In contemplazione del Mistero

di Nicola Narduzzi

“Sono parte di tutto ciò che ho incontrato;
eppure ancora tutta l’esperienza è un arco attraverso cui
brilla quel mondo inesplorato i cui confini sbiadiscono
per sempre e per sempre quando mi muovo.”
(A. Tennyson, Ulysses)

Chiudo gli occhi. Penso a una parete, penso a quella parete: il mio frutto proibito. La sogno, come si sogna il sole nell’ora buia che precede l’alba. La desidero, sapendo che il desiderio non verrà appagato. L’ho anche sfiorata, conservando però sempre la consapevolezza che non sarei mai arrivato al suo cuore.
C’è una curva, lungo la strada che uscendo da Tarvisio conduce verso Fusine ed il valico di Rateče. Ogni volta, in quel punto, la macchina corre rapida lungo la linea d’asfalto mentre accentuo la stretta sul volante, innervosito dalla frenesia e dal traffico di frontiera. Eppure, appena svolto l’angolo, quando il panorama fatto di monotone foreste di abeti si apre e la si può vedere, per un attimo ogni pensiero svanisce e il suo fascino
magnetico colpisce come un pugno allo stomaco. Specie al tramonto, quando la parete esce dall’oblio e le rocce infiammate dalla luce del sole morente danzano con le ombre facendo assumere spessore ad ogni piega, rivelando dettagli fino a quel momento nascosti. Lo sguardo corre quindi libero tra quelle rocce, carico di bramosia, anche se è solo un istante e la parete torna subito a scomparire tra le cime degli alberi.

Le Alpi Giulie sono montagne aspre, stagliate alte e fiere nel cielo, ma con radici affondate nelle sconfinate foreste di peccio e faggio che ricoprono i solchi antichi scavati in tempi immemori dalle ere geologiche.
Lontane dalle verticalità dolomitiche le pareti sono castelli complessi, contorti, fatti di canali che penetrano nelle viscere della montagna, cenge, tratti verticali e rocce coricate che si alternano a formare una scala verso il cielo. Lei è diversa.
Non ho ancora trovato un perché, forse non lo troverò mai. Ci sono pareti più grandi, più remote, più verticali. Ci sono vie più difficili, più pericolose, più prestigiose. Eppure, per qualche ragione, è lei a dominare i miei pensieri.

Sarà per quelle linee poderose ma essenziali: l’immensa lama dello spigolo nord protesa a fendere il vuoto, la perfetta incisione del diedro infinito che si insinua nel cuore della parete, la sua forma squadrata e monolitica impreziosita dal diamante che sorregge le rocce della cima, le profonde rughe che ne segnano il volto. Sarà per quella brezza che soffia anche nei giorni più caldi dalle viscere del canale nascosto, come un sospiro proveniente dai recessi più antichi e profondi della montagna. Sarà per quella potenza ancestrale che si può percepire passandoci alla base, dove ogni cosa è immobile ed eterna e la misera realtà della condizione umana annichilisce di fronte alla maestosità dell’alfiere delle Giulie che vigila altero sulla conca dei laghi di Fusine.
Tornando alle origini, però, forse non è proprio questo il punto di partenza. Ricordando i giorni di quegli anni ormai lontani quando iniziavo a muovere più decisamente i miei passi tra le montagne, capisco che non è stata la bellezza della parete a far accendere la scintilla. Tutto cominciò grazie a un ragazzo appena ventenne che, da solo, si confrontò con una leggenda: Ernesto Lomasti.

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La Nord del Piccolo Mangart – foto E.Zorzi

Mi ricordo della prima volta che lessi di lui. Era un giorno di fine estate, di quelli in cui il verde delle foreste inizia stancamente ad affievolirsi e il sole scintilla nel cielo terso, liberato dal carico di umidità dell’afa estiva. Leggendo della solitaria di Ernesto al diedro
Cozzolino ciò che più mi affascinò fu il mistero, quel confronto con l’ignoto di una parte superiore che solo una manciata di persone al mondo avevano visto e che aveva respinto alcune tra le cordate migliori dell’epoca. Certo, lo sapevo che ormai la via veniva percorsa ogni anno da diverse cordate eppure, ingenuamente, nella mia mente la via conservava ancora il fascino di un giorno d’estate di trent’anni prima, quando un ragazzino si appoggiò con la schiena alla parete sulla cengia mediana, guardando verso l’alto in contemplazione del mistero. Quel giorno, disteso nel prato di una remota valle dell’ovest con un libro in mano, trovai la mia grande linea dei desideri, quel diedro perfetto che non ha eguali nelle Alpi.
Sono i sogni migliori quelli che maturano quando si inizia a frequentare le montagne, perché come bambini si guarda a questo mondo con occhi nuovi, ancora privi di preconcetti e condizionamenti di un ambiente alpinistico fin troppo conformista, godendo semplicemente dell’incanto della natura e delle cime così grandi e misteriose.
Sono anche quelli con il fardello maggiore: non un desiderio fugace, perché sai che non si realizzeranno nell’immediato. A me, infatti, arrampicare non riusciva granché bene. Anzi, non riusciva proprio per niente.
Non che adesso sia particolarmente distante dalla mediocrità a dire il vero, ma furono in particolare i miei inizi ad essere caratterizzati dalla mancanza di una qualsivoglia capacità di arrampicare con un minimo di grazia. È stato un lungo processo: ho dovuto sbatterci la testa contro, buttare giornate, stancarmi solo per il gusto di andare a letto stanco. Sentire l’acre sapore della paura, quella paura totalizzante che deriva dall’inadeguatezza. Provare la stanchezza che ti assale quando la parete ti prende a schiaffi e tu non puoi fare altro che porgere l’altra guancia. Salire vie, belle o brutte che fossero, cercando di conservare sempre la consapevolezza che tutto contribuisce all’arco di un lungo percorso individuale, tendente in modo asintotico verso un obiettivo talmente lontano da apparirmi sfocato tra le nebbie del tempo.
Ci vollero quindi quasi dieci anni prima di arrivare a calcare in punta di piedi gli ultimi metri del diedro infinito, mentre l’afa avvolgeva ogni cosa e soffici cumuli vagavano sospinti da una lieve brezza nella luce calda della sera. Avevo inseguito un mito ma lì, tra i grossi massi sparsi sulla cresta di confine al limite estremo del sogno,
circondato dalle cime che forse più di ogni altra cosa al mondo considero Casa, avevo scoperto che nel momento in cui il mistero svanisce il mito trova la sua morte e la sorgente dell’incanto si esaurisce. Pensavo di trovare delle risposte, liberarmi da quel senso di incompletezza che da sempre mi accompagna e invece,  incamminandomi verso oriente nell’ombra, avevo solamente lasciato una parte di me tra le rocce del Coritenza. Nei mesi seguenti ho passato diverse giornate a vagare senza meta nella città del ritorno, con la mente imprigionata in una gabbia di svogliatezza e pigrizia. Nel senso di solitudine che solo luci e palazzi possono dare, camminavo tra luce e ombra in un’anonima strada di periferia cercando di dare un senso a quel vuoto, a quella sensazione di smarrimento che mi accompagnava dalla salita del diedro Cozzolino.
Finché, una sera d’inverno, un messaggio del Mose mi ha scosso dal torpore: “Ti faccio una proposta, anche se so già la risposta…”.

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Enrico Mosetti nel cuore della Nord del Piccolo Mangart di Coritenza, via Lomasti – foto N.Narduzzi

Sotto ai miei occhi la parete celava ancora la sua gemma più preziosa, il vero capolavoro di Ernesto Lomasti. L’avevo già vista quel giorno ormai lontano, una semplice traccia tratteggiata a penna su una vecchia foto in bianco e nero. Ci avevo anche pensato nelle lunghe camminate a vuoto che seguirono il diedro infinito. In fondo l’ho sempre saputo, in qualche modo indefinibile questa via c’è sempre stata. Certo non è stata una risposta a cuor leggero la mia, perché nonostante gli anni trascorsi e le esperienze
provate non sono mai riuscito a liberarmi da un certo senso di inadeguatezza e lì, nel cuore della parete, il beneficio del dubbio non è concesso. Sono quindi dovuti passare due anni, numerose vie, diverse lezioni di umiltà e un altro fugace incontro con la grande parete prima che, gradualmente, il timore si trasformasse in desiderio e poi ancora in pensiero fisso.
Così in una calda sera di metà estate sono arrivato su uno dei massi che cospargono le rive del Lago Superiore.
Nella testa rimbombano ancora le parole del Mose, pronunciate con quella sua fuck you attitude prima di una serata a base di birra e fin troppi zuccherini in una Conca Prevala mai così piena di vita e musica: “Entro dieci giorni saremo sulla Lomasti”. Domani sarà il decimo giorno.

Dall’angolo di solitudine che il crepuscolo mi ha regalato osservo l’infiammarsi della parete ed il mutare delle ombre disegnate dal corso dell’ultimo sole. In basso la foresta sembra riacquistare vita nell’ombra della sera dopo la battuta opprimente del sole estivo. La brezza che soffia dal lago fa rabbrividire ma non posso fare a meno di stare qui, seduto in contemplazione del mistero.

Guardo la parete come se fosse la prima volta. L’emozione è quella dell’incontro tra due amanti perduti, quando la nostalgia del tempo trascorso separati improvvisamente lascia spazio al desiderio. Desiderio di accarezzarla, esplorarne ogni recesso, inseguire una visione. Il tempo scorre senza che me ne renda conto, per un lasso indefinito, finché pigramente i colori sfumano e anche le ultime luci abbandonano le cime, lasciando che il buio avvolga ogni cosa. Con riluttanza mi alzo, volto le spalle alla parete. Mi rintano nel sacco a pelo e mentre mi assopisco vengo cullato da un irrazionale senso di sicurezza.
Il copione di domani è già scritto, lo so. Ci avvicineremo alla grande parete nella luce del primo mattino.
Supereremo le lisce placche che sostengono la parete increduli, quasi schiacciati dal peso della Storia.
Giocheremo tra le pieghe della parete ed essa giocherà con noi, rivelandosi mano a mano in una danza che sembra non avere fine.

Troveremo quello stretto ballatoio che conduce al colatoio finale e che costituisce la vera riprova della folle capacità visionaria di Ernesto. Con le braccia stanche e gli occhi colmi di emozione vedremo i suoi chiodi, arrugginiti dall’incessante azione del tempo ma ancora lì, sulle nicchie friabili superate con le staffe, muti testimoni di quel giorno in cui l’alpinismo è stato proiettato nel futuro da uno sperduto angolo della catena alpina.

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Enrico Mosetti in un attimo di tregua tra le fessure superficiali della Lomasti – foto N.Narduzzi

Calcheremo ancora una volta la cengia d’uscita, che nella luce della sera sarà migliore di qualunque cima. Dalle rocce di cresta ci tufferemo poi lungo i cavi della Via della Vita già immersa nell’ombra, incalzati dalla notte in arrivo e prima che l’oscurità cali il suo velo guarderemo ancora una volta dalla base della parete verso l’alto, stavolta con occhi nuovi, accompagnati dalla consapevolezza di aver finalmente attraversato la grande parete attraverso la sua linea più effimera “non per egoismo, ma per orgoglio”.

***

Epilogo

Sono passati ormai due mesi. L’afa estiva è solo un lontano ricordo mente il sole abbassa lentamente il suo arco verso la linea dell’orizzonte e gli alberi si infiammano in un ultimo istante di bellezza. Ho passato molto tempo, anche stavolta, a ripensare alla parete nelle lunghe e tristi giornate piovose che hanno segnato l’inizio dell’autunno. Qualcosa però è cambiato dalla prima volta. Laddove c’era smarrimento e solitudine ora c’è consapevolezza e un gran senso di pace che, gradualmente, ha gettato le radici mano a mano che realizzavo quanto accaduto all’ombra della grande parete. Forse ciò vuol dire che sono cresciuto, o quanto meno che ho capito. Alla fine oggettivamente anche la Lomasti non è che una via, un pezzo di roccia come tanti.
Babilonia non cadrà. I cieli non si apriranno. In fondo, va bene così. Non c’è più mistero, eppure non posso fare a meno di pensare che rimane ancora qualcosa di forte che mi lega alla parete. Qualcosa di indefinibile, non il sentimento che si può provare per le persone care, la famiglia, una donna, che però ad ogni incontro si rafforza e che provo lì, solamente lì, sul Piccolo Mangart di Coritenza.
In pochi capiranno anche se, nelle giornate estive che hanno fatto seguito al ritorno, in molti hanno posto delle domande. Ad esse, però, non ho trovato risposta. Quanto è chiodata? È più dura del Cozzolino? È bella?
Non lo so, nemmeno mi interessa di sapere. Di sicuro ci sono vie più impegnative, come anche vie più facili.
Di sicuro ci sono vie più belle ma del resto anche più brutte. Per alcuni sarà ben chiodata, per altri meno. Non esiste una verità assoluta, per questa via come per la vita. Non è questo il punto.
Essa ha rappresentato, più di ogni altra cosa, l’obiettivo finale di un arco di esperienze lungo un decennio. La motivazione per provare a crescere, senza che nemmeno riuscissi a realizzare che lo fosse talmente lontana mi appariva inizialmente. È espressione di arte, la nostra arte. Senza sotterfugi o compromessi. Testimone di cambiamento. Atto di fede di un ragazzo che a soli vent’anni ha saputo filtrare timori e preconcetti del passato, ridefinendo in maniera indelebile il metro di paragone. È avventura, una grande avventura alla ricerca di qualcosa che prima di Ernesto non esisteva e che dopo di lui continuerà ad esistere per sempre.

Postfazione

Ernesto Lomasti: la visione oltre il visibile

di Saverio D’Eredità

In quell’estate del 1978, quando Lomasti si apprestava ad attaccare da solo la parete, sulla Nord del Piccolo Mangart di Coritenza si potevano ancora contare una manciata di vie. Ripetute al massimo una sola volta. Nessuna ancora salita in inverno. Men che meno aperte da alpinisti solitari. Ma nel cuore della parete c’è ancora una pagina bianca: tra la profonda fessura camino e il Pilastro Nord, dove passarono gli alpinisti di Cave ed Ignazio Piussi, si erge una lavagna compatta e levigata solcata da regolari fessure verticali dove non è ancora passato nessuno.

L’eccezionalità della scalata di Lomasti si può ritrovare essenzialmente su tre aspetti: il contesto, lo stile, l’idea.

Fino a quel tempo la parete  era stata dunque affrontata lungo linee di minor resistenza: il diedro, la fessura, lo spigolo, la gola. Lo stesso Pilastro Piussi, all’epoca la più difficile scalata delle Giulie, seppure spesso in parete aperta, seguiva le linee naturali di una struttura comunque evidente. Ma Lomasti aveva in mente qualcosa di diverso. Non sappiamo dove possa scattare quella molla, che appartiene ad una categoria del tutto a sé stante di alpinisti, capace di vedere qualcosa che altri considerano illogico o semplicemente non vedono. Lomasti attacca infatti le immani placche basali, uno scudo di calcare compattissimo dove si intravvedono appena poche fessure superficiali. La linea è del tutto nella sua immaginazione. Affrontare quella sezione di parete, dove infatti ancora nessuno si era avventurato poteva apparire (ed ancora oggi, agli occhi dei non moltissimi ripetitori) una pura follia.
Il calcare del Mangart è infatti non solo estremamente compatto, ma soprattutto maledettamente liscio e scarno di appigli. Piccole tacche appena visibili nei muri bianchi, fessure superficiali difficilissime da proteggere, zone caratterizzate da rigole o svasi tipici di quel particolare tipo di conformazione geologica in cui l’acqua opera come paziente levigatore. Non basta avere forza, resistenza, dita. Serve intuito nel muoversi dove la parete non dà suggerimenti, anzi, ti inganna: spesso le pareti sono inclinate e danno un falso senso di accessibilità, per poi abbandonarti nel mezzo di placche senza speranze. Nelle fessure più profonde e nei camini al contrario la roccia spesso “marcisce” sottoposta alla persistenza dell’umidità. Scalare diventa un rebus costante, dove il solo gesto atletico non è di per sé sufficiente a garantire il buon esito della salita.
Lomasti affronta questo ambiente freddo e ostile con la medesima attrezzatura di un alpinista degli anni 40 o 50. Scarponi con suola rigida, una manciata di chiodi, cunei, staffe. Di fatto poi di chiodi ne usa appena 6, e due staffe furono ritrovate da Mazzilis e Di Lenardo nel corso della prima ripetizione. Inoltre, scala praticamente l’intera parete slegato, limitando al massimo l’uso dei chiodi e di supporti artificiali. E, pur trascinando un pesante sacco, in una sola giornata.
Molti di questi dettagli non stupiscono chi conosce la sua storia. Lomasti non solo era abituato a scalare su roccia di questo tipo  (le pareti del “natìo” Cavallo presentano spesso caratteristiche simili a quelle del Mangart): ma a farlo slegato. La sua capacità di autocontrollo accompagnata da una preparazione fisica maniacale sono state sviluppate nel giro di un paio d’anni, ad un livello pari se non superiori ai più grandi alpinisti dell’epoca. Un’epoca, ricordiamolo, in cui di settimo grado si parla a stento. In cui le scarpette sono un privilegio ancora di pochi. In cui i chiodi sono ancora il bagaglio principale di ogni alpinista. E veniamo dunque allo stile.
Quello di Lomasti è inflessibile. La sua etica rigorosa ai limiti dell’ortodossia. Tutto in questo ragazzo di appena 18 anni, ricordiamolo, sembra avere una solidità granitica. Nella determinazione, nella fermezza delle idee, nell’ineccepibilità dell’esecuzione. Lomasti dimostra molto più della sua età per le doti alpinistiche che ha sviluppato, ma al tempo stesso di un diciottenne ha tutto lo slancio, l’idealismo e se vogliamo l’ingenuità di quegli anni. Lomasti si colloca nella stessa scia di Messner, l’unico cui sia paragonabile, appunto, per coerenza e stile. Si potrebbe azzardare un parallelismo tra la variante aperta da Messner alla Vinatzer sulla sud della Marmolada e la scalata di Lomasti sul Mangart. Imprese che si collocano sullo stesso piano con la differenza che Lomasti apre un’intera via (e non una variante) in solitaria. Che le difficoltà superate in libera, soprattutto nella parte bassa sono forse superiori. Che il calcare del Mangart è forse più “complicato” di quello marmoladiano. Ma siamo nel campo delle opinioni.
Resta il fatto che ciò che compie Ernesto lo colloca sullo stesso piano di realizzazioni memorabili della storia dell’alpinismo come quelle di Bonatti sul Dru. Se proiettassimo la sua salita nel futuro forse sarebbe non azzardato paragonarla alle solitaria di Auer sul Pesce o di Huber sulla Hasse Brandler o, oggi, Honnold sul Capitan. Ma tutti questi eccezionali alpinisti avevano dalla loro la perfetta conoscenza della via, oltre che materiali e preparazioni decisamente più avanzati. Invece ciò che stupisce è che questo stile, questa etica Ernesto le applica in apertura e con difficoltà costantemente di sesto ed oltre, laddove non si può parlare di settimo pieno.
Il 1978 è del resto un anno importante per la storia dell’alpinismo. Il vento dell’America soffia sempre più forte sulle Alpi, gli scritti di Messner o di Motti infiammano le nuove generazioni. Un giovanissimo Manolo lascia esterrefatti con le sue prime impressionanti realizzazioni e Ron Kauk scala il tetto di “Separate Reality”: un’icona della rivoluzione. Ma quello è il futuro. Lomasti invece sembra venire da un tempo lontanissimo, più parente forse di Comici se non di Preuss come etica e come stile. La sua scalata, in quel 1978, è in un certo senso l’ultima di una concezione radicale ed antica dell’alpinismo dove si fonde la ricerca dell’ignoto con il gesto atletico, l’intelligenza della parete e la totale padronanza tecnica.
C’è la tentazione di considerare questa salita una evoluzione. Ma non tutte le imprese seppure sensazionali, sono “evolutive”. La strada che imboccò Lomasti non fu ripresa. Rimase un gesto unico e in questo senso va considerata e avvalorata. Il sogno di un ragazzo di 18 anni, sconsiderato, folle, inimitabile. Una visione, appunto.
E qui veniamo all’idea. Osservando il tracciato della via appare evidente come Lomasti abbia volutamente cercato, in quella pagina bianca, il punto più difficile dove scrivere. Le placche della parte inferiore della via non solo non erano percorse dalle poche vie presenti, ma non erano nemmeno considerabili. Quasi nessuna discontinuità per oltre 300 metri di parete liscia come una lavagna, possibilità di protezione ridotte all’osso e scarsissimi margini di errore. Attaccare in perfetta solitudine e con i mezzi di cui abbiamo parlato appartiene ad una categoria di esseri umani del tutto rara. Coloro che hanno la capacità di vedere oltre il visibile. Anche qui Lomasti non è nuovo. Già la sua “piccola” perla sullo spigolo sud della Winkel da prova della capacità di Ernesto di tentare ciò che non era ragionevole tentare. Lo scarto che compie per affrontare gli ultimi metri della cuspide della Winkel già appartengono ad un modo radicalmente diverso di pensare e di agire. Sul Mangart ciò è portato su una scala quattro volte maggiore. È qui che tutti gli elementi che abbiamo analizzato si fondono diventando idea. La via al Piccolo Mangart è soprattutto questo. Un’idea.

Cosa rimane oggi? Che significato può avere una scalata così unica nella sua concezione da essere di fatto irripetibile? Una scalata che non ha subito l’inflazione del tempo e ancora oggi conta davvero sporadiche ripetizioni. Il primo fu – inevitabilmente, anche per l’alto significato derivante dal rapporto tra i due – Mazzilis, che già al primo tentativo rischiò grosso durante una ritirata e che portò a termine la prima ripetizione nel 1980 con Lino Di Lenardo. Nel 1989 un altro “folle” solitario come Slavko Svetitic la percorse in invernale, pur se nelle condizioni anomale di quella stagione. E solo ultimamente, con la scala aperta e una visione più allargata delle difficoltà, possiamo tranquillamente parlare di settimo grado.

Ma non potrà mai essere la pura difficoltà e nemmeno la bellezza, sempre soggettiva, dell’arrampicata a determinarne il valore. Che viene invece dalla sua storia e della sua idea. L’idea, appunto, del mistero.
Sarebbe ingiusto e intellettualmente disonesto ridurla alla stregua di una classica. Non lo potrà mai essere, a prescindere dal numero di chiodi, dalla quantità di informazioni o ripetizioni. Chi avrà la bravura e la fortuna di arrampicare su quelle rocce fredde e magnetiche, lo farà per motivi imperscrutabili che attengono al concetto di scoperta e di mistero. L’essenza dell’alpinismo.
Potremo discutere per anni delle tecniche, dei materiali, delle scale di difficoltà e degli stili. Ma sarà soltanto nel giorno in cui perderemo il senso del mistero, che questa grande storia tra gli esseri umani e le montagne, cesserà di esistere.

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