La curva del Gasex

di Saverio D’Eredità

Si dice che l’avventura inizi sempre “un po’più in là”, oltre quella che un termine piuttosto abusato e dal sapore di marketing chiama la “zona di comfort.” Sinceramente non ho mai capito cosa sia questa zona di comfort né ho speso del tempo a definirla. Se dovessi proprio rifletterci, dovrei dire che ci sono situazioni piuttosto comuni (tipo passeggiare in un centro commerciale o cercare l’auto nei parcheggi sotterranei) in cui sento di trovarmi ben al di là della mia “zona di comfort”. Però è un po’triste come cosa, per farne un’avventura.

Il tubo del Gasex spunta dalla neve come il boccaglio di un sub dall’acqua e passandoci vicino mi chiedo se sono ancora nei margini della mia zona di comfort, su questo pendio circondato da impalcature, seggiovie e con l’“unz-unz” di sottofondo che sale dagli altoparlanti degli impianti. A giudicare dal numero di volte che mi fermo per valutare la pendenza dovrei ammettere che non è esattamente così. Strano monte, eh, il Forato. Come tante cime del Canin non brilla per eleganza o bellezza, con quella sua forma a parallelepipedo e le forme ingombranti. Pare un lavoro lasciato a metà o un rudere dimenticato. Come tante cime del Canin, però, offre angolazioni stupefacenti dalle quali appare affilato e persino leggero. Una bellezza sempre un po’controversa, quella del Canin, dove è la somma delle parti, più che il singolo scorcio, a fare impressione. Soprattutto quando l’inverno qui si fa paziente artigiano, operando stucchi e decorazioni, rendendo le anonime stratificazioni e i profili spigolosi incredibilmente vari, affascinanti e misteriosi.

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In tutto questo, però, il povero Forato se la passa sempre un po’ male, quasi si fossero messi d’impegno ad imbruttirlo. Grovigli di cavi, piloni, sbancamenti circondano e avviluppano ogni versante. Dimenticavo, in cima c’è anche uno strano bussolotto che sembra una stazione lunare e qua e là se ci fai caso spuntano vecchi ferri ritorti della guerra e fili spinati. Non si direbbe proprio una montagna dove vivere grandi avventure. Eppure, non c’è una volta delle tante in cui ci sono salito che non mi sia trovato, anche solo per una breve parentesi, a passare quella soglia che divide l’abitudinario dall’ignoto. Come ad esempio sulla curva del Gasex. Bisogna ammettere che se non ci fosse questo brutto tubo di metallo, la pala est del Forato passerebbe quasi inosservata. Non così lunga da fare veramente impressione e non così ripida da solleticare sciatori di livello. Eppure quel tubo, piantato lì in mezzo, pare star lì apposta per disegnarci una curva attorno. A segnare il confine dell’avventura a pochi passi dal mondo conosciuto.

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Da bambino mi spaventava il blu profondo del mare. Dalla spiaggia di ciottoli potevo vedere le varie gradazioni di azzurro scurirsi via via da quello più chiaro e trasparente della riva, fino al nero del mare alto. Ad una distanza che non riuscivo mai a stimare, emergeva dalle acque una strana struttura, una specie ragno di cemento e acciaio a quattro zampe corroso dalla salsedine e dal vento. Mi sembrava che il mare lì fosse più cattivo e nero. Persino più lontano. Ma forse era proprio quello strano scheletro tappezzato di alghe e mitili, a farmi paura. A dare una dimensione alla profondità del mare. Ogni volta che arrivavo lì, deciso a nuotare nel mare nero, succedeva qualcosa che mi ricacciava indietro. Un giorno, infine, decisi di passarci attraverso. Potevo aggirarlo o nuotare in un’altra direzione, è vero, ma il mare alto, il mare nero, iniziava lì. Per farmi forza presi a battere forte i piedi ed infine mi immersi a pelo d’acqua, cercando di contrastare la corrente. Appena sotto la superfice l’acqua era calma e ferma. Piccoli pesci brucavano le alghe appese al palo di cemento e tutto era silenzio. Riemersi appena oltre, nel mare alto e nero, oltre il confine della paura e di un tempo che mi parve infinito. La riva chiassosa di mamme e bambini non era che a poche bracciate da lì.

Inforco gli sci sulla lunga dorsale della cima e mi avvicino al bordo. Attraverso le punte, posso vedere il profilo del gasex e intuire l’inclinazione del pendio, come quel ragno di cemento mi dava la profondità del mare. Come quella volta, devo passarci attraverso. Se dovessi pensare alle altre volte che sono sceso di qua, alla neve cotta a puntino e al fatto che – in fin dei conti – non sono che poche curve dovrei sentirmi all’interno della mia zona di comfort. Anche meglio di un parcheggio sotterraneo. Eppure la curva del gasex riesce a smontare una ad una le mie certezze, i precedenti e il senso di controllo. Non sto più contando le volte in cui questa scena si è già ripetuta, né ricordando come avevo fatto la prima curva l’ultima volta, che traiettoria avevo preso o se posso distinguere le voci degli sciatori, l’unz-unz degli altoparlanti e l’odore di fritto. L’avventura è come un varco aperto d’improvviso in un mondo parallelo. Puoi decidere di entrarci o meno, e con quali regole. Soprattutto, l’avventura inizia nel momento in cui le nostre certezze vengono meno e affiorano le domande più elementari. Quando iniziamo a dare un valore alle cose. Quando tutto è di nuovo in discussione. E ci riappropriamo di una parte di noi.

Salendo al Forato: alla nostra destra, il tubo del Gasex – foto Melania Lunazzi

Beyond Good and Evil

di Emanuele Andreozzi

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foto www.millet-mountain.com

Beyond Good and Evil è la famosissima via aperta dallo statunitense Marc Twight e dell’inglese Andy Parkin nell’aprile del 1992, sulla parete nord dell’Aiguille de Pèlerins, rimanendo sulla montagna 45 ore. Il fantastico diedro su cui si sviluppa la via è ben visibile da Chamonix, difatti erano in tanti ad aver adocchiato questa linea, così per soffiarla ai “locals”, i due andarono ad aprirla in condizioni non ottimali e con la funivia chiusa. Nel diedro trovarono un’esile rigagnolo di ghiaccio, sufficiente a malapena ad intasare la fessura. L’arrampicata fu difficile e di grande impegno, furono piantati tanti chiodi e superati alcuni tratti in artificiale fino all’A3, il ghiaccio non fu mai sufficientemente spesso per poter piazzare una vite. Bivaccarono e completarono la via il giorno seguente affrontando difficoltà ancora maggiori fino in cima, Andy al tredicesimo tiro volò direttamente sulla sosta. Marc Twight fiero della realizzazione, dichiarò che solo i migliori arrampicatori del mondo potevano essere in grado di ripeterla. Nelle sua relazione disegna un ironico AH AH su una traversata, mentre un teschio con le ossa incrociate indica un passaggio “delicato” su dei blocchi verso la parte terminale. La via acquisisce così un’aura di miticità, il che sicuramente rode ancora di più ai locals, che per attendere le condizioni migliori, sono rimasti con un pugno di mosche in mano.

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Rimmel

di Saverio D’Eredità

Lei ha un volto segnato dalla bellezza, una malinconia di pietra e due occhi che sanno guardarti attraverso.
Sfinge, la chiamano. Ma non è che sia cattiva, lei. Non spaventa e non mangia gli uomini, le sue domande non sono tranelli.
Sono gli uomini che un bel giorno si sono accorti di lei, e hanno cominciato a corteggiarla, prima timidamente, poi sempre più sfacciati. E per ingraziarsela hanno disegnato linee sui suoi fianchi larghi, sfiorato il suo viso, cingendone il collo.
Sfinge, la chiamano, forse per quell’aria triste e severa o per lo sguardo sempre perso in un indefinito orizzonte. Sotto il suo occhio una riga di rimmel sbiadito, a sottolineare la malinconia di una ragazza che troppo tardi scopre di essere donna. E che una vita intera le è passata davanti.
Dev’essere stato forse in quel giorno in cui hanno separato le montagne e aperto le valli, e ammassato sassi a casaccio, dando nomi, dividendo in gruppi, spartendo il territorio. In quel fuggi fuggi generale lei è rimasta lì senza sapere dove andare ed è finita che l’hanno lasciata sola, con un padre troppo severo e una madre possessiva che la tiene incatenata tramite un guinzaglio di creste turrite. Continua a leggere

Nel giardino della Sfinge

di Saverio D’Eredità

Prologo

Lo zapping dopo mezzanotte può sempre rivelare delle piacevoli sorprese di fine giornata. Me lo concedo ogni tanto, a cercare uno spunto prima di rassegnarmi al sonno, magari un quesito insoluto con il quale rimuginare nella fase di dormiveglia. Bisognerebbe sempre andare a dormire con un dubbio, qualcosa di incompleto, per dare senso alla giornata.

Poco prima di arrendermi definitivamente al vuoto del palinsesto mi imbatto in documentario su Lou Reed. Interessante, penso. Le cose interessanti le piazzano sempre in sesta serata. Come se la gente non fosse in grado di capire certe cose. L’imbarbarimento comincia senz’altro dall’alto.

Lou Reed è sempre stato un maestro oscuro e silenzioso. Ne possiedo una discreta discografia e puntualmente negli anni ha accompagnato lunghi tragitti in auto come certi momenti di transizione. Non è musica da hit, questo si sa. Non ha il passo epico di gruppi coevi e forse proprio per questo affascina. È un bardo umile ed introverso, uno che ti dice le cose non per farti piacere, ma perché così le vede lui. Uno capace di mettere nello stesso album la acida “European Son” con la ninna nanna di Sunday Morning (la canzone di ogni domenica mattina dopo una sbronza), e album come Metal Machine e Berlin. Continua a leggere