Mario Bājē

di Marco Berti  (Kharikhola – Solu Khumbu – Nepal)

 

Mario Bājē l’avevo incontrato per la prima volta nel 1994.

Era Mario Bājē solo per noi, quelli della spedizione al Baruntse del 1997, per il resto del mondo era Mario Zolli, medico diabetologo, infinito idealista di sinistra, amico di preti illuminati, entusiasta e incontenibile appassionato della montagna, padre orgoglioso dei figli e l’uomo più innamorato della moglie che io abbia mai conosciuto.

Era il 1994 quando lo incontrai per la prima volta, era candidato per i ‘Progressisti’ alle elezioni del ’94, parlammo subito di montagna e gli promisi che se avesse vinto l’avrei portato in cima al Monte Bianco. Non vinse, fortunatamente non vinse. Troppo idealista, troppo pulito e troppo ingenuo per un mondo, quello del parlamento, dove non ragioni con il cuore, mentre invece lui ragionava solo con quello.

Mario era un semplice, orgoglioso della sua venezianità, parlava spesso in dialetto, in montagna appariva goffo ma non lo era e aveva una grande tenacia, non mollava mai e, guardando in alto, verso le cime, sognava e sognava tanto.

Nel ’97, per il Baruntse, nel scegliere le persone, gli alpinisti, diedi priorità alle capacità del singolo nel fare squadra. Mario, l’ultimo dal punto di vista alpinistico, era il primo del gruppo nel creare coesione tra le persone. Non potevi non volergli bene.

Partimmo dall’Italia, lasciammo Kathmandu, raggiungemmo Lukla e da lì su verso la solitaria e selvaggia (all’epoca) Hinku Valley, lasciando dall’altra parte delle montagne la più turistica valle del Khumbu. Si saliva felici, spesso ci fermavamo a cantare “Le glorie del nostro Leon …”, l’inno di guerra della Repubblica di Venezia, mentre i portatori ci guardavano tra il perplesso, l’incuriosito e il divertito per quelle urlate stonate tra il baritono e il basso.

E’ in quei giorni che Mario divenne Mario Bājē che in nepalese significa “nonno”, questo grazie alla sua barba bianca e per il fatto che era il più vecchio della spedizione.

Io ogni tanto facevo battute pesanti sulla bellezza delle donne e su qualche sogno erotico. Lui mi riprendeva, perché ero sposato, e non ammetteva che chi ama una donna potesse permettersi di pensare ad altre donne. Quando parlava di sua moglie, Ida, era come parlasse di una dea, per lui era la donna più bella del mondo e su questo non si poteva discutere. Io sorridevo ma mi affascinava questo incondizionato amore anche perché Mario non lo esprimeva con melenserie, non era un romanticone, ma Ida era la donna per eccellenza, la donna della sua vita, la più bella che esistesse.

Superammo il Zatrawa Pass, alto 4.600 metri per poi andare verso la nostra montagna. Verso Tangnang accompagnai i miei compagni in una grotta dove tre statue del Bhudda erano legate ad un’affascinante leggenda. Grazie alla bellezza del luogo e all’atmosfera del momento, Mario era come in trans, definì quel primo tratto del percorso ‘un pellegrinaggio’.

Arrivò il giorno in cui dovevamo superare il Mera La a 5.400 metri. Partii insieme a Mario dai cinquemila metri di Khare perché appariva un po’ stanco. Volevo stargli vicino. La neve era alta e lui faceva fatica a mettere un piede davanti all’altro. Avanzava piano ma avanzava. Quando raggiungemmo il passo, i portatori che affondavano nella neve, non avevano più intenzione di proseguire anche a causa della fitta nebbia che impediva di capire dove si doveva andare. Pochi giorni prima, il portatore di un’altra spedizione, era morto di sfinimento non lontano da lì. Lasciai Mario nelle mani di Luciano, il medico ufficiale della spedizione, e poi iniziai a battere traccia invitando i portatori a seguirmi. Bisognava andare giù, oltre il Mera La. Tutti ripresero in spalla i carichi e così la carovana ripartì per valicare il passo.

Io e Luciano ci parlavamo via radio per capire lo stato d’animo dei portatori e le condizioni fisiche di Mario. I portatori avanzavano mentre Mario era sempre più in difficoltà. Mi fermai ad aspettarli. Arrivò Toni, un altro membro della spedizione, era molto stanco per cui lo invitai a proseguire per raggiungere la piana che era la meta di quel giorno. Nel frattempo arrivò sera, la nebbia persisteva e la neve era sempre tanto alta, nevicava e si affondava fin oltre le ginocchia.

Luciano mi avvisò via radio che c’era il rischio di edema. Chiesi al fortissimo cuoco e al suo aiutante di caricarsi Mario e portarlo in una specie di cengia dove li stavo aspettando. Ci provarono, Mario era pesante. Sempre via radio mi dissero che per loro era impossibile portarlo giù. Non so se fu merito di una iniezione di non so cosa che Luciano gli aveva fatto, ma sta di fatto che si tirò un po’ su e in qualche maniera riuscì a raggiungere, aiutato dallo stesso Luciano e dai due nepalesi, la cengia dove li stavo aspettando. Gli andai incontro e mi resi conto che la situazione era critica.

Mandai avanti il cuoco perché approntasse la cucina per tutti gli altri, portatori e alpinisti, che avevano bisogno di mettere qualcosa sotto i denti. Mario non ce la faceva più a proseguire. Lì in alto eravamo rimasti in cinque: Mario, Luciano, Pemba Sherpa, mio fratello Ang Dorjee Sherpa e il sottoscritto.

Dovevamo ancora fare un po’ di salita e così Ang Dorjee se lo caricò in spalla. Desistette dopo venti metri. Ci provai io ma con lo stesso risultato. In qualche maniera raggiungemmo il punto più alto, da lì sarebbe iniziata la lunga discesa. Diedi il mio zaino a Pemba che si trovò a portare uno zaino davanti e uno dietro. Io misi Mario con il petto appoggiato alla mia schiena e le sue mani appoggiate alle mie spalle incitandolo a muovere le gambe. La discesa, il perdere quota, lo scendere sotto i 5.000 metri, lo avrebbe sicuramente aiutato a recuperare un po’ di forze, almeno così speravo.

Arrivò il buio e si avanzava alla luce delle pile frontali. Cercavo di scorgere a valle, in lontananza, le luci del campo. Niente. Luciano stava qualche metro avanti a noi anche per intervenire in caso di un peggioramento di Mario.

Qualche tempo dopo, Luciano descrisse la discesa dal Mera La come una scena tragicomica. Io scendevo un passo alla volta sprofondando nella neve con il peso di Mario che si appoggiava sulle mie spalle e ogni tanto diceva cose senza senso o che non ce la faceva più. Così cominciai a cantare ” … siamo la coppia più bella del mondo …” e “… chi non lavora non fa l’amore …”.

Ad un certo punto Pemba mi restituì lo zaino, non ce la faceva più. Mi ripresi lo zaino così tra me e Mario si creò una specie di cuscino, forse più pesante per me ma più comodo per lui. Continuavo con ” … siamo la coppia più bella del mondo …” e “… chi non lavora non fa l’amore …”. Oltre a cantare, gli ricordavo che c’era Ida a casa ad aspettarlo e poi sparavo cazzate per rincuorarlo o in qualche maniera distrarlo. Le ore passavano e sembrava non finire più. Poi, finalmente, le luci del campo.

Qualcuno mi venne incontro per aiutarmi, lo fulminai: “ … il mulo porta fino in fondo il suo alpino!” e così feci. Lo lasciai davanti alla tenda nelle buone mani di Luciano che, anche lui, fino a quel momento aveva fatto una gran fatica nell’aspettare il lento avanzare mio e di Mario.

Il giorno dopo ci svegliammo con un bel sole. Mario uscì dalla sua tenda provato ma sorridente, ricominciò a parlare della donna più bella del mondo: Ida, sua moglie.

Da quel giorno mi sentii in qualche maniera responsabile del suo andare in montagna. Gli feci un’epica piazzata quando con Luciano salì il Cristallo in una giornata di temporale. Esagerai ma lui non se la prese.

Ogni tanto ci se vedeva a bere vino, a mangiare una fetta di salame e a fare progetti su salite che non abbiamo mai fatto. Poi un giorno Ida se ne andò troppo presto. Chiamai subito Mario, sembrava avesse accettato che anche la sua Ida, la bellissima Ida, non ci fosse più. Programmammo una gita in montagna per il fine settimana successivo.

Invece no, Mario se ne andò con la sua bellissima moglie. Il mondo che stava attorno, anche le montagne non avevano più motivo di esistere.

Oggi, sabato 9 luglio 2016, Mario ha raggiunto Ida e so che sarà felice. Forse riguarderà le montagne come un tempo e così potrò salire in cima ad una vetta, aprire una bottiglia di raboso e alzare il bicchiere al cielo per salutare un amico indimenticabile.

 

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