L’uomo sulla piroga

di Saverio D’Eredità

Al di là di ogni tentativo di trovare una definizione o una categoria, per quanto ci si sforzi di descrivere le sensazioni che si provano, credo che sciare sia, essenzialmente, una possibilità. Non una cosa utile, né tantomeno necessaria. Divertente, spesso. Altre, a dire il vero, un po’frustrante. Altre ancora un tentativo o forse una scommessa. Eppure.

Eppure succede ogni volta di nuovo. Che quando hai quei due assi ai piedi, quando il “clak” degli attacchi sancisce il tuo legame, quando hai davanti un pendio, in quel preciso istante ciò che hai davanti è soprattutto qualcosa che ha a che fare con le possibilità. Di sicuro qualcosa succede, in te. Qualcosa che d’un colpo amplia la sfera del possibile e – in qualche modo – la sfera di te stesso. Anche se lì per lì assomiglia più ad un istinto incontrollabile, animale quasi, a metà tra infantile incoscienza e consapevole coraggio. Qualcosa che ci aggancia alla parte nascosta di noi, quella che ricacciamo sempre dentro a pugni. Perché non è bene. Perché non si fa. Perché. Perché.

Non ci sono perché, qui. Ci sono due assi attaccati ai piedi, c’è uno spazio da creare. Lasciare una traccia è un venire al mondo di nuovo. Anzi, è un modo di stare al mondo. Ancora di più, più preciso. È un modo di stare con il mondo. E ‘stabilire una relazione e quindi – ecco, sì – creare un po’ sé stessi. Rendersi possibili.

Creste Bianche – foto Saverio D’Eredità

A me, sciare, il percorrere uno spazio bianco decidendo – solo io, e solo per quel momento – la mia traiettoria, ricorda sempre la sensazione che ho provato il giorno in cui ho imparato ad andare in bici. Ve lo ricordate, voi, quando avete imparato ad andare in bici? Vi avranno tolto il ruotino senza dirvelo o un adulto premuroso vi avrà tenuto per il sellino, immagino. Io me lo ricordo bene, ahimè, un po’perché ero già grandicello e poi perché a dire il vero non c’è stato né ruotino né adulto premuroso. Ho imparato su una bici che non aveva freni e a casa di un compagno di classe, un 25 aprile della terza media. Del resto, la sola bici che poteva prestarmi l’amico era uno scassone senza freni e poi – a pensarci bene – per imparare qualcosa non deve essere sempre tutto perfetto. Non dobbiamo avere sempre tutto.

Ecco, il momento in cui son riuscito a fare due pedalate in equilibrio è stato soprattutto un momento in cui ho percepito delle “possibilità”. Ricordo che ho iniziato a prendere tutte le strade che mi capitavano e il mio amico Paolo mi inseguiva e rideva di me che pedalavo come un forsennato perché i freni non ce li avevo e non potevo che pedalare e basta. Ecco con lo sci è più o meno lo stesso. Cioè è ogni volta come imparare ad andare in bici la prima volta. Non so se mi riuscirà la prima curva. Non so se riuscirò a non cadere. È questo che lo rende interessante a mio modo di vedere. C’è uno spazio non del tutto noto. Un universo di possibilità.

Deve essere qualcosa che si è sovrascritto nei geni dell’essere umano. Almeno dal momento in cui il primo uomo ha intuito come un tronco potesse trasportarlo sull’acqua. Ve lo vedete il primo uomo su una piroga? Qualche volta me lo immagino, quell’essere un po’rozzo e non molto evoluto che – inconsapevole di varcare una soglia epocale – con uno sguardo determinato, spinge quel tronco scavato nell’acqua e ci si getta sopra. Me lo vedo si, quello sconosciuto antenato dai denti storti, la pelle sporca, i peli ruvidi e gli occhi colmi di stupore, che si allontana sull’acqua, il cuore un tumulto di paura e mistero verso quella sponda ignota che lo attende. Lo sapeva, quell’essere umano di migliaia di anni fa, che quello stesso gesto, quello stesso sguardo, quelle stesse indecifrabili sensazioni si sarebbero ripetute un numero infinito di volte per centinaia e centinaia di generazioni? Che quella piccola spinta avrebbe determinato il futuro del pianeta nudo che aveva davanti?

Come l’uomo sulla piroga, anche lo sci ci offre un varco attraverso il quale ci è dato espandere la conoscenza e la consapevolezza dello stare al mondo. È una possibilità che si ripropone indefinite volte, basta saperla cogliere. Saperla leggere, come possibilità.

Tutto sommato però sciare non è che una delle declinazioni possibili di questa possibilità. Un modo come molti altri (bè, forse più affascinante, di altri) di attraversare quel varco che ci permette di proiettarci verso dimensioni nuove e diverse di noi stessi. Qualcosa di necessario. Talvolta quel varco, quel breve spiraglio in cui intravediamo una possibilità, è l’unica cosa che ci rimane. E a cui ci aggrappiamo con tutte le nostre forze.

Scendendo da Forca La Val – foto Marco Battistutta

Sto esagerando. Non è solo lo sci che ti permette di varcare quella soglia. Ma la sensazione, ecco, quella sensazione – ci siamo capiti – potete cercarla dove vi pare, con chi vi pare, con l’attrezzo che preferite o anche senza niente. E la cosa sorprendente è che accade senza che tu possa deciderlo. In qualsiasi momento e ovunque. Una mattina d’estate in una stanza senza suoni e senza finestre. Lungo strade polverose, dove ti chiedi se ancora qualcosa di puro è rimasto. Può essere dietro ad una telefonata, tra le carte di un ufficio, all’uscita da scuola lungo la strada che fai sempre e un giorno – clack, il suono degli scarponi che ritorna, tin-tin, i bastoncini che sbattono a scrollarsi la neve, l’occhio che coglie una luce particolare su un particolare insignificante – invece ti apre quella possibilità. E sei di nuovo l’uomo sulla piroga.

Un giorno siamo saliti sul solito monte dove vanno tutti. Dove siamo andati centinaia di volte e torniamo quasi come se ci fosse, tra le strade, nelle indicazioni stradali, nei nostri umori, una sorta di declivio che ci lascia scivolare da quella parte. Siamo saliti lungo la solita strada, misurato per l’ennesima volta passi, curve, dossi, alberelli e radure. Notato, nell’intercapedine degli anni, qualcosa che ci era sfuggito e qualcosa che non c’è più. Siamo arrivati in cima, il solito giro di panorama, il solito commento che pare veniamo qui per ridire le stesse cose sempre. Ma stavolta su quel monte ci siamo girati dall’altra parte. E la vista di quel pendio – e la solita domanda: hai mai provato a scendere di là? – è stata irresistibile. Come sempre. Ma come nessuna altra volta prima di allora, abbiamo voltato le spalle alle tracce conosciute e ci siamo rivolti a quel fazzoletto sospeso verso non-so-dove. Non abbiamo bisogno sempre di saperlo, come non abbiamo sempre bisogno di tutto. Come i freni della bicicletta quando ho imparato ad andarci.

Quel gesto, quell’unico gesto, ha cambiato tutto. Come una lampadina accesa d’improvviso in una stanza buia, ci ha fatto capire che non eravamo venuti per percorrere la stessa traccia, ma per vagliare delle possibilità. Abbiamo chiuso gli scarponi, allineato le tavole, pulito gli attacchi dalla neve. In quella cura c’era la nostra responsabilità. In quella scelta un principio di libertà.

Proprio come l’uomo sulla piroga, lasciandoci scivolare lentamente sul pendio abbiamo ripetuto quel gesto antico. Allontanato la riva andando verso spazi bianchi, senza sapere esattamente cosa ci sarebbe stato oltre la linea d’orizzonte. Come avremmo attraversato il limite di quel bosco che pareva un muro senza crepe. Se ci sarebbe stato possibile raggiungere la valle da lì. Per sentirci nuovamente, selvaggiamente, il primo uomo o ogni uomo sulla Terra, una mattina di cinquemila anni fa da qualche parte in Indonesia o forse chissà in Mesopotamia. O anche adesso, in ogni luogo dove qualcuno cerca una via d’uscita. Un po’più vicini a quell’uomo, e forse un passo più lontani dal morire. O almeno, illudendoci di esserlo.

Non così lontano

“Humboldt ci pensò su. No, disse poi, me ne rammarico.
Una collina di cui non si conosce l’altitudine è un’offesa per la ragione che mi inquieta. Senza esaminare costantemente la propria posizione, nessun uomo può progredire. Non si lascia ai propri margini un mistero, per quanto insignificante.”

Daniel Kehlmann “La misura del mondo”

di Saverio D’Eredità

Oltre il tozzo pilastro del Robon, gli altipiani del Canin digradano di colpo verso le cime cupe della Val Rio del Lago. Questo contrafforte minore, finemente cesellato di rigole e goccette, è praticamente l’ultima parete delle Giulie procedendo verso sud. Al di là della Cima Confine, già brilla di luce la valle dell’Isonzo e il mare. Da qui in poi lentamente sfumano le Alpi, fondendosi nella placca balcanica ad altre montagne dal sapore d’oriente. Qui ci fermiamo anche noi, che nel frattempo siamo arrivati a trecentrotrentasette. Questo è il numero progressivo dell’ultima tra le vie inserite nella guida: “Rigoletto”, aperta da Marco Sterni e Massimo Sacchi nel 1998. Curiosamente questa parete non è solo l’ultima in senso geografico, ma anche cronologico dato che è diventata oggetto dell’esplorazione alpinistica solo a partire dagli anni ’80.
Si dice che Piussi e Cassin, osservando queste pareti durante una delle battute di caccia che erano soliti compiere da queste parti in autunno, fossero stati tentati, per un attimo, di rivestire i panni degli alpinisti che furono per lasciarvi un segno. Immagino la loro tentazione di riprendere chiodi e martelli e lanciarsi in una nuova avventura. Pare però che proprio Piussi smorzò l’entusiasmo dell’amico dicendo “Noi abbiamo fatto il nostro tempo, Riccardo. Lasciamo qualcosa agli alpinisti del futuro. Continua a leggere

Michele dalla Palma – 2 ottobre – Venezia

Giornalista e fotografo, esploratore e grande viaggiatore, ha realizzato molte spedizioni e centinaia di reportages, in ogni continente, per la stampa italiana e internazionale; Direttore Responsabile della rivista TREKKING&Outdoor.

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Atleta professionista nello sci alpino, maestro di sci ed ex-Istruttore Nazionale FISI, guida AIGAE, ex-istruttore di alpinismo e scialpinismo del CAI, dalla fine degli anni ‘70 si è sono dedicato alle scalate sulle grandi montagne del pianeta, organizzando numerose spedizioni in tutto il mondo, dall’Himalaya alle Ande, dai deserti africani alla Patagonia e alla Tierra del Fuego. Tra le imprese più importanti la partecipazione nel 1984 alla salita del Makalu (8481 metri), quinto gigante del pianeta; importanti salite sulle Ande peruviane e prima salita dell’inviolata parete ovest del Pisco (1985); prima ascensione solitaria alla parete nord del Nun, 7135 metri nel Tibet Occidentale (1986), Nel 1987, con Alberto Salza ed Enzo Maolucci ho compiuto la traversata integrale della Suguta Valley, 370 chilometri a piedi in autosufficienza nel Grande Rift africano tra il Kenya e l’Etiopia, uno dei luoghi desertici più ostili del pianeta.
Nell’inverno 2006 ha attraversato la Siberia da Vladivostok agli Urali e nell’autunno dello stesso anno ho compiuto una delle prime traversate integrali della Dancalia, nel Corno d’Africa.
Nel 2007, con 4 amici americani e un cacciatore Innuit, ha percorso, in un mese di totale isolamento e autosufficienza, oltre 400 chilometri in canoa in una delle ultime zone inesplorate dell’Alaska, fino al Mar Glaciale Artico.

http://www.micheledallapalma.it/www.micheledallapalma.it/HOME.html

Il Canale dell’Altrove

di Saverio D’Eredità

E’ un po’come quando un giorno decidi di rompere gli indugi e bussare al tipo/a della porta accanto per andare a bere fuori qualcosa. Vi siete incrociati mille volte sul pianerottolo e in ascensore e a parte “buongiornobuonasera” non vi siete detti altro. Ma magari è una persona interessante. Magari diventate amici o chissà. Ecco quel canalone è proprio quello “della porta accanto” che guardi sempre, ma chissà perchè alla fine non ti sei chiesto nemmeno come si chiama.

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Eugenio Cipriani lo “scalatore” entusiasta

Intervista di Carlo Piovan

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi (Marcel Proust).

E’ sufficiente vedere come brillano i suoi occhi, furbi e sornioni, quando li scopre dal binocolo che ha da poco utilizzato per scovare possibili linee di salita su una parete rocciosa, per capire che la famosa citazione dello scrittore francese gli calza a pennello.

Sempre entusiasta e positivo nonostante le fatiche, di Sisifiana memoria, a cui si presta per aprire nuovi itinerari; si racconta in questa intervista, parlandoci dell’ultima guida realizzata sulle pareti della Val d’Adige veronese.

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“Amici per sempre” – nuova via sulla Nord della Cima Verde

di Saverio D’Eredità

Prendi l’auto e vai in una valle, una valle che conosci da sempre e di cui credi di sapere già tutto. Guarda in alto le pareti. Cosa ti viene in mente? Non pensarci, non serve. Lascia che te lo dicano loro. Soltanto guardale con occhi nuovi. Non cercare niente. Dimentica tutto, butta all’aria, libri, tracciati, riviste e consigli. Trova e basta. Il segreto è tutto lì. Lasciati stupire.

La Nord del Montasio sovrasta la Saisera con la sua architettura squadrata e severa. È forse la più cupa e incazzata nord di tutte le Giulie. Non c’è un solo metro di parete che conceda qualcosa all’occhio dei cacciatori di linee. Continua a leggere

L’atlante delle montagne

di Saverio D’Eredità

Vinsero quindi le ombre. Finiva lì, appena sotto il tetto che segnava l’occhio della Sfinge la nostra rincorsa all’ultimo giorno d’estate. Avevamo cercato la luce, senza mai trovarla, scalando i muri grigi e compatti della Sfinge. La parete basale, altissima e verticale, sembrava non finire mai. Alzando gli occhi non vedevamo che uno sconfortante ciglio di mughi e non altro che lavagne grigie ai nostri lati. Come se la montagna quel giorno non avesse cima. Della luce del giorno, terso ed immobile, potevamo osservarne solo il riflesso, quando illuminava ora il profilo destro ora quello sinistro della “faccia” senza mai riuscire a rivelarne completamente il volto.

Assaporai, seppur malinconicamente, i metri finali di quel diedro liscio e squadrato, sapendo anche che sarebbero stati gli ultimi per quel giorno, e forse per tutto il resto della stagione. Una domanda sarebbe quindi rimasta sospesa, sotto quell’occhio muto e al termine del nostro giorno irrisolto. Scoloriva il giorno all’orizzonte, la pietra facendosi man mano fredda. Non avevamo più fretta. Il buio ci avrebbe sicuramente ripreso sulla via del ritorno. Quando tornammo al rifugio la Sfinge sembrava inghiottita dalla notte. Continua a leggere

Lo splendido mostro del Montasio

di Saverio D’Eredità

Le cronache alpinistiche non sono mai particolarmente interessanti. Mi trovo sempre più spesso a sfogliare noiosamente le poche pagine di una qualche rivista senza trovare nessuno spunto che riaccenda un po’di interesse. Reticoli di vie che si insinuano una sull’altra, sovrapposizioni, varianti minime a torrioni trascurabili.

Non è una novità, del resto. Esaurito (?) ormai da tempo il “Terreno di gioco d’Europa” di Stephen Leslie, ci si accontenta di fantasticare sulle nuove esplorazioni di sub-continenti remoti o catene para-alpine confinate in qualche giungla tropicale dove praticare del vero “alpinismo di ricerca”. Una ricerca che inizia subito con l’Atlante (o forse meglio Google Earth…) almeno per sapere a che parallelo si trova la nostra imperdibile via. Continua a leggere

Rimmel

di Saverio D’Eredità

Lei ha un volto segnato dalla bellezza, una malinconia di pietra e due occhi che sanno guardarti attraverso.
Sfinge, la chiamano. Ma non è che sia cattiva, lei. Non spaventa e non mangia gli uomini, le sue domande non sono tranelli.
Sono gli uomini che un bel giorno si sono accorti di lei, e hanno cominciato a corteggiarla, prima timidamente, poi sempre più sfacciati. E per ingraziarsela hanno disegnato linee sui suoi fianchi larghi, sfiorato il suo viso, cingendone il collo.
Sfinge, la chiamano, forse per quell’aria triste e severa o per lo sguardo sempre perso in un indefinito orizzonte. Sotto il suo occhio una riga di rimmel sbiadito, a sottolineare la malinconia di una ragazza che troppo tardi scopre di essere donna. E che una vita intera le è passata davanti.
Dev’essere stato forse in quel giorno in cui hanno separato le montagne e aperto le valli, e ammassato sassi a casaccio, dando nomi, dividendo in gruppi, spartendo il territorio. In quel fuggi fuggi generale lei è rimasta lì senza sapere dove andare ed è finita che l’hanno lasciata sola, con un padre troppo severo e una madre possessiva che la tiene incatenata tramite un guinzaglio di creste turrite. Continua a leggere

Val Canali trenta anni dopo

di Eugenio Cipriani

Trent’anni e nessuna nostalgia per quella valle.

Che sia splendida è fuori discussione. Inoltre, io e lei, “c’eravamo tanto amati”.

Ma in questi trenta anni di assenza non ho mai provato nostalgia per l’alta Val Canali.

Per caso, l’altro giorno, sono tornato lassù, in una giornata tipicamente autunnale, con i boschi giallo-rossi, montagne ancora senza neve e cielo cristallino.

A parte qualche cartello che segnala la presenza del Parco e qualche frana recente che ha butterato qua e là alcune pareti, nulla sembra essere cambiato.

Tutto come trent’anni fa’.

Eppure non è più la stessa valle. La colpa, probabilmente, è delle cinquantacinque  primavere che pesano sulle mie spalle.

E dei ricordi – certi ricordi – che si fatica a cancellare.

Passo davanti alla “Ritonda” e penso che a mezzogiorno, al suo solito tavolo dove andava quotidianamente a pranzare non c’è, e non ci sarà mai più, Gabriele Franceschini.  Che avevo intervistato proprio lì, sotto il suo Sass Maor. Non smetteva di raccontarmi di Buzzati, quell’uomo, nonostante facessi il possibile per fargli parlare d’altro!

Non c’è e non ci sarà mai più nemmeno Lino Ottaviani, fortissimo scalatore veronese dallo stile impeccabile, col quale salii la Solleder alla Immink, seconda via in Dolomiti della mia vita. Saliva leggero come una farfalla. Ma, come una farfalla, visse troppo poco. Poco più che quarantenne venne divorato dalla leucemia. Fu qui, al parcheggio della Val Canali che nel 1980, al ritorno da una scalata, Lino trovò la propria auto scassinata e buona parte del suo materiale alpinistico rubato. Facemmo una colletta perché si risollevasse economicamente un po’.  Ci sentivamo tutti uniti e tutti amici. Illusione. Il tempo mi ha dimostrato, invece, che l’amicizia – quella vera –  è un’altra cosa e che legarsi assieme ai due capi di una corda il più delle volte è solo cameratismo.

Al bivio per il Minazio lascio che i miei occhi corrano lungo la sud della Cima dei Lastei. Mi torna in mente quando a diciannove anni, emulando il Conte di Lovelace, stappai sulla cima una bottiglia di spumante per festeggiare il fatto di avere appena salito la Cappellari-Lotto. Affrontare con la poca esperienza che avevo allora quella parete così grande e complessa fu per me un traguardo impagabile. Il sorriso si trasforma in smorfia, però, non appena guardo, un po’ a destra della “Cappellari-Lotto” , la via “perla nera”. Il suo entusiasta ideatore, il “Ciba” (al secolo Silvio Campagnola), non c’è più. Anche lui portato via troppo presto da un male incurabile.

Arrivo al rifugio Treviso. E’ fuori stagione ed è lunedì. Non c’è nessuno. Il silenzio è totale.

Eppure sento i rimbalzi di un pallone, un pallone da basket. Non ho bisogno di alzarmi per andare a vedere di che si tratta. Chiudo gli occhi e vedo come fosse ieri Renzo Timillero, detto “Ghigno”, che mi passa la pesante palla arancione dicendomi “dai, gioca un po’ tu col bocia (si riferiva a suo figlio Sandro), che io devo andare in cucina a dare una mano”.

Nemmeno lui vedrò mai più al Treviso.

Mi allontano dal rifugio e mi porto sotto la nord del Dente. Ombrosa e trascurata da tutti, quella breve ma ripida parete mi affascinò sin dal primo momento che la vidi, nel 1979. Nel 1983 chiesi al “Ghigno” se vi fosse qualche itinerario lassù. Mi guardò a lungo, soppesò attentamente le mie salopette a righine verticali bianche e rosse, la mia T-shirt bianca e la mia aria da fighetto di città. Poi sorrise e mi disse: “Non c’è nulla, ma prima è meglio se ti fai le ossa”. Aveva ragione, ma quella frase fu come benzina sul fuoco della mia passione per la roccia.

Tornai la settimana dopo con un compagno “improbabile” col quale avevo da poco salito una facile via nuova sul Sasso delle Lede, sempre in Val Canali: Fabrizio detto “Forbicina”. Zero tecnica, zero esperienza, tanta buona volontà. Doti, le sue, che unite alle mie (scarsissime sotto ogni punto di vista) non furono sufficienti per superare la fessura iniziale del Dente. Disilluso ma non rinsavito attrezzai una doppia con la certezza di tornare. E così fu.

Un anno dopo, a giugno, io e Tano (Cavattoni) attaccammo di slancio la parete superando la fessura senza difficoltà. Poi ci diedero il cambio in testa alla cordata Gianni (Rodighiero) e Carlo (Andrighetto). Incrociata la Franceschini proseguii da capocordata in linea retta sbucando per primo in cima.

In fondo, la piccola soddisfazione di aver preceduto gli altri me l’ero meritata. Avevo scoperto io il problema ancora da risolvere ed avevo in anticipo individuato linea di salita e punti deboli della parete. Tecnicamente, però, il merito di aver superato con protezioni limitatissime le placche centrali andava tutto al Gianni. A Carlo, invece, spettava come sempre il merito di averci fatto crepare dal ridere con i suoi aneddoti e le sue battute in veneziano!

In parete lasciammo un chiodo ad ogni sosta ed un paio di ancoraggi di passaggio. Allora (bei tempi) i fix non si sapeva nemmeno cosa fossero!

Tornati al “Treviso” il “Ghigno”, dopo aver saputo della nostra scalata e dopo aver letto la relazione che in fretta e furia scribacchiammo sul libro del rifugio, approvò solennemente e ci fece pure i complimenti. Mi guardò di sottecchi e mi sorrise. A questo punto mi parve chiaro che, nonostante la mia salopette a righine verticali bianche e rosse e la mia aria da fighetto di città, ai suoi occhi avevo “superato l’esame”.

Ricopiai la relazione scritta sul libro del rifugio e la mandai a Gianni Pieropan, che allora curava la rubrica “Nuove ascensioni” sulle Alpi Venete. Venne puntualmente pubblicata sei mesi dopo.

Ventotto anni dopo, il 24 settembre del 2000, Ermes Bergamaschi, Mauro Moretto, Francesca Fachinat, Fabrizio Todesco in compagnia nientedimeno che del grande Lorenzo Massarotto  salirono la stessa parete ritenendola ancora inaccessa. E parlarono della loro salita come di una “prima”.

Evidentemente avevano effettuato la scalata in un giorno assai nebbioso perché, pur seguendo un percorso analogo al nostro, non videro i chiodi lasciati da noi.

Capita. Come sanno bene i frequentatori della Val Canali, spesso quelle cime vengono avvolte da nuvole basse ed assai compatte che non ti fanno vedere ad un palmo dal naso.

Quel che non capisco è come mai autore ed editore del libro sul “grande Mas” continuino ad attribuire quella parete e quella via allo scalatore di Villa del Conte ed ai suoi amici quando pure sulla recente guida dei Monti d’Italia sta scritto a chiare lettere che la salita di Massarotto & soci coincide con la mia e dei miei amici ma è posteriore di ben ventotto anni! Eppure Massarotto non ha certo bisogno di quella modestissima via in più per essere ricordato quel grande dolomitista che era!

Pensando a ciò guardo la parete e scuoto la testa un po’ amareggiato. Mi consola tuttavia il fatto che oggi, grazie alla limpidezza del cielo autunnale, riesco ad avere immagini chiare di quella “piccola nord”  così nascosta ed appartata. E posso segnarvi il tracciato della nostra via del 1984. La memoria mi restituisce qualche sbiadita istantanea di quella giornata. I singoli passaggi, però, si sommano a milioni di altri passaggi fatti in tutti questi anni di scalate.

C’è nebbia anche nella mia memoria, ormai. E’ umano.

Mentre fotografo mi spunta una lacrima. Probabilmente rimpiango i miei vent’anni. “La gioventù purtroppo se n’è andata per sempre – penso dentro di me – ma per fortuna ho ancora entusiasmo e discreta baldanza fisica. Forse potrei accarezzare ancora le rocce della Val Canali e riprovare, almeno in parte, le belle sensazioni di allora”.

Asciugo la lacrima senza farmi vedere dalla mia compagna, che invece si sta serenamente godendo il sole autunnale in una valle a lei del tutto sconosciuta. Guardo il suo sorriso, la sua aria felice e mi ritrovo a sperare che per lei, in futuro, la Val Canali possa rappresentare un angolo della memoria popolato solo da ricordi positivi e luminosi.

Proseguiamo la nostra passeggiata. Lascio alle mie spalle il Dente, il Ghigno ed i miei vent’anni. Soprattutto cerco di lasciare alle mie spalle, almeno per un po’, i dissapori alpinistici che troppe volte hanno macchiato il mio amore per le montagne.

Salgo alla volta dell’Alberghetto. Già, l’Albergetto, quel grande masso sotto la  Cima del Coro che i pastori usavano per bivaccare. E dove bivaccai anche io, nel 1982, quando …

… ma questa, è un’altra storia.

DEnte del Rifugio - Copia copia