UN GIORNO DA LEONI – Alex MacIntyre e la nascita dell’alpinismo leggero e veloce

di Saverio D’Eredità

Ci sono personaggi che attraversano la storia precorrendo i tempi e prevedendone gli sviluppi. Non sono propriamente dei veggenti, ma sicuramente persone dotate di un particolare intuito e sensibilità. Troppo spesso si confondono innovatori, semplici interpreti e figure che invece sono già proiettate nel futuro. Per uno strano gioco del destino queste ultime hanno in sorte di non poter vedere realizzate le proprie visioni, quasi che le Parche che tessono le fila secondo la mitologia greca si prendessero gioco di loro, con una sottile perfidia.

Nel mondo alpinistico possiamo trovare pochi esempi come questi. E tra loro senza dubbio spicca la figura di Alex MacIntyre. Poco noto forse al pubblico italiano, ma una leggenda per l’alpinismo inglese, MacIntyre è il protagonista di una stagione travolgente e rivoluzionaria nella storia dell’alpinismo himalaiano e non solo, quella a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80, dove il passaggio di consegne tra la generazione dei “vecchi” Brown, Whillans, Scott e Boninghton porta alla ribalta alcuni nomi che inevitabilmente segneranno una linea di tendenza per i decenni a venire.

Pochi mesi prima di morire sulla Sud dell’Annapurna, in un hotel di Katmandu alla luce della pila frontale, MacIntyre così scriveva per la Karrimor Technical Guide “Mentre ci prepariamo per tentare la parete Sud dell’Annapurna sappiamo con certezza che un giorno neppure troppo lontano, il peso del materiale sarà dimezzato e che il tempo di salita si ridurrà modo inimmaginabile…i nostri sacchi superleggeri saranno come dinosauri. L’Himalaya almeno per qualcuno diverrà un campo da giochi di tipo alpino e con milioni di spettatori (…) un giorno saremo al campo base e potremo scegliere tra Dallas se la diretta di qualcuno che sale in solitaria la Ovest del Makalu”. Una preveggenza quasi incredibile.

Con lui, quella sera, è un testimone d’eccezione: John Porter. Ed è lo stesso Porter, che per anni ha continuato incessantemente la sua attività di alpinismo esplorativo sulle vette del mondo, che quasi come un atto di gratitudine e a testimonianza di un’amicizia profonda, a tratteggiare il ritratto di questo alpinista nel libro “Un giorno da leoni” (John Porter, Alpine Studio, 2015). Ne esce fuori un’opera a metà tra la biografia (condita anche di auto-biografia visto che lo stesso Porter si ritrova necessariamente a parlare anche di sé è della sulla propria parabola alpinistica essendo testimone attivo di quell’epoca) e la riflessione su un passaggio della storia dell’alpinismo britannico e non solo che ha molto influito sugli sviluppi dell’alpinismo in alta quota.

Un libro, a dire il vero, non facilissimo da scorrere. Certamente si tratta di una di quelle opere tipicamente da “letteratura di montagna” e indirizzata ad appassionati di alpinismo e storia dell’alpinismo, già edotti circa le evoluzioni dell’himalaismo degli anni ’70 dove emergono alcuni particolari “di dettaglio” sui rapporti con le istituzioni (ad esempio sul nascente British Mountain Council e la Royal Geographic Society e il ruolo che esse avevano nel finanziamento delle spedizioni) e le diverse comunità alpinistiche. Appesantisce forse un po’ i non pochi capitoli dedicati proprio agli aspetti interni al BMC e i riferimenti  al mondo dei “club alpini” – spesso di matrice universitaria – attorno ai quali gravitavano le comunità alpinistiche. Ciononostante Porter riesce a prendere quota soprattutto nelle esperienze dirette: il racconto della spedizione andina al Nevado III e sul Koh-i- Bandaka sono forse quelli più autentici ed interessanti, una sorta di “presa diretta” su quel momento storico in cui, parallelamente alla ribalta mediatica di un Messner che sempre più prendeva la sua piega da “recordman” andava crescendo un movimento in controtendenza che privilegiava l’assetto leggero, l’indipendenza dagli sponsor e, su ogni altra cosa, lo stile.

In questo senso interessanti sono gli scorci (seppure anche qui piuttosto densi) sui rapporti che Alex e alcuni esponenti dell’avanguardia inglese tenevano con la comunità alpinistica polacca, che in quegli anni ancora in pieno clima da guerra fredda e ben prima dell’avvento di Solidarnosc vedevano crescere personaggi del calibro di Kurtyka, Kucuckza etc. Anche in questo senso MacIntyre fu innovatore e lungimirante, intuendo le grandi potenzialità dell’alpinismo polacco e apprendendo dagli stessi capacità di  individuazione dei problemi, risolutezza e una tenuta fisica e morale ben al di sopra degli standard comuni. Esemplari in questo senso sia le avventure nell’Hindukush che quella sul Changabang e sul Dhaulagiri, dove MacIntyre lascia il segno e dimostra come possa trovare applicazione lo “stile alpino” anche là dove fino ad allora dominava l’assetto militare delle spedizioni nazionali.

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In fondo MacIntyre, all’epoca, non era che l’ultimo degli esponenti di una tradizione che affonda le sue radici lontano nel tempo e di cui proprio gli alpinisti inglesi son stati portatori, a cominciare da Mummery e la sua spedizione al Nanga Parbat (in anticipo di almeno 50 anni!) o del “meno alpinista” ma imprescindibile Eric Shipton, figura poliedrica di uomo d’avventura d’altri tempi. Tutti e tre, in fondo, sono accumunati da una ricerca del mezzo (ovvero dello stile) più che dell’obiettivo. Un approccio tuttavia altrettanto esigente e rischioso di quello se vogliamo “coloniale” o superomistico della vetta ad ogni costo.

Ma che personaggio era MacIntyre? Porter ne traccia un ritratto accurato, raramente adulatorio o agiografico. Anzi, forse proprio per l’intimità (e quell’intimità che solo una cordata può sviluppare, che tocca le corde profonde e mette a nudo una persona nella sua complessità) che esisteva tra i due, Porter riesce ad essere molto obiettivo. Ne viene fuori una personalità contraddittoria, senz’altro determinata e diretta ma al tempo stesso provocatoria e – in ultima analisi – fortemente ambiziosa. Non potrebbe essere altrimenti. L’alpinismo praticato a certi livelli (quei livelli) non può non essere alimentato da una forte ambizione e spirito di competizione. Ad un certo punto della sua carriera MacIntyre è talmente consapevole del proprio valore che sente di essere un predestinato, di poter portare avanti le proprie idee e vivere da professionista. Questo gli creerà non pochi attriti con i compagni di spedizione, anche con mostri sacri quali Doug Scott, nonché con lo stesso Porter durante gli ultimi suoi giorni di vita. Vengono in mente le parole recentemente scritte da Andy Kirkpatrick nel suo seguitissimo blog ed il post “Normality of a tragedy” dove con acutezza osserva fino a che punto un certo alpinismo riesca ad essere totalmente accecato dall’avidità, tanto passare sopra la morte come una forma di “esternalità necessaria”. E come l’alpinista che si salva da questa spirale narcisistica sia quello che – ad un certo punto – riesce ad allentare l’ago nella vena. Proprio come un tossico. MacIntyre non riuscì o non volle tirare fuori l’ago. Conscio e presentendo quasi una tragica fine si avviò verso la sua avveniristica linea dell’Annapurna pur consapevole di varcare la soglia del non ritorno. Toccanti (forse il miglior capitolo del libro è proprio Cuore di Vetro) le atmosfere degli ultimi giorni, in cui l’amicizia con Porter sembra quasi sgretolarsi sotto il peso dell’ambizione sfrenata, di un MacIntyre ormai proiettato in una dimensione diversa, totalmente assorbita dal pensiero della parete, della linea e dello stile.

Una pietra isolata, che staccatasi da un punto imprecisato della parete, colpisce al capo MacIntyre facendolo cadere e morire sul colpo, agisce quale messaggera di un fato ineluttabile. La tela delle Parche era completa, e MacIntyre appare qua quasi come un eroe tragico, un Achille vulnerabile colpito nel momento massimo della sua forza, capacità e autoconsapevolezza.

Come di tanti (la lista dell’epoca aggiunge infatti anche personaggi del calibro di Tasker e Boardman, coevi di Alex e anch’essi traditi da sé stessi più che dalla montagna nel loro apice) si potrebbe oggi recriminare e argomentare sul “cosa sarebbero stati”. Di certo un MacIntyre avrebbe detto ancora moltissimo. Anche dal punto di vista comunicativo. Pur avaro di parole e qualche volta persino corrosivo nelle battute con i compagni, non mancava di acume e abilità nello scrivere. Sono infatti piccole gemme i due racconti (tra cui spicca “Cold Comfort” sulla ormai mitica salita con Colton alla Nord delle Jorasses) originali di MacIntyre che lasciano trasparire al tempo stesso quel senso di scanzonatezza humour, e understatement tipiche di un certo alpinismo inglese e dell’epoca della contestazione degli anni’70. Traspare l’atmosfera di quegli anni, pervasi dalle tendenze del rock, del glam e della new wave inglese, da Peter Gabriel ai Blondie, dai Pretenders a Bowie, da Lou Reed ai Dire Straits, le cui canzoni danno il titolo ad ogni capitolo. Come a ripercorrere un album dei ricordi e delle sensazioni vissute. In definitiva, più che una biografia, “Un giorno da leoni” è la storia di una cordata, di una grande cordata, e di un’amicizia vissuta a lungo ed intensamente. Fino a tradire sé stessa e forse – proprio per questo – più autentica.

 

 

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