Chicken Wings sull’Aiguille du Peigne

di Saverio D’Eredità

Se siete stati a Chamonix, sicuramente avrete – almeno una volta – ordinato una birra all’Elevation. E se non ci siete mai stati, bè, è la prima cosa da fare quando dovrete incontrare qualcuno, pianificare la prossima impresa o millantarne altre. Anche perché vi danno la password del wi-fi e questo vi permette di postare in diretta foto e stati d’animo, visto che mezzo mondo si starà chiedendo quale grande impresa stiate preparando. Potrete trovare un’ottima selezione di birre belghe, anche trappiste o triplo malto, una vasta scelta di burger di varie taglie e condimenti, nonché una fauna umana particolarmente variegata. È qui che potrete immergervi nella tipica, internazionale ed autoreferenziale, atmosfera chamoniarda. Potrete trovarvi gomito a gomito con gruppuscoli di yankees con il cappellino a visiera, spagnoli molto motivati, presuntuosi locals ed una vasta gamma di inglesi. Tra questi potreste individuare i pro-nipoti di Edward Whymper così come gente più scassata, epigoni dell’epopea dello Snell’s camp. Talvolta, più raramente, vi naufraga anche qualche famiglia italiana spinta fuori dal main-stream del corso centrale.

In ogni caso all’Elevation, la cosa simpatica oltre alle birre e agli avventori sono i camerieri. Sempre molto amichevoli ed anch’essi eterogenei. C’è un tipo piuttosto massiccio dalla sbalorditiva capigliatura riccioluta e dalla folta peluria che sembra il “Sandrino”, intellettuale in salopette ed ascella pezzata del Secondo Tragico Fantozzi; un paio di personaggi tatuati e palestrati e un altro che pare uscito da un balletto dei Village People o da un qualche locale gay di New York. Ai camerieri potrete chiedere una bella Afflighem triplo malto e accompagnare il tutto con le Chicken Wings, gustosissime alette di pollo fritto da intingere con salsette di vario tipo. Vi assicuro che la vostra dieta ne trarrà beneficio, le idee si chiariranno e vi sentirete dei veri climber a Chamonix. Sullo sfondo “les Aiguilles” sono il fondale di cartapesta delle vostre più torbide ambizioni e il mix di fritto alcool e mondanità vi renderà incautamente euforici.

Boni sti chicken wings” commentiamo una sera col Biaso quando ormai avevamo spazzolato tutte le ipotesi, da No Siesta sulla Nord delle Jorasses all’Aiguille de l’M, con la solita chiarezza di idee e soprattutto il solido realismo.
“Chissà come li fanno!”
Ecco, come si prepara un chicken wing l’avremmo (quasi) scoperto da soli. E sulla nostra pelle.
Ma facciamo un passo indietro. Dovete infatti sapere che quei pessimi soggetti che sono gli alpinisti, hanno la tendenza ad intestardirsi e reiterare gli errori. Di solito nemmeno obbediscono a più classici schemi di apprendimento che si possono osservare sulle cavie da laboratorio. Ad un’esperienza negativa non reagiscono prendendo precauzioni o accorgimenti, come farebbe il previdente criceto che ha preso la scossa. Sicuramente ritenteranno la medesima azione prendendo nuovamente la scossa. Non so se avete presente la puntata dei Simpson in cui Lisa fa l’esperimento sul criceto e Bart. Ecco, guardatela: noi siamo i Bart Simpson della situazione.

Da un lato abbiamo dunque un Biaso più agguerrito che mai, il quale ha appena dichiarato guerra all’Aiguille du Peigne: ingolosito dalla fresca ripetizione di quella splendida via che è la “Contamine Vaucher,” ha potuto giusto annusare il profumo della vetta senza poterla gustare.
Insomma, la classica femmina bizzosa che non si concede.
Dall’altro c’è il Lillipuziano sottoscritto il quale, 3 anni orsono, aveva cancellato les Aiguilles dal proprio atlante alpinistico. Dopo la bastonata dell’Aiguille de l’M, infatti, avevo bollato la roccia delle Aiguilles come il “granito di Carnia”. Bella, compatta, certo; ma liscia da far schifo, per di più lichenosa e solcata da quelle fessure squadrate tanto pittoresche quanto inutili dove o ti incastri e sei un mago, o usi il crick dell’auto per proteggerti. A dirla tutta, quella volta, in due avevamo messo insieme 3 friend di misure medie e non so davvero dove pensavamo di andare.
Ma tant’è, fare gli arroganti paga sempre.
Aiguilles des Chamonix? Mah, non vale la pena, sapete dev’essere una roba per locali, come quando noi andiamo che so – sulle Torri del Peralba. Roba vecchia”. Scrollatina di spalle, faccia da bronzo, e via a blaterare di piloni. Mi ero ripromesso di non metterci mano.
E invece, complici Chicken Wings, Afflighem e la persuasione del Biaso, esperto di stalking alpinistico, è finita che ci sono ricascato. Anche perché a vederle così, quella sera, tagliate dalla luce del tramonto che le faceva fiammeggiare nel cielo non potevo non cedere al loro richiamo. E il piano del Biaso era gustoso tanto quante le chicken wings sfrigolanti: combinare ben 4 vie, dalle placche di Piola alla fessura Lepiney scorrendo all’indietro la storia delle Aiguilles e sperimentando tutti i tipi di scalata possibile.
Del resto, se da un lato volevo davvero ambire a spuntare una ad una le “100 più belle del massiccio” da qualche parte dovevo iniziare, se non altro a capire se il granito è una roccia scalabile o se era meglio lasciar perdere definitivamente. Dall’altra se volevamo rinnovare i nostri appuntamenti serali all’Elevation, inzuppando chicken wings nella salsetta rosa e atteggiarci a con sguardo accigliato a grandi alpinisti, dovevamo – almeno formalmente – metterci la coscienza a posto.
Non avremmo altrimenti potuto biasimare, con fare saccente, quei turisti dell’Alpe che si aggirano con piccozza da 60 cm e corda in spalla per le vie del centro con l’aria di chi è appena ceso dalla nord delle Droites.
“Te vedrà che ben!” suggellò il Biaso “dal Peigne torni che sei pronto per i Drus”. Giù altra sorsata e via. Il “Modulo Maccio” era approvato.

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Enrico “Biaso” Biasotto sulle placche della via “Lepydopteres” all’Aiguille du Peigne – foto S.D’Eredità

La mattina dopo sbarco al Plan de l’Aiguille con la consueta, fallace sensazione di approccio dolomitico. Erbetta, scampanii, pareti vicine. Dopo un’ora di avvicinamento su ignobile pietraia inizio a capire perché il Biaso ha tanto insistito con me: ha capito che sono la preda facile per giornate ad alto tasso di massacro.
La cima sembra appartenere ad un altro massiccio e da un rapido quanto tardivo calcolo mi rendo conto che abbiamo sulla testa quasi 500 metri di pareti varie.
Bisogna infatti sapere che la “Peigne”, la cui pronuncia nella bocca del Biaso suona più come Pigna, come ogni ultimogenita di una grande famiglia ha quel classico caratterino peperino di chi, vissuto all’ombra delle sorelle, si avvantaggia delle poche attenzioni dei genitori. Sarà anche la più piccola, ma si difende bene, con una cima appuntita come una matita da disegnatori e una fucilata di placche e fessure che replicano in piccolo le grandi forme della Blaitiere. Le consorelle la sorvegliano e la proteggono, dandole sicuramente consigli malvagi su come illudere e poi scaricare alpinisti innamorati. E già all’attacco ci rendiamo conto che il corteggiamento sarà tutt’altro che scontato.

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Cresta dei Papillons; la torre sommitale dell’Aiguille du Peigne sorveglia – foto S.D’Eredità

Plasmate come una sorta di arena di granito scuro, le placche basse dell’Aiguille du Peigne piombano veloci con dei toboga compatti e lisci, macchiati qua e là di licheni decorativi e interrotti da sottili fessure. Eppure si tratta di un dettaglio, perso nell’oceano di pietra che ci circonda.
Michel Piola oltre che un grande alpinista dev’essere anche un gran volpone: non è un caso che un gran numero delle sue vie entrino nella “top chart” delle scalate di Chamonix. Lo potremmo definire uno “scopritore di talenti” applicato a pareti rocciose. Di sicuro uno con la vista lunga. Su queste placche periferiche e senza particolare dignità alpinistica ha saputo scovare due linee davvero accattivanti, tra cui la celebre “Le Ticket, le carrè, la ronde et la lune” che solo a guardarla già ti trema il polpaccio: una sequenza di placche di aderenza con rughe minime. Non a caso nella guida del nostro amico Charlie è segnalata con tripudio di stelline e un cuore volante. Run out garantiti e tecnica di spalmo sublime.  La sorellina è invece un omaggio al contesto entomologico della parte bassa del Peigne: la via dei “Lepydopteres” di fatto può essere considerata un rapido accesso alla parte superiore, congiungendosi alla cresta dei Papillons nel suo tratto finale.
Il Biaso mi porge la bandoliera del materiale con un sorriso che lascia intendere tutto e parto. Nel dubbio approccio la scalata con un tipico atteggiamento carnico. Ovvero: chiappe strette e diffidenza verso tutto ciò che ti circonda. Lo ritengo un approccio quasi sempre vincente. Da sotto il Biaso si compiace dei miei progressi mentre io non faccio che recriminare sulle folli scelte della prima sessione chamoniarda.

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Biaso sul “crux” dei Lepydopteres – foto S.D’Eredità

La scena della bandoliera si ripete poche ore dopo, alla base dello spigolo sud-ovest del Peigne, dove mi attende il secondo esame del Modulo. Fessura chamoniarda Belle Epoque dalla larghezza malvagia gradata quartopiù. Credo che un po’tutti noi abbiamo avuto modo di discutere con questo genere di passaggi nel corso della nostra formazione alpinistica, constatando la nostra inadeguatezza rispetto ai giganti del passato. Passano lunghi minuti di riflessione storico-antropologica, prima di rendermi conto che non una delle chincaglierie che porto addosso potrà aiutarmi a risolvere il rebus di una fessura dove ogni tecnica va a farsi benedire e l’unica cosa che ti può salvare è un po’di azzardo e poco interesse per l’estetica.
Una volta giunto in sosta traggo due semplici conclusioni: la prima è che quei signori incravattati erano veramente dei maghi nel giostrare su fessure ed affini. La seconda è che anche se non sapevano cosa fosse un telefono e le loro previsioni si basassero più sui proverbi che sulla scienza, anche in quello ci sapevano fare più di noi.

Probabilmente ieri sera all’Elevation avevamo ordinato qualche boccale di Afflighem in più e sottovalutato l’aspetto meteorologico: del resto eravamo abituati a consultare i diversi modelli almeno ogni due ore, con inevitabile ripercussioni sulla nostra stabilità psichica, la soglia dell’attenzione ed i rapporti sociali. E nemmeno avevamo colto i segnali inconfutabili del mattino – quelli che i signori con il cappello di feltro di certo avrebbero saputo interpretare – ovvero un certo caldo anomalo, la coda delle mucche e la persistenza di nubi basse. Ottenebrati dallo strapotere tecnologico del tempo reale eravamo infatti cascati nella più classica delle trappole euristiche. Nel giro di un solo tiro di corda eravamo passati da un ottimistico sole al più cupo sconforto, che si stava manifestando in un minaccioso fronte temporalesco ben deciso a conquistare le Aiguilles de Chamonix. A dire il vero nel corso della nostra entusiastica salita altri due segni premonitori si erano palesati nel cammino.
Sulle placche del mattino, infatti, avevamo condiviso parte della via con una tipica cordata internazionale “alla Chamonix”, di quelle che ti fanno ritrovare fiducia negli ideali di fratellanza universale ed internazionalismo. Un francese che parla spagnolo e un cileno che vive in Norvegia e parla inglese che in realtà fanno un gran casino, più con le corde che con gli idiomi. Dopo un paio di tiri il francese ingrana la quarta, omette le protezioni e allunga con decisione. Il solito machismo da local penso. In realtà, una volta giunti in cresta, ho appena il tempo di vedere i franco-cileni dileguarsi lungo il canalone di discesa a velocità inspiegabile.
Il secondo segno premonitore ci viene benevolmente offerto dal dio dell’Alpe pochi minuti prima della catastrofe. Al forcellino abbiamo modo di intrattenerci amabilmente con una cordata prettamente savoiarda che, con grandi sorrisi e generosità di dettagli, ci illustra ogni particolare dell’ultimo tratto della guglia, consigli per le calate e anche sull’aperitivo. Grandi pollici alzati, sorrisi e beneauguranti “Peak day! Bonne chances” prima di sparire e lasciarci soli con noi stessi e la “Pigna”.
Insomma, i locals avevano mangiato la foglia o forse avevano solo visto meglio l’ultimo aggiornamento, ma si erano ben guardati dall’avvisarci. Probabilmente si trattava di un problema di dialogo interculturale.

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Fessura chamoniarda sullo spigolo sud-ovest dell’Aiguille du Peigne – foto S.D’Eredità

Maccio, qui finiamo come i chicken wings” mi urla il Biaso da dietro una quinta dove si è acquattato mentre i primi chicchi di grandine picchiettano sul casco. Io penso di aver già visto questa scena, non saprei dire se nella mia immaginazione o nella vita reale.

Tutti i cultori di letteratura alpinistica credo abbiano bene in mente il passo dei “Giorni Grandi” in cui la tempesta avvolge la tragica cordata del Freney.  Il momento in cui un determinato Pierre Mazeaud, impegnato ad attrezzare il primo tiro di artificiale della Chandelle sente il suono del chiodo vibrare in maniera particolarmente argentea rimane, a mio avviso, uno dei passaggi più intensamente drammatici della “letteratura bonattiana”. La svolta tragica si compie nell’arco di pochi minuti. Dal granito dorato nel cielo cobalto alla tempesta più furiosa. La “tempesta perfetta” del Bianco.
Credo di aver talmente assimilato quel passo da renderlo parte dei miei viaggi mentali dell’adolescenza. Non c’era grande alpinista senza una grande tempesta. E non c’era grande alpinismo senza una grande ritirata. Credo scrissi un tema su questa trama, meritandomi un voto inferiore alle mie attese con qualche nota preoccupata dell’insegnante sulle mie tendenze autolesionistiche.
In ogni caso per anni ho tenuto fin troppo ben in mente quel passo de “I Giorni Grandi”, certo che prima o poi anche io avrei avuto a che fare con “stelle e tempeste”, per dirla alla Rebuffat.
Il fronte attorno a noi si chiude rapidamente, fagocitando in una nube d’acqua un malcapitato monte dalle parte delle Aiguilles Rouges. Tuttavia la cosa che più mi inquieta è il non sapere nemmeno il nome, di quel monte. Aggrappati allo spigolo della Peigne come mozzi all’albero di una nave che sta per entrare nella tempesta, ci sentiamo incredibilmente esposti, maledettamente soli e inconfutabilmente fottuti. Come a non voler solleticare ulteriormente gli dei, Biaso si tuffa silenzioso e rapido nella fessura successiva. Perché se non diciamo niente magari non si accorge.
E finché rimane nebbia si può fare.
Ma anche piovesse un po’, si potrebbe fare.
Al limite, anche se fioccasse un po’, si potrebbe fare.
Forse se tuona, però, è meglio tornare indietro.
Un tuono che pare il tonfo di un petardo in un pozzo, scuote l’esile guglia. Il volto del Biaso dice tutto. “Sai che forse le chicken wings oggi non mi vanno tanto?”

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Ritirata dalla aiguille du Peigne – foto S.D’Eredità

Seguo il Biaso passo passo nella nebbia. O forse è lui che segue me. Con le teste ritratte nei cappucci e l’acqua che sgocciola lungo le maniche e dentro la schiena, procediamo muti a ritroso lungo la via. Nei nostri sguardi, incrociati di tanto in tanto, non c’è traccia di recriminazione né di rimpianto.
Perché c’e, in questa ritirata, qualcosa di diverso da quel rimuginare mesto di tante altre rinunce piene di se e di forse. Qualcosa che ci rende più intimi con la montagna stessa, come se essa stessa avesse voluto riservarci un trattamento del tutto particolare ed esclusivo.
Forse era vero, dunque, proprio come in quegli stralunati pensieri giovanili, che nella ritirata si nascondeva forse un’esperienza più profonda ed intensa. Persino questa nebbia che s’appiccica ovunque, questa pietra divenuta d’improvviso una saponetta, questi cupi lamenti che mischiano i tuoni alle scariche, ci paiono preziosi ed unici.
Seguo ancora il Biaso nella nebbia che si fa pioggia sottilissima. Si forma in rivoli tra le spaccature da cui risorge l’erba brillante, rende viscide le intrusioni di quarzo. Ci rende attenti, ricettivi ad ogni minima ruga, al prossimo passo da fare. Richiami, rimbombi di scariche o tuoni. Cordate che si cercano come naufraghi.  Ci ritroviamo tutti insieme al salto del crepaccio. Sorridiamo.
Intuiamo tra le ombre i profili della guglia, ondeggiante come vascello di pirati alla deriva.
E ritroviamo una natura spoglia, cruda. Vera. Il cui sapore sa  essere ora dolcissimo ora acerbo. Il cui sapore è vivo.

(continua…forse!)

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Cercando la via, sull’Aiguille du Peigne – foto S.D’Eredità

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