più. Alla completezza dell’esperienza. Che è ciò, in definitiva, che più conta.

Una o due cose volevo dire e invece, scusate, ne ho trovate mille.

Stenar mt.2501

Montagna elegante che fronteggia sul lato destro della Vrata, l’immensa muraglia del Triglav. Certamente il suo maggior pregio è la vista che spazia dalle Caravanche alla Val Trenta, dal Triglav al Razor. Inoltre, è meta scialpinistica di pregio, se non altro perchè tra le cime maggiori delle Giulie tra le poche sciabili direttamente dalla sommità. Due i percorsi possibili, entrambi dall’Alijazev Dom, eventualmente anche ad anello.

Da Nord-Est

Si prende dalla spianata antistante il rifugio il sentiero per Bivak 4 e Skrlatica. Risalire un fitto bosco di faggi sempre piuttosto ripido (normalmente poco sciabile o non sciabile per mancanza di neve a primavera), fin sotto una fascia rocciosa che si aggira a sinistra salendo poi per larici e mughete ad un ampio pendio sotto la notevole parete nord est. Si piega prima a destra poi, sotto una fascia rocciosa, a sinistra entrando nell’evidente vallone che conduce alla Stenarska Vratica, selletta tra Stenar e Kriz. Gli ultimi 50 metri sono più ripidi (45°). Dalla selletta traversare a sinistra prima in orizzontale poi in leggera salita ad una spalla, contraddistinta da una profonda dolina. Liberamente per ampio pendio di moderata pendenza (max 35°) in vetta (ore 4).

Da Sud ovest

Dall’Alijazev Dom si prosegue lungo il fondovalle (direzione Triglav/Luknja) e a un bivio segnalato (Pogacnikov Dom) si sale per una faggetta sulla destra. Usciti in campo aperto (resti di valanghe) si risale il largo e ripido vallone di Sovatna, fiancheggiati dalle pareti del Bovksi Gamsovec e del Pihavec a sx e dello Stenar a destra. In cima al vallone si accede all’affascinante altipiano del Kriski Podi. Si percorre in falso piano l’ampia insellatura verso ovest, quindi, in vista della pala sommitale si piega a destra salendo in direzione della Stenarska Vratica dove ci si ricongiunge all’itinerario da Nord Est e quindi in cima (stesso tempo)

Per entrambi gli itinerari il dislivello è 1500 metri.

Difficoltà: 3.3/E2

Il fuoco e la neve

di Saverio D’Eredità

Avevo salito il canalone nord del Siera esattamente dieci anni fa, al termine del mese di febbraio più memorabile che si ricordi e poco dopo aver saputo che aspettavamo Francesca. Questo canale, lineare e ben visibile in tutta la sua traiettoria quando si scollina a Cima Sappada, è senza dubbio tra quelli esteticamente più belli in Carniche, immancabile nel carnet dello scialpinista. Non troppo difficile, nemmeno banale, imbattibile dal punto di vista ambientale ed estetico: aperto perfettamente tra il corpo principale del Siera e del suo fratello “Piccolo”, mostra una forma regolare che dal conoide finale man mano si stringe fino all’acuta e spesso invalicabile forcella. Aggiungeteci il fatto che, quando si sbuca dal canale, si plana letteralmente sulle piste di Sappada e gli ingredienti di una sciata ideale ci sono tutti.

L’avevo percorso 10 anni fa, dicevo, ed in un certo senso è stato come tornare a chiudere la linea di un cerchio. Venti anni prima, infatti, mettevo per la prima volta gli sci sui campetti di Cima Sappada e poi sulle piste del Siera e quel canale ce l’avevo sempre davanti agli occhi: nei momenti in seggiovia – spesso da solo – che erano rilassanti solo in parte perché le partenze e gli arrivi mettevano a dura prova la mia goffaggine. Era davanti agli occhi – spesso distratti – mentre aspettavo di eseguire gli esercizi impartiti dal Maestro – il “baffone” con gli occhiali a specchio sempre con la battuta tagliente e vagamente razzista sulla bocca (ah, cosa si direbbe oggi!). Era sempre lì. E io ero sempre a terra. A maledire tutto, ma non lo sci. Sentivo, nello sci, qualcosa di implacabile ma onesto. Che non potevo che rispettare, pur subendolo.

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Dopo la discesa del canale scrissi qualcosa che voleva essere un po’ l’epilogo di una storia di riscatto, in un certo senso Tre Storie – di neve, di sci e di quella strana, insolita, grazia Uno schema classico: il brutto anatroccolo insegna. Fatto il canale, tradotte in parole le sensazioni, come immaginavo non ci sono più tornato. Coincidenze, scelte, piccole ritualità. Quando chiudiamo i conti con qualcosa, mettiamo tutto in una scatola che ficchiamo da qualche parte senza sapere dove ritrovarla. Sappiamo che c’è ma non si sa dove. Chiudiamo i conti, talvolta, semplicemente per non pensarci più.

Risalgo la pista, indurita dal rigelo notturno, mentre man mano il cielo schiarisce e lascia intuire meglio la spolverata notturna. Il Siera ha dalla sua una certa eleganza, non bilanciata però da altre peculiarità che ne farebbero una montagna di prestigio. Le pareti rotte da canali, colatoi, inframmezzati da cenge e pulpiti la rendono disomogenea e poco attraente. Ma quando si spolvera anche solo leggermente diventa d’improvviso seriosa e al tempo stesso conturbante. Transito vicino al Rifugio Siera e costeggio lo skilift, forse in cerca di quei ricordi di ormai trent’anni fa. Certo che la pista è davvero poco pendente, rifletto, poco più di un campetto. Eppure quella volta mi pareva ripidissima. Dove è finito tutto questo? Quella volta che caddi poco prima della fine dello skilift sotto gli occhi divertiti e sarcastici dei compagni, la solita invettiva del Maestro contro la mia incapacità, il piumino verde, gli occhiali appannati, tutto quel mondo ostile, dove si trovano tutte queste immagini adesso? Sono in quella scatola chiusa e messa da qualche parte?

Svolto e punto verso il conoide, sorpreso o forse deluso che di tutte queste sensazioni non rimanga più nulla. Si devono chiudere i conti per arrivare a questo? A questa specie di stasi, di annullamento delle emozioni? Probabilmente è questo quello cui tendiamo. Stare sereni. Stare in pace con il mondo. Deporre le armi e lasciarsi trascinare dalla corrente. È tutto così normale, ora. No alarm/No surprises.

Dove è finito l’occhiale a specchio del Maestro, dove sono le risate di scherno, quel sentirsi soli, esclusi, inadeguati? “E cosa ci fa uno di Palermo sulla neve?”. Quanto hanno pesato queste cose nello sviluppo di una mia identità, quanto nelle mie scelte, quanto nei miei errori? Immagino tutti questi frammenti inabissarsi in un fondale indistinto e opaco, perdere forma e sostanza, non essere che immagini e poi nemmeno quelle. Come i ricordi di Riley in Inside-Out e il suo elefante rosa. Dove saranno ora?

Arriva un punto, risalendo un canalone di neve, in cui tutti sanno che bisogna fermarsi, staccare gli sci e caricarseli in spalla. Comincia il battere traccia. È uno dei momenti che preferisco, anche se non dovrei dirlo che se no la prossima volta mandano avanti me – anche se ci andrei lo stesso. C’è un che di meditativo e al tempo stesso devoto, nell’atto di aprirsi la traccia nella neve. Nel percepire la diversa consistenza della neve, nello scegliere la traiettoria, nel suono cavo del cuore che batte. Il tempo si contrae e dilata a seconda dell’incidere dei passi. Si penetra una dimensione mentale fluttuante per il tramite di una fatica fisica orrenda. Qualcosa che avvicina alle pratiche del misticismo orientale. Io ho invece solo la sensazione di meritarmi davvero qualcosa di questo mondo. Aprendo traccia nella neve. Ansimando in un canale buio alle prime ore del mattino. Devozione e riconoscenza.

Dentro il canalone del Siera – foto S.D’Eredità

Dopo un tratto incassato, in cui i piccoli scaricamenti ci passano sulla testa senza toccarci, il canale si apre leggermente, là dove si intravvede la fine. La differente consistenza del mio passo ci arresta. Ci guardiamo un secondo e senza che si debba dire altro ci fermiamo, scaviamo un piccolo ripiano, poggiamo gli zaini e ci prepariamo a scendere. È bastato un minimo dubbio, il passo diverso, lo sfarinamento della neve che cambia suono, per farci invertire la rotta. Da cosa viene tutto questo? Da quale coscienza collettiva, da quale substrato di esperienze? Lo abbiamo attinto da quel fondale dove si sono sedimentati i ricordi, le paure, le emozioni? La rinuncia non pesa. È un atto dovuto. Riconciliazione. Sarebbe stato così anche dieci anni fa?

Le procedure prendono più tempo del solito, non sono tra i più abili nei cambi assetto e vedo i compagni già pronti. Sarà una bella sciata, questo 30 centimetri di polvere ce li siamo guadagnati. E’ sempre stato così o lo siamo diventati? Qualche volta penso che accumuliamo esperienze per farne sempre meno. Praticamente miglioriamo non per andare avanti, ma per tornare indietro. La cosa strana è che non è stata la paura. Nessuno di noi ha avuto veramente paura. Era solo ciò che andava fatto. Conservazione della specie. Forse è questo che in definitiva orienta i nostri gesti, i nostri pensieri. Andare avanti, per tornare indietro. Riportare indietro qualcosa. Il fuoco.

Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

(La Strada – di Cormac McCarthy)

Risalita a Forcella Rinsen – foto C.Betetto

Alcuni giorni fa ho sciato una mattinata in pista con Francesca e Graziella. Era la prima volta che sciavo insieme a mia figlia per davvero e non sui tappetini dei campi scuola. È stata in una di quelle mattine serene di sole e di pace, che possono accadere anche in uno normale comprensorio sciistico e senza per forza cercare l’intensità della fatica o il piacere del tracciare pendii. Si prende la seggiovia, si guarda attorno, si scia lenti ad aspettarsi. Qualche consiglio normalmente inutile o inascoltato, le brevi soste per decidere quale bivio prendere. Il panino a fine giornata. Quelle giornate in cui ti rimetti in linea, in cui non cerchi niente più che un paio d’ore di sole e di leggerezza e mi rendo conto che difficilmente ci accontentiamo di questo. Ma sappiamo anche che non esisterebbe l’una senza l’altra.

Abbiamo fatto tutte le piste blu anche più volte – del resto, lo Zoncolan non è che offra chilometri di piste ma almeno sono facili e la mattina c’è il sole – qualche stradina, un paio di saltini. Verso la fine delle ore di skipass, dondolando in seggiovia verso il “cubo” in cima ho notato come la “2” fosse pressoché deserta. “Potremmo fare questa, Franci, cosa dici” le ho chiesto già sapendo che avrebbe detto di no. Non insistere. Non imporre. Non proiettare la tua immagine sui tuoi figli. Non fare realizzare a loro i tuoi desideri. Esegui. Conduci. Non voltarti indietro. Ho sempre cercato di ripetermi questi comandamenti, che non credo si trovino in nessun decalogo per padri o in corsi di genitorialità. Io devo andare avanti. Devo solo aprire la strada. Saranno loro a percorrerla, se vorranno.

“E’ una rossa?”

“Sì, ma è larga, non è difficile. È come una blu solo più lunga”

Francesca guarda sotto, mentre da un pilone all’altro fuggiamo verso il cielo.

“Va bene, facciamo questa”

Quindi inizia tutto di nuovo così? Nuovamente una seggiovia, una linea, una traccia lasciata nella neve?Silenzio. Alzo la sbarra, una spinta, scendiamo.

Dopo alcune curve facili, arriva il primo muretto. Mi volto a guardarla mentre punta i bastoncini, si abbassa, imposta la curva sulla base del suo piccolo bagaglio di esperienze. Acquisisce una postura. Interagisce con il mondo. Capisco che non posso fare nulla. Non devo fare più nulla.

Posso solo andare avanti. La neve di mezzogiorno è pesante, piccoli mucchietti costellano la pista come i buchi delle talpe. La sciata diventa faticosa.

“Segui la mia traccia, Franci: scia dove passo io così porto via un po’di neve ed è più facile”.

Non posso insegnare. Non devo insegnare. Io posso solo aprire una strada. Educare. E-ducere: trarre fuori. Allevare. Questo è il mio ruolo. Questa la mia missione. Il fuoco. Devo tenere acceso il fuoco. Dopo altre tre curve mi fermo. Non segue le mie tracce, ma percorre una sua linea. Si ferma, fa fatica. Ogni tanto spazzaneve. Non cade. Persiste. Mi sembra di intravvedere, nella sua cocciuta ostinazione (nel fallire, nel riuscire, nel provare) un piccolo filamento del mio DNA. Ero anche io così? Per questo sono ancora qui? Origine della specie.

Procediamo di muretto in muretto, ora fermandoci. Ogni tanto affiorano i nervi e la stanchezza. Ma siamo due mondi, due universi separati. Io non posso entrare nel suo, posso solo assecondarne la forza. Lo sci è solitudine. Mi allontano appena in tempo da un piccolo pianto, proseguo sulla mia linea, ogni tre curve mi fermo. Dove finirà questo momento in lei? Dove finiranno questi ricordi, si faranno opachi, un giorno forse non le diranno più niente. Sarò ai suoi occhi quello che fu per me il baffuto e sarcastico maestro sappadino? O un padre egoista che pretende dai figli ciò che lui non è riuscito a fare? Che compensa su di essi le proprie mancanze? Evoluzione della specie.

Ci sono giorni in cui – più di altri – realizzi cosa vuol dire essere padre. Questo è uno di quei giorni. La guardo scendere ora sulla mia traccia, ora aprendo la sua e penso solo che siamo qui perché mi ha chiesto lei di portarla a sciare. Perché è voluta scendere per la 2, anche se era rossa. Perché è iniziato tutto di nuovo.

Sciando il conoide alla fine del canalone – foto C.Betetto

Qualche giorno fa ho trovato un commento di Francesca alla “Pasqua” di Guido Gozzano “se c’è la vita, c’è l’impossibile”. Questa strana frase mi è risuonata in testa per giorni, e ad ogni passo mentre salivamo il canalone. E’ questo dunque, il senso del fuoco, il senso della neve?

Si arriva ad un certo punto – a quel punto, quello in cui ti fermi guardi il compagno e semplicemente scendi – proprio perché lo scopo in noi è un altro. È mettere a frutto tutto quello che siamo stati. Issarci su quel fondale nebuloso dove sono precipitati i ricordi senza che questi ci portino in giù. Abbiamo sperimentato il limite. Siamo le nostre esperienze. Siamo il fuoco che deve passare attraverso di noi. Siamo il desiderio di aprire quella traccia di nuovo. Siamo l’impossibile.

Salendo il canalone del Siera, inverno 2014

Pompelmo

di Saverio D’Eredità

Get what you give dei New Radicals è quel genere di canzone che appena parte ti viene subito da alzare il volume. E’il pezzo perfetto per ogni genere di compilation, in qualunque punto tu la piazzi ti fa svoltare. Una canzone pop-rock pulita ed onesta, ottimista anche se un po’ ruffiana con un tocco di sfrontatezza. Get what you give era il brano di apertura della prima compilation che avevo fatto per Graziella ai tempi. Già. Ai tempi.

Non so perché mi viene in mente questa canzone adesso, fermo sugli sci che guardo Luca accingersi a far la prima curva e – ne sono abbastanza certo – prossimo a farla piuttosto male. Tanto io farò uguale se non peggio e almeno stavolta la colpa non è solo nostra, ma di questa neve orrenda, un po’crosta e un po’pappa che devi essere bravo, ma bravo bravo, a sciarci in modo che non si veda quanto fa schifo. E non è il nostro caso.

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Solitudine

di Saverio D’Eredità

Vedi, se dovessi dirtelo con una parola, ti direi che lo sci è solitudine. Ma non per l’ambiente, la montagna, la neve e quelle cose lì. No, io dico proprio una solitudine profonda, radicale. E’ qualcosa che ti porti dentro sempre, dall’inizio. Ha l’odore dei baracchini fumanti di salsiccia e cipolle e il suono della musica incalzante che esce dalle casse. Quella solitudine sa di maglietta sudata, di lana che pizzica attaccata al fondoschiena, sa di unghie rotte mentre cerchi di chiudere gli scarponi. Gli occhiali appannati. Quella solitudine si riflette nelle maschere a specchio oltre le quali cerchi uno sguardo di comprensione o almeno conforto, mentre ti aggiri smarrito in un campetto nella folla assordante. 

E’ una solitudine strana, quella dello sci. E’ la solitudine dello straniero in terra straniera, che passa attraverso la folla che passa. Sei solo nelle cadute a bordo pista, che ti dimeni scomposto mentre cerchi di rialzarti e ti senti solo un mostro con zampe lunghe e rigide e i piedi bloccati in delle ganasce infernali. Sei solo nella seggiovia dondolante, che guardi le punte degli sci e ascolti i discorsi stupidi di chi ti sta accanto e pensi che nessuno ti potrà aiutare, nessuno potrà capirti. A parte, forse, proprio gli sci. O quando sei l’ultimo della fila e inizi a scendere sotto gli sguardi di derisione di tutti, e il mondo è un luogo ostile, la Natura indifferente e tu sai che stai per cadere.

Ho trovato questa solitudine in tanti posti, in tante giornate, potrei dirti in tutte. Nello scendere un bosco sul finire del giorno, e ogni curva in discesa era un ponte tagliato con il ritorno. Nell’aprire una traccia nella neve fresca, in tutti gli innumerevoli, impercettibili, determinanti scelte che sei portato a fare e che potranno determinare la prossima curva, l’intera giornata o forse il tuo destino. 

Non è una cosa che ti passa con il tempo, la solitudine, o perché diventi magari più bravo o smetti di cadere. No, io la sento sempre, la sento anche oggi in questo canalone tanto lungo che non se ne vede il fondo. La sento anche se davanti c’è Andrea ad aprire traccia. Scendiamo il canale mantenendo una distanza di sicurezza. C’è un punto in cui si stringe e se ti affacci non riesce a vedere sotto. Mentre aspetto che si metta in un posto sicuro sento di nuovo quella solitudine del campetto e dei baracchini con la salsiccia. Osservo le punte degli sci proiettate verso l’imbuto del canale e sono sempre quello di 30 anni fa, ultimo in fondo alla fila. E penso che in questa solitudine non hai nient’altro che i tuoi sci.

Niente c’è, di più solo dello sci. Perché la curva è tua e tua soltanto. Tua è la traiettoria, la scelta del movimento e del tempo, del peso e dello spazio. Tu dirai, bè non è mica solo lo sci così. Eppure io non conosco nulla che restituisca questa pienezza, questa totalità e che tutto ciò si origini dalla più profonda solitudine.

Ecco, se dovessi dire a mia figlia che oggi impara a sciare e segue il maestro sui campetti e cerca di rialzarsi quando cade, le direi questo. Che questa solitudine un giorno le sarà utile. La ritroverà mille volte nella vita di ogni giorno. Nelle metro affollate del mattino come in quelle svuotate della sera. La ritroverà il giorno prima di una partenza, davanti ad un foglio bianco il giorno dell’esame, nel rispondere a una domanda dalla quale dipenderà il suo futuro. Allora quella solitudine le sarà preziosa. 

Bisogna saperla abitare, la solitudine, capire che è la tua migliore alleata. Portarla gelosamente con sé, come cosa preziosa. Ricordarsi che la curva è tua e tua soltanto. Qualunque essa sia, che ti venga bene o male, perfetta o sgraziata, ma tua. Come tua è la solitudine, per definizione. Quella solitudine sarà la tua dichiarazione di indipendenza.

Il giorno della marmotta (piccolo aneddoto di zaini mangiati ed economia circolare)

di Saverio D’Eredità

Bisogna sempre concedere una seconda chance. Chiedete al mio zaino. Divorato da una famelica marmotta uscita dal letargo sotto la sud della Chianevate, sepolto sotto stratificazioni di altri zaini per quasi dieci anni con l’idea, la speranza o forse semplicemente l’indolenza nel non volermene disfare, e ora finalmente rinato. Esistono, le seconde chance, solo che il nostro modo di pensare, il nostro modello sociale, vorrei dire non le considera nemmeno. Se sbagli sei fuori, dicevano. Non hai scaricato l’aggiornamento, mi notificano. Quello è il passato, mi commentano.

Eppure non è sempre così. Prendete il mio zaino. Che ci ero affezionato, io, e non perché ci avessi fatto chissà che (anche se ha pur sempre passato tra i rovi del Selvaggio Blu) e nemmeno per chissà quali grandi qualità tecniche. Ma perché l’avevo vinto. E le cose che si vincono, come quelle che ti regalano, ecco, ci tieni di più. Non è un ragionamento economico o, se così fosse, sarebbe controintuitivo. Però se – per dire – perdo, distruggo o danneggio una cosa per cui ho speso dei soldi, più che inveire i santi, o darmi dell’imbecille posso fare poco. Ma una cosa che vinci ha un valore diverso, intangibile.

Questo zaino l ho vinto per essermi classificato (settimo, ma gli organizzatori si vede che erano di manica larga) ad un concorso letterario promosso dal gruppo Gamma, uno dei gruppi alpinistici di Lecco. Quel racconto, Polvere e spit https://rampegoni.wordpress.com/2018/09/05/polvere-e-spit/, è stato forse il mio primo racconto lungo e si è meritato questo piazzamento. Piazzamento in cui il prestigio non era tanto la posizione in sé, quanto essere stato invitato a ritirare il premio proprio a Lecco, capitale morale dell’alpinismo italiano. Insomma, vi invitano a ritirare una medaglia a San Siro voi che fate?

Ora, non ho vinto granché ai concorsi, anzi, il più delle volte manco ti dicono cosa ne pensano del tuo racconto. Figurati leggerlo, premiarti e invitarti alla cerimonia! Già mi ero preparato il discorso sul palco, qualche osservazione arguta che lasciasse intende la mia competenza alpinistica di fronte ai “top” che avrei certamente intercettato nel “foyer”, insomma era un attimo che mi sarei trovato su un volo per El Calafate. Ovviamente il film fini quando annunciarono che avrebbero chiamato a ritirare i primi tre e gli altri potevano chiedere in segreteria. Vabbè. Comunque la sorpresa di quello zaino Camp 28 L, leggero, polivalente, oggettivamente ammiccante, era valsa la trasferta. Niente biglietto per la Patagonia, ma uno zaino “comme-il-faut” per la gioia delle spalle e dei compagni abituati a robe prossime all’Invicta della scuola.

Vita breve, tuttavia. Come il Fantozzi che si vede sottrarre da Robin Hood i soldi appena ricevuti anche io posso dire “neanche 20 minuti”. A dire il vero, neanche due anni! Ma ci sono giornate che iniziano con la stella sbagliata e quella della Chianevate lo era da subito. Inizio stagione, allenamento approssimativo dopo una stagione sciistica infinita, tanta neve in avvicinamento, nuvole basse e poca convinzione. Ma, si sa, abbiamo attraversato epoche in cui avremmo attaccato qualunque via, in qualunque condizione, purchè fosse verticale. Quella giornata è comunque passata alla storia. Per una “quasi-Plote”, terminata a due tiri dalla fine in mezzo ad una nebbia viscosa. Per una discesa a doppie costellata di incastri. Per un traverso che mi è parso eterno. E per la marmotta che mi ha divorato lo zaino. Belle eh, le marmotte. Ma sappiate che rimangono pur sempre dei roditori. Dei toponi molto grassi dall’aria simpatica. Ma pur sempre topi. E quando escono dal letargo si mangerebbero pure i sassi. O la plastica. Evidentemente spallacci e schienale dello zaino, belli impregnati di sali del mio sudore hanno costituito un bell’aperitivo post letargo. Così, toccato terra all’ultima doppia invece di trovare i miei affetti ho trovato brandelli di un “fu” bellissimo zaino tecnico. Il resto della giornata è stato uno snocciolare bestemmie, improperi e ogni genere di promessa di vendetta, abbandono dell’attività alpinistica, esilio. Qualcuno ce l’aveva con me. Le marmotte avevano punito la mia “hybris”. Quella giornata si concludeva quindi con il carico di frustrazione tipico dell’uomo moderno. La scarsa prestazione, il mancato raggiungimento della cima, il danno economico.

E lo zaino? E qui bisogna che ci facciamo tutti un esame di coscienza. Perché sarebbe stato facile prendere un sacco nero e dire “ciao”. Ma io all’economia circolare, in realtà, ci ho sempre creduto. Anche se non si chiamava ancora così e i vecchi (più vecchi, intendo), ti diranno che ai loro tempi “ago e filo e una toppa e avanti”. E c’avevano ragione. Io poi, ho sempre in mente Cassin che scala con la camicia di cotone, Hermann Buhl in cima al Nanga con k-way (e le anfetamine), o Bonatti con il sacchetto del pane in testa. E mi son sempre un po’vergognata di tutta sta roba brillante, pulita, efficiente che reperiamo con grande facilità – se si ha il bancomat sempre disponibile. E poi, vuoi mettere l’affetto? Non riuscivo proprio a liberarmi di quello zaino. Sapevo che prima o poi avrebbe avuto la sua “seconda chance”. Bastava solo aspettare. E quando Michele ha aperto il suo negozio, mi son girato verso lo zaino: era arrivato il suo momento.

L’economia circolare è concetto molto in voga, spesso accompagnato da supercazzole e argomentazioni fumose. Ma è chiaro che, in qualche modo, o andiamo in quella direzione o passeremo più tempo a spalare rifiuti che a comprare cose. Più che il concetto in sé, su cui siete liberi di disquisire quanto vi pare, io credo che bisognerebbe lavorare a livello mentale sulle vere esigenze, sull’adattamento e sul desiderio. Che tante volte basterebbe fermarsi e dire “ma mi serve veramente”? Oppure “ma sicuro che non riesco a farne a meno?”. Domande magari banali, ma provate a rispondere sinceramente. Provate ad applicarle veramente. Dura eh? Certo, magari tocca patire un po’di freddo in più. Sudare un po’ di più. O aspettare, un po’ di più. Anche 10 anni. Come il mio zaino. Prima o poi la seconda chance arriva.

ps: questo non è uno spot, per il solo fatto che ho pagato io 😃 per scrivere dello zaino – che se lo meritava – e di Michele, che si merita l’applauso per aver riportato in vita uno zaino a brandelli e per l’idea del suo negozio. Re_cuci store offre servizi di riparazione di capi tecnici per sport outdoor, cercando di recuperare e riadattare capi di abbigliamento con attenzione ai materiali e al design. Una bella idea, di un giovane imprenditore (si può dire?) che forse ci dice qualcosa sul futuro che dovremmo ascoltare. Riferimenti su instagrame pagina facebook https://www.facebook.com/profile.php?id=61551778941539

Zaini pesanti

di Saverio D’Eredità

Mi stavo giusto chiedendo l’altra mattina, caricando l’auto, se faccio sempre degli zaini pesanti perché non sono un alpinista top, o non sono un alpinista top perché faccio gli zaini pesanti. Tu dirai, “e vabbè”, ma son problemi, eh. Perché uno zaino leggero ti rende più veloce, più efficace, quindi più sicuro, sicuramente più “fit”, ma anche più “in”, per non dire più “cool” e tutta una serie di “più” che non stiamo neanche ad elencarli. Ti rende “più”. Che poi io ci sono andato con quelli bravi qualche volta, quelli che hanno lo zaino leggero e che al momento giusto tirano fuori da quello zainetto che manco ci andrei al mare, il cordino sottilissimo in kevlar da 30 metri con cui fanno tutto, che hanno i moschettoni contati precisi, i materiali giusti quelli che servono e poi non sudano mai e se sudano non puzzano (ecco, questa cosa mi rende molto, davvero molto invidioso), e hanno il capo giusto, l’assetto giusto. Io invece sono 20 anni che vado in montagna e ancora uno zaino leggero, uno zaino giusto, mica sono riuscito ancora a farlo. Deve essere proprio una “attitude” che non c’abbiamo, una postura, uno stile, che ci manca.

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E comunque ti sfido te, che sai sempre tutto, a sapere esattamente cosa portare e cosa no, se avrai caldo oppure freddo, se è giornata da thermos col tè o da bottiglia d’acqua. Se avrai bisogno di un negozio di alpinismo o quattro moschettoni e giusto il casco che non si sa mai. Quando ci si muove d’inverno, o sarebbe meglio dire “simil-inverno” la domanda “ma serve anche… (continua con capo di abbigliamento, bevanda o attrezzatura a piacimento)” è ricorrente. Che vi devo dire, sarà questa educazione da italiano medio, questa estrazione borghese o che sono meridionale e quindi il dubbio di avere freddo ti rimane, come quello di avere abbastanza da mangiare, abbastanza soldi e chiamare quando arrivo.

Ci metto del mio, ovviamente. Nel simil-inverno, in questa stagione che non si decide un po’come me quando faccio lo zaino, le salite che scegli, almeno da una certa quota in su hanno la stessa cifra di incertezza e definizione. Perché dal momento che non sei – questo è certo – un grande alpinista, finisci per bazzicare in quelle cose che “assomigliano” ad un invernale, ma senza crederci troppo. Ad esempio, ti scegli la “ferratina” per stare nella tua zona di comfort, come si suol dire, ma non sai mai quanto cavo trovi o quanto a lungo scavi. Oppure preferisci la “semplice” normale, ma poi finisce che tanto semplice non è, così da rimpiangere la corda abbondonata in auto. Per non parlare di quando si punta decisi su qualche canale solo per aver intravisto una webcam di una zona vicino e allora parte la ridda di incognite: c’è neve o ghiaccio? Sfonda o tiene? Le viti servono a qualcosa o servono solo a bucarti i vestiti?

Se parliamo di attrezzatura, poi, ognuno c’ha le sue teorie e ognuno i suoi perenni dubbi. Io di solito vado a “sentimento”, ma senza un piano vero e proprio. Con discreta arroganza, camuffata da saggezza, mi dico sempre che non si può portare tutto e che si deve far con quel che si ha. Salvo poi darmi ripetutamente dell’idiota durante la giornata. Salvo poi avere uno zaino comunque pesante.

Oggi, ad esempio, il “sentimento” mi ha portato a scegliere, nella semi oscurità di una cantina dell’alba due misure di friend “piccoli”. Rimasti elegantemente appesi all’imbrago per tutta una salita in cui ci siamo alternati tra disseppellimento di cavi, progressione in ferrata e in cordata, hanno avuto il loro momento di gloria quando si è trattato di affrontare – del tutto gratuitamente – un “couloir” dall’aspetto tanto invitante quanto ignota ne era la consistenza. Salvo scoprire, in quel famoso momento in cui la tua baldanza si esaurisce in un “ma se mettessimo qualcosa” che l’ombra della cantina ti ha ingannato e i friend sono si due, ma due della stessa misura. I restanti 80 metri, vorrei dire gli 80 metri “chiave” avrebbero dovuto quindi piegarsi al nostro equipaggiamento “minimal”. O noi, viceversa. Lungi dal fare un’apologia dell’alpinismo “clean”, “light” e altre menate del genere ciò di cui mi rallegro è l’aver trovato esattamente le due fessure della misura adatta a quei due miseri aggeggi esattamente dove servivano. Potrei dire che lo sapevo. In realtà è stata semplicemente una botta di culo. O la dimestichezza dei soci a muoversi con questi terreni senza fare troppo i precisini. Ovvero “farseli bastare”.

Farselo bastare è un po’ il mantra di questo genere di salite e se vogliamo di uno stile, ma vediamo di non darci troppe arie. Farselo bastare vuol dire tornare ad una certa concretezza, di prendere la montagna come viene e com’ è, aguzzando magari l’ingegno e adattandosi. Perché la rinuncia è una porta che deve rimanere sempre aperta. Farsela bastare, come questa montagna cui torno con una certa frequenza e senza troppi rimpianti.

Sono diversi anni ormai che, in questa stagione, regolarmente torno sulla Mala Mojstrovka. La Mala Mojstrovka, anzi la “Mala” per gli amici, è quel genere di montagna che ti da sempre qualcosa senza chiederti mai troppo. Ti fa sentire un po’alpinista senza tornare a casa tardi. Ti fa fare anche delle belle foto. Diciamo che è un po’il nostro parco giochi, il campetto sul quale abbiamo fatto partite memorabili. Ma pur sempre il campetto. Il punto è che siamo cresciuti e siamo rimasti al campetto. La “Mala” è l’anticamera di quello che avremmo voluto essere e non abbiamo avuto il coraggio di essere.

Ma che dire, allora, dello zaino pesante? Se alla fine hai avuto sia caldo sia freddo, se alla fine l’attrezzatura era comunque inadeguata, cosa ci sarà mai in quello zaino che non riesce, nemmeno sforzandosi, a farmi muovere come uno di quelli che con lo zainetto da scuola riescono ad essere prontissimi, preparatissimi, efficientissimi e perché no, pure bellissimi?

Lo zaino pesante è un po’ la cifra di un modo di essere, sempre carico di aspettative, mai troppo adeguato agli obiettivi che ci si pone. Lo zaino pesante, alla fine, non mi risolve proprio niente: è solo un fardello da portare che mi rende “meno” su tutto (meno veloce, meno efficiente e in fin dei conti pure meno sicuro) perché in tutta quella roba non c’è mai, non ci sarà mai, tutto quello che ti serve. Dallo zaino pesante tirerai comunque fuori due friend sbagliati e un cordino troppo corto e ti ripeterai che te li farai bastare.

Ancora una volta, con i nostri zaini pesanti, sbucheremo in cima alla Mala e guarderemo la fiamma della Skrlatica che si alza nel pomeriggio. Ci fermeremo, rapiti e immagineremo le prossime grandi salite che non faremo mai, perché non riusciremo a fare uno zaino che sia un po’meno pesante, a lasciare giù quello che non serve, a scrollarci di dosso le nostre paure.

Ancora una volta, ammetteremo che tutto sommato ci basta questo. Poter arrivare qui e immaginare i nostri mondi possibili. Tenere sempre quella porta aperta davanti a noi. Se abbiamo questo, in fin dei conti, abbiamo tutto.

Atlantide (o degli alpinisti estinti)

di Saverio D’Eredità

Cima Verde mt.2661

Per il versante Est – via della Spragna

“G.Kugy con A. e J. Komac, 13 nov.1892. In seguito ripetuta dallo stesso Kugy con A.Komac il 9 luglio 1893 e in seguito numerose altre volte fino all’inizio del secolo. Poi cadde nell’oblio. (…) Durante le prime salite sul passaggio più difficile dei massi incastrati “Venne usata una pertica a forcone con la quale si issava il capocordata per quasi 3 metri.” In seguito, venne messo un chiodo. Difficoltà presumibili: III e IV.” (Alpi Giulie, G.Buscaini, 1974)

Poche righe in corsivo sono abbastanza per creare un segreto e altrettanto per darti un indizio. Che spesso il mistero non sta tanto in ciò che ignoriamo, ma in ciò che crediamo di conoscere. Da tempo mi arrovellavo su quelle poche righe – erano un invito o una minaccia? – sulla scena della pertica e in generale sul senso dell’oblio.

Da tempo la osservavo quella cresta, così evidente, così lineare, eppure così invisibile. Come da tempo non mi capitava di alzarmi una mattina, incontrare i compagni e tagliare fuori dal sentiero senza che nessuno sapesse esattamente cosa ci aspettasse. (Il motivo, di questo tempo atteso, di questa indecisione, ce lo saremmo ricordati più tardi, col sole ormai alto, le decisioni prese, irreversibili).

Che questo genere di cose, questo alpinismo senza molto futuro e tutto sommato senza nemmeno troppo passato, vanno prese a piccole dosi, del resto. I suoi effetti sono a rilascio lento nel tempo dei giorni, dei mesi, vorrei dire persino degli anni. Perché senza dubbio viene da lì, dagli anni passati, da una memoria del corpo e degli occhi l’adattarsi a questi prati imperdonabili senza perdere l’equilibrio, passare attraverso certe creste sbertucciate eppure non muovere un sasso quasi fossimo gli abitanti del posto – che poi sono solo i camosci che vorrei dire di aver trovato persino stupiti della nostra presenza. Viene certamente dagli anni passati, da esperienza sepolte, tanto il sapere intuire il passaggio giusto quanto finire nel posto sbagliato. Ricordarsi che un canale, in Giulie, è spesso una buona opzione ma non sempre è una buona opzione.

Qual era dunque il segreto della Spragna? Perché era caduta nell’oblio dopo “le numerose salite” di cento e più anni fa? Kugy era certamente un fine osservatore di montagne con una lieve ossessione per il Montasio. E le sue guide gente con sufficiente pelo e una buona dose creativa. Sul passaggio della pertica per anni ho fatto mille congetture, che era una balla raccontata ai creduloni e magari la facevano drammatica per farsi pagare di più. Oggi, in realtà, penso soprattutto che quegli uomini barbuti, con giacche di feltro e baffoni, erano decisamente più “freak” di noialtri ben vestiti e ben informati che, al contrario, ci stiamo appiattendo sulle stesse cose. Questi ti andavano su per quei posti dissennati prendendo – magari al mattino, uscendo di casa, dalla stalla – una pertica a forcone e improvvisando questo numero da circo. Per poi accorgersi che la via era certamente grandiosa, sì, ma per andare in cima alla Nord si poteva far di meglio. L’attenzione di Kugy si spostò quindi in mezzo alla parete e la via della Spragna rimase in disparte, sprofondando in quell’oblio. Perché nessuno ha più seguito i suoi passi?

Questa forma di alpinismo è un bagno di realtà. Ti riporta all’essenziale. Alla terra che si infila sotto le unghie, a poche parole scambiate e solo per necessità, che ogni passo è una scelta, ogni direzione presa un’assunzione di responsabilità. Forse è per questo che ci spaventa. Non la fatica, ma il sapere che da qualche parte sbaglierai per forza, che il dubbio ti assalirà ancora. Ti spinge a rinunciare ad ogni certezza e – in fin dei conti – improvvisare. Essere consapevoli delle nostre scelte.

E dietro l’angolo, oltre la cengia che – come una porta segreta – ci ha condotto a scoprire la linea di fragilità della parete, abbiamo trovato la solitudine. Ma una solitudine così profonda, così totale, da fare quasi paura. Nessuno a quel punto ha detto più una parola. Bastava guardare quel vecchio piolo piegato e affidarsi ancora una volta, dopo 100 anni al cavo di guerra per capire l’oblio.

Alti sulla cresta, osservavo inabissarsi la nostra piccola Atlantide, portandosi dietro quell’oblio. E rimaneva solo il cavetto, il piolo, l’unico chiodo trovato e che aspetterà chissà quanti anni ancora, altri lettori di poche righe in corsivo di un alpinismo estinto.

Note

La “via della Spragna” è probabilmente una delle vie più dimenticate delle Giulie. Nonostante la sua linea sia molto evidente e logica (è il crestone che si diparte dalla Cima Verde e chiude ad oriente la grande muraglia settentrionale del Montasio, noto anche come “Cresta Berdo”) di fatto da 100 anni riceve rarissime visite, nonostante le difficoltà non siano elevate. Originariamente aperta da Kugy con le guide A e J Komac con lo scopo di salire direttamente dalla Saisera al Montasio e successivamente utilizzata a scopo bellico (sono ancora presenti alcune attrezzature), la via è stata abbandonata in favore della più nota “Diretta” – oggi attrezzata. Certamente una salita di questo tipo richiede una ottima esperienza nel muoversi su terreni di fatto tornati vergini, spesso esposti e su roccia non sempre affidabile (ma buona sulle difficoltà). L’orientamento non è molto complesso: noi abbiamo optato per l’attacco dal canalone della Torre Genziana invece del giro originale per la Cianrza. Oltre che più diretto è anche più divertente (passi di II su roccia ottima) e in ambiente grandioso. La salita sui ripidi prati della Cresta Verde è semplice, mentre più attenzione va posta nel tratto che porta sulla cresta rocciosa sommitale. Difficoltà di III con brevi passi di IV e uno più difficile ma agevolato da vecchio cavo di guerra. Discesa facile per la normale che si congiunge a quella del Montasio. Necessaria corda e attrezzatura alpinistica (qualche friend e chiodi).

Non un solo passo – pensieri di ritorno dalla Stena

di Saverio D’Eredità

Non mi è mai pesato un solo passo, su questa montagna. Non un solo metro di arrampicata, non una risalita da qualche dolina che – inattesa – si frapponeva alla successiva meta. Non ho contato mai le ore (e se mai è successo, era solo per curiosità che qua il tempo si sa, lo devi lasciar da parte) e nemmeno sbuffato per i contrattempi. Per una nuvola di troppo. Persino un temporale.

Ci siamo lasciati l’ultima volta, 4 anni fa, nella stessa maniera. Quando finalmente anche l’ultimo gradino che fascia la “Stena” è passato, ecco le prime gocce. Pochi minuti, ed è il diluvio. Testa incappucciata del compagno che seguo senza parlare né pensare, cercando riparo tra i primi faggi. Non mi è mai pesato nemmeno questo. Sarà perché qui ti senti a casa?

Parete Nord del Triglav – foto S.D’Eredità

E’ difficile spiegare come possa sentirsi a proprio agio nel ventre di questa muraglia lunga 3 km e alta 1 e mezzo. Le grandi pareti ispirano solennità, talvolta timore, più spesso stupore. Qui, oltre a tutto questo, anche una certa serenità.

La “Stena” “La Parete” per antonomasia delle Giulie Slovene, è un appuntamento ritrovato. Una vecchia abitudine da riprendere. Quella di filare veloci nell’alba verso il fondo della Vrata, disperdendo man mano con i metri le chiacchiere e accrescendo silenzio e distanza. Ritrovarsi all’attacco, accorgersi che bastano poche parole e tutto è già li – quello che serve, quello che cerchiamo. Tastare la roccia – sentire che è buona, laddove l’acqua corre e pulisce e smussa – intuire la cengia senza leggere la relazione e poi sfumare un tiro nell’altro, un’ora nell’altra. E anche perdersi, ma solo un momento e senza timori. C’è il chiodo di qualcuno che la pensava come te e forse si è ricreduto. Sentirsi parte di un qualcosa, scoprire che facciamo gli stessi errori e qualche volta quindi anche gli stessi sogni. Infine, lasciarsi assorbire pian pianino – ricordarsi che diamine! se è lunga – ma in fondo in fondo accettare.

Quando la via finisce sei soltanto a metà: ancora un cunicolo tra un nevaio tardivo che pare esser stato dimenticato dall’estate, ancora una cengia lanciata come un ponte tra universi. L’ultima paretina va scalata, amico, stringere le chiappe e possibilmente anche le dita. L’altipiano sommitale è un allunaggio.

Non mi è mai pesato nulla di questa montagna, nemmeno una ritirata, nemmeno l’ennesima cima rinunciata. Qui sembra davvero così poco importante. Sulla Stena ritrovo il senso di questo nostro andare che non è solo la via, il passaggio, il tiro o la cima. Paradossalmente, bisogna venire sulla parete più grande della montagna più alta per capire che i superlativi non importano. Tutti questi risultati raggiunti, questi presunti traguardi, qui svaniscono. Quello che ti importava era scivolare in questo mare grigio.

Ottavo tiro, appena dopo la Torre Bavarese – foto N.Narduzzi

In realtà non cerchiamo che questo. Esattamente il contrario di ciò che si crede o si presume. Chi non lo capisce prima o poi, si allontana annoiato. Non ci prende nessuna adrenalina, non ci esalta alcuna vittoria, non ci appaga nessun risultato. Nemmeno quella noiosa sfida con sé stessi. Qualche volta non cerchiamo altro che un po’di pace, un luogo dove stare, dove perdersi. Dove trovare. Qualche volta sono le montagne stesse a dirci cosa stiamo cercando. Anche oggi, ringrazio il Triglav per avermelo ricordato.

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Un autunno estivo

di Saverio D’Eredità

L’autunno è quella stagione dei boschi che cambiano colore, del foliage, delle giornate più corte ma non proprio cortissime, che fa fresco la mattina ma poi a mezzogiorno si sta da dio. L’autunno è quella stagione che, in montagna, è bellissima, si sa. Quella che se “potessi le ferie le farei solo in autunno” e si fanno le cime panoramiche che l’aria è più secca e si arrampica al sole su quelle vie non tanto lunghe, anzi corte, però non cortissime insomma quelle che vie che normalmente quando sei nel trip nemmeno consideri, ma sono pure belline.

L’autunno è quella stagione che forse meglio dire era. Perchè sto sudando come una capra (non so se le capre sudino, ma puzzo, si, di capra o sarà che sto salendo lungo le palline di escrementi caprini) e mi faccio largo tra erbe che saranno alte fino al ginocchio e dopo un po’di reticenza ho capito che o mi ci ficcavo dentro o sta parete ce la potevamo scordare.

Stefano Salvador sul primo tiro di Stelle Filanti – foto S.D’Eredità

L’autunno è quella stagione che era, perché un po’sarà che siamo arrugginiti noi, sarà che di vie ne abbiamo fatte un po’ – mica tutte – e quindi iniziano a scarseggiare le idee e ci muoviamo confusi, ma oggi pare estate – che dico – agosto pieno e ‘sta placca pare uno specchio incandescente. L’autunno c’erano i colori, un po’ci sono eh, ma non quelli che ricordavo. L’erba che tappezza anche le rigole di pietra, prospera nei terrazzini, avanza ovunque è verde e non risente di alcun cambio di stagione. Nell’aria fluttua la foschia che appartiene ad altri mesi e la bocca è secca ed impastata, ma non per le difficoltà che in fondo oggi abbiamo accuratamente evitato. Sento bisogno di una birra grande.

Insomma l’autunno c’era una volta e con esso anche un momento dell’anno che ritengo essenziale per sistemare le idee, assorbire esperienze e guardare al futuro. Dall’alto della sosta posta sull’unica fascia verticale della placconata osservo le venature scolpite nella pietra che danno il nome alla via “Stelle Filanti”. Eppure oggi – sarà ‘sta sete, sarà questa specie di ansia climatica che mi sta salendo – mi paiono più ruscelli di pietra, memorie di tempi che presto dimenticheremo. Se osservo da vicino la pietra (cosa che oggi posso anche permettermi mentre faccio finta di piazzare un friend) posso quasi sentire il movimento dell’acqua nel calcare, percepirne il gorgoglìo, il movimento verso il basso in obbedienza all’unica legge inevitabile, quella della gravità.

C’era l’autunno e quella stagione lì, oggi non so nemmeno se ci sarà ancora. Scaliamo in autunno estivo, confusi e spiazzati, eppure incantati da questa scultura di roccia che vorrei non finisse mai e continuasse altri 10 tiri almeno e verso non so dove, cercando di dimenticare qualcosa che non c’è.

Sul tiro “chiave” di Stelle Filanti

Placche del Coston di Stella (gruppo del Coglians)

Stelle Filanti (Pezzolato-Gojak,2005)

Difficoltà: prevalentemente IV, 1 p.V+, 1 p.VI

Lunghezza: 200 mt

Itinerario 175 della Guida Alpi Carniche Occ.li (D’Eredità-Zorzi)

Un luogo minore e appartato nel vasto ed articolato versante sud del Coglians, dove vaste fasce rocciose si alternano a conche pensili e boschi abbarbicati, sotto la muta presenza del “Tetto del Friuli”. Secondarie rispetto all’esplorazione alpinistica, son state “evidenziate” da De Rovere prima, da Paolo Pezzolato e Sara Gojak poi, infine ancora frequentate da locali quale Alex Corrò in tempi recenti. Qui nessuna vetta particolare (se si eccettua la policroma sagoma della Torre di Coston Stella), ma un ambiente che si direbbe arcadico. La grande placconata è unica nel suo genere, solcata da una miriade di rigole che hanno creato intarsi particolarissimi e caratteristici: lungo queste l’arrampicata scorre fluida (un solo salto, leggermente strapiombante, impone impegno) ma tecnica e in pura aderenza. Ideale per le cosidette “mezze stagioni” o comunque quando non si cerca particolare ingaggio e una comoda logistica. Via comunque alpinistica nonostante la rassicurante presenza di spit sui passi impegnativi.

Cresta Berdo, ieri e oggi

di Emiliano Zorzi

Alcuni anni fa, il semplice caso e la sempre presente “scusa” derivante dalla compilazione delle guide, mi ha spinto a visitare questi luoghi, che conoscevo solo di sfuggita. Il primo contatto è stato sulla via Rimmel, l’unica e prima scalata recente/moderna/conoscibile, mentre quelle “antiche” versano in stato di completo abbandono umano. Mi ha comunque incuriosito il fatto che, pur essendo questa lunga costiera di pareti ben visibile ed evidente dalla Val Saisera, non abbia ricevuto nessun tipo di attenzione arrampicatoria negli ultimi 50 anni e si sia limitata, precedentemente, a poche e limitate vie figlie di un altro mondo, altre possibilità e difficoltà che oggi non rientrano più nell’ottica e nei gusti dei frequentatori delle rocce attuali.

Oggi invece, estate 2023, all’ombra della muraglia del Montasio, le possibilità di vivere giornate in un ambiente severo e bucolico allo stesso tempo, di ripetere vie sconosciute e di trovare spazi per aprirne di nuove sono ancora grandi, senza alcun problema di convivenza o sovrapposizione di linee e stili. Un terreno dove ognuno, secondo la propria inclinazione, capacità, visione ed esperienza può e potrà avere modo di esprimersi, circondato dalla totale tranquillità quando non dalla solitudine.

LA GEOGRAFIA DEL LUOGO

La grande dorsale della Cresta Berdo si stacca verso nord-est dalla massa del Montasio in corrispondenza dell’elevazione della Cima Verde. Questa notevole cresta, che sul versante orientale è un intricato complesso di brevi salti rocciosi infestati dai mughi e dall’erba verticale mentre su quello occidentale presenta pareti dalla selvaggia bellezza alte fra i 200 e 500 m, digrada progressivamente verso il fondovalle della Val Saisera, e più precisamente sugli enormi ghiaioni pianeggianti della Spragna, con una serie di elevazioni e gobbe la cui lunghezza complessiva è di circa 2 km.

Poche di queste elevazioni hanno ricevuto un nome proprio, tanto che vengono indicate semplicemente con la quota. In questo scritto le quote indicate sono quelle ricavate dalla recente Cartografia Tecnica Regionale del Friuli Venezia Giulia che, a seguito delle nuove misurazioni, differiscono da quelle più datate dell’IGM, che hanno costituito anche la base per la storica Guida dei Monti d’Italia di G. Buscaini (ed. CAI-TCI) del 1974. Da notare che dalla dorsale principale della cresta emerge verso ovest il netto e imponente pilastro della Torre Gloria, mentre verso nord-est, separato dal corpo della cresta dalla profonda forcella omonima, si impone la massa rocciosa della Torre Genziana, la cui base affonda praticamente nel fondovalle.

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