Atlantide (o degli alpinisti estinti)

di Saverio D’Eredità

Cima Verde mt.2661

Per il versante Est – via della Spragna

“G.Kugy con A. e J. Komac, 13 nov.1892. In seguito ripetuta dallo stesso Kugy con A.Komac il 9 luglio 1893 e in seguito numerose altre volte fino all’inizio del secolo. Poi cadde nell’oblio. (…) Durante le prime salite sul passaggio più difficile dei massi incastrati “Venne usata una pertica a forcone con la quale si issava il capocordata per quasi 3 metri.” In seguito, venne messo un chiodo. Difficoltà presumibili: III e IV.” (Alpi Giulie, G.Buscaini, 1974)

Poche righe in corsivo sono abbastanza per creare un segreto e altrettanto per darti un indizio. Che spesso il mistero non sta tanto in ciò che ignoriamo, ma in ciò che crediamo di conoscere. Da tempo mi arrovellavo su quelle poche righe – erano un invito o una minaccia? – sulla scena della pertica e in generale sul senso dell’oblio.

Da tempo la osservavo quella cresta, così evidente, così lineare, eppure così invisibile. Come da tempo non mi capitava di alzarmi una mattina, incontrare i compagni e tagliare fuori dal sentiero senza che nessuno sapesse esattamente cosa ci aspettasse. (Il motivo, di questo tempo atteso, di questa indecisione, ce lo saremmo ricordati più tardi, col sole ormai alto, le decisioni prese, irreversibili).

Che questo genere di cose, questo alpinismo senza molto futuro e tutto sommato senza nemmeno troppo passato, vanno prese a piccole dosi, del resto. I suoi effetti sono a rilascio lento nel tempo dei giorni, dei mesi, vorrei dire persino degli anni. Perché senza dubbio viene da lì, dagli anni passati, da una memoria del corpo e degli occhi l’adattarsi a questi prati imperdonabili senza perdere l’equilibrio, passare attraverso certe creste sbertucciate eppure non muovere un sasso quasi fossimo gli abitanti del posto – che poi sono solo i camosci che vorrei dire di aver trovato persino stupiti della nostra presenza. Viene certamente dagli anni passati, da esperienza sepolte, tanto il sapere intuire il passaggio giusto quanto finire nel posto sbagliato. Ricordarsi che un canale, in Giulie, è spesso una buona opzione ma non sempre è una buona opzione.

Qual era dunque il segreto della Spragna? Perché era caduta nell’oblio dopo “le numerose salite” di cento e più anni fa? Kugy era certamente un fine osservatore di montagne con una lieve ossessione per il Montasio. E le sue guide gente con sufficiente pelo e una buona dose creativa. Sul passaggio della pertica per anni ho fatto mille congetture, che era una balla raccontata ai creduloni e magari la facevano drammatica per farsi pagare di più. Oggi, in realtà, penso soprattutto che quegli uomini barbuti, con giacche di feltro e baffoni, erano decisamente più “freak” di noialtri ben vestiti e ben informati che, al contrario, ci stiamo appiattendo sulle stesse cose. Questi ti andavano su per quei posti dissennati prendendo – magari al mattino, uscendo di casa, dalla stalla – una pertica a forcone e improvvisando questo numero da circo. Per poi accorgersi che la via era certamente grandiosa, sì, ma per andare in cima alla Nord si poteva far di meglio. L’attenzione di Kugy si spostò quindi in mezzo alla parete e la via della Spragna rimase in disparte, sprofondando in quell’oblio. Perché nessuno ha più seguito i suoi passi?

Questa forma di alpinismo è un bagno di realtà. Ti riporta all’essenziale. Alla terra che si infila sotto le unghie, a poche parole scambiate e solo per necessità, che ogni passo è una scelta, ogni direzione presa un’assunzione di responsabilità. Forse è per questo che ci spaventa. Non la fatica, ma il sapere che da qualche parte sbaglierai per forza, che il dubbio ti assalirà ancora. Ti spinge a rinunciare ad ogni certezza e – in fin dei conti – improvvisare. Essere consapevoli delle nostre scelte.

E dietro l’angolo, oltre la cengia che – come una porta segreta – ci ha condotto a scoprire la linea di fragilità della parete, abbiamo trovato la solitudine. Ma una solitudine così profonda, così totale, da fare quasi paura. Nessuno a quel punto ha detto più una parola. Bastava guardare quel vecchio piolo piegato e affidarsi ancora una volta, dopo 100 anni al cavo di guerra per capire l’oblio.

Alti sulla cresta, osservavo inabissarsi la nostra piccola Atlantide, portandosi dietro quell’oblio. E rimaneva solo il cavetto, il piolo, l’unico chiodo trovato e che aspetterà chissà quanti anni ancora, altri lettori di poche righe in corsivo di un alpinismo estinto.

Note

La “via della Spragna” è probabilmente una delle vie più dimenticate delle Giulie. Nonostante la sua linea sia molto evidente e logica (è il crestone che si diparte dalla Cima Verde e chiude ad oriente la grande muraglia settentrionale del Montasio, noto anche come “Cresta Berdo”) di fatto da 100 anni riceve rarissime visite, nonostante le difficoltà non siano elevate. Originariamente aperta da Kugy con le guide A e J Komac con lo scopo di salire direttamente dalla Saisera al Montasio e successivamente utilizzata a scopo bellico (sono ancora presenti alcune attrezzature), la via è stata abbandonata in favore della più nota “Diretta” – oggi attrezzata. Certamente una salita di questo tipo richiede una ottima esperienza nel muoversi su terreni di fatto tornati vergini, spesso esposti e su roccia non sempre affidabile (ma buona sulle difficoltà). L’orientamento non è molto complesso: noi abbiamo optato per l’attacco dal canalone della Torre Genziana invece del giro originale per la Cianrza. Oltre che più diretto è anche più divertente (passi di II su roccia ottima) e in ambiente grandioso. La salita sui ripidi prati della Cresta Verde è semplice, mentre più attenzione va posta nel tratto che porta sulla cresta rocciosa sommitale. Difficoltà di III con brevi passi di IV e uno più difficile ma agevolato da vecchio cavo di guerra. Discesa facile per la normale che si congiunge a quella del Montasio. Necessaria corda e attrezzatura alpinistica (qualche friend e chiodi).

Precario

di Saverio D’Eredità

Ho chiesto al Batti delle foto elettrizzanti della gita dell’altra volta. Anche se era stata una giornata un po’ così, senza arte né parte, ero certo che il Batti la sua foto “alla Batti” me l’avrebbe tirata fuori. La classica dello sciatore nell’istante della curva, un poco grandangolata per dare profondità e un po’ di “wow”, con il soggetto nella terza parte dell’inquadratura e quel bilanciamento del bianco tecnicamente ineccepibile, ma vagamente insipido. La classica foto alla Batti – che ahilui – non può mai contare su performer di riguardo, gente bene in piega, con lo spruzzo, colorata, arrogante, sbarazzina, che sa sciare, che sa fare, che sa tutto. No, lui c’ha gente come noi, il Biondo al più per aggiungere un tocco da south rock americano, altrimenti il Pasc o me. Me che son il peggiore anche perché non gli faccio mai la curva dove dice lui per la foto. E nemmeno dove dico io. La curva viene dove deve venire, io sta cosa ancora non la domino bene, quindi la foto viene, inoppugnabilmente, male.

Ma la foto elettrizzante, al Batti, l’avevo chiesta perché volevo parlare del Leupa. Anzi a dire il vero la gita l’avevo approvata “così” potevo parlare del Leupa. Sapete, sto un po’in fissa con sta cosa che se non parlo io delle montagne, specie quelle un po’ diciamo “di nicchia”, poi non ne parla nessuno. E quindi su Google non si trovano. E quindi praticamente è come se non esistessero. Solo che il Leupa / Lopa in sloveno, con quella quota facile da ricordare (2402, bel numero), non ha proprio niente di interessante. Non è brutta, forse al più anonima. Più che brutta è “non-figa” che tutte le montagne pare siano fighissime e invece no, alcune non sono niente. A parte essere montagne, ovviamente. Ma quelle del Canin, poi più che montagne-montagne sono tipo cippi lungo la strada. Tutte circa uguali, squadrate, tarchiatelle, striate, poco alte (non basse, solo poco alte). Il Leupa pure è così. A forma di rettangolo, con una cresta piatta come cima, e le regolari stratificazioni calcaree che a me, magari un po’prosaicamente, ricordano le pieghette dell’omino Michelin. Tutte le cime del Canin son un po’come l’omino Michelin, quel fisico non slanciato, pacioccoso diciamo ma pur sempre ingombrante che se si sposta fa un casino.

Il Batti di foto me ne tira fuori due, pure un po’deluso che non c’era molta ispirazione (a nord, con il cielo terso, la poca neve, le solite cime, uffa). In una ci sono io, un puntino rosso in mezzo all’altipiano che punto dritto verso la nord del Leupa. Probabilmente in quell’istante, stavo pensando a cosa dire del Leupa, quindi potremmo dire che è una foto matrioska, oppure aristotelica a seconda del vostro gusto, ma in quel momento a me venivano in mente più che Leupa Aristotele e Matrioske, gli influencers. Che, poracci, devono sempre dire qualcosa della loro giornata – tipo me, adesso, solo che non ci vado a fare la spesa con ste cose che vi racconto – e deve essere una vitaccia, eh, sempre qualcosa da dire di una giornata.

Altopiano del Poviz – verso il Leupa – foto M.Battistutta

Vabè visto che non son influencer scrivo solo se mi pare oppure ho una mezzora libera, o voglio che il tag “Leupa” compaia più spesso su Google. Solo che il Leupa non ha niente di interessante. La parete, abbiamo detto. Banconate calcaree sia compatte che fragili, che a mio modesto quanto insindacabile modo di vedere, sono praticamente inscalabili. Si si, litighiamo pure però prima andate sul Leupa e io vi guardo da sotto. Chiamiamo anche i maghi del misto o del dry, una Angelika Rainer se si degna di venire qua e vediamo. Se agganci una picca una. Se ti proteggi a meno di 25 metri. Se quello che metti come protezione tiene più della vostra giacca. Vediamo. Tutti bravi. E poi: tiè c’è il Leupa. Che Buscaini, secondo me, è andato in fiducia quando gli hanno detto che c’erano 2 vie. Secondo me manco è andato a vedere che diciamolo, su, chi vuoi che vada a scalare 150 metri di quella roba lì. Io il canale friabile e la cengetta a sinistra e lo spigolo etc mica li ho visti. Ma lo capisco, il Busca, anche lui ogni tanto ha spuntato la lista perché andava di fretta magari. Peccato perché io dal Busca tiro sempre fuori robe interessanti, anche con 3 nomi una data e un “1 chiodo lasciato” che ci ricamo su le favole. Invece il Leupa niente. Ha due creste, sappiatelo. Una Est, una Ovest (facile). Non ha un versante sud (si ovvio che ce l’ha, ma voi fate come se non). Due normali. Una Est, una Ovest (facile). Quella ovest, “Celo”! Un inverno di anni fa, con Stief e Cricca, di quei tempi che la cima era il must. Che ti presenti “sciallo” e dopo neanche 5 minuti sei lì che ti muovi tipo gli acrobati di Oceans’eleven. Cengette spioventi, ghiaccietto, canalino-ok, uscita-non ok, cresta – sospiro – giù subito e piano e aspetta che vedo di piantare un chiodo valà – ah guarda c’è! (1 chiodo lasciato, avevi ragione Busca) – e via di doppia sul chiodo che ti pare un pilone. La est mi mancava, sarebbe pure la normale, ed è l’unica traccia digitale in Google (grazie Raffaello!). Cresta a tratti esposta, passaggio di II che d’inverno sarà una esaltante goulotte di ben 3 metri, cresta saliscendi. Facile. E qui veniamo alla seconda foto. Nella seconda foto ci sono sempre io, che traverso con fare delicatissimo e l’occhio sgranato sta cengetta che in realtà è pure larga eh, e avrà un saltino che so di 1 metro? e poi sotto c’è neve. Ma io paio sospeso sull’abisso. In quella foto c’è tutta la mia, la nostra, la sua (del Leupa), precarietà. Sarà il movimento che il Batti ha preso, sarà il casco, lo sfondo non lo so, ma lì c’è tutta la precarietà di questo nostro andare, di questo nostro essere. Se solo ci fosse più neve. Se solo sapessi se posso calarmi. Se solo capissi perché ci tenevo tanto a parlare del Leupa. Questo monte che tutti fingono di conoscere (“guarda! quello è il Leupa” dicono indicando un punto tra la Cima Confine e il Sart, che magari l’hanno letto su Peak Finder un attimo fa) e nessuno ci è stato mai. Questo monte che nessuno si fila, ma poi, se non c’è o se un giorno non lo vedi, ti dispiace. Come l’amico – che chiameremo non so, Fred – che c’è sempre a tutte le serate, ma non dice molto, non è antipatico, nemmeno simpatico, ma si ricorda del tuo compleanno e magari ti porta a casa quando sei sbronzo. Fred c’è. Il Leupa c’è. Ma se una volta non lo trovi ci stai male.

Però senti questa precarietà, questo senso di qualcosa che non sai mai quanto dura. Me lo si legge in faccia, nella piega del ginocchio, nelle mani che scorrono la roccia ed è precaria anche lei. E quindi non hai certezze più.

Sulla cima non ci siamo andati, poi. Era appunto un po’troppo precaria, quella poca neve, quel poco ghiaccio, quel poco tutto, anche la voglia magari. Siamo andati per poterci ricordare questa montagna e ne siamo tornati con meno certezze di prima. La montagna, a me, altro che fiducia in sé stessi e quelle cose che ci raccontano, mi da sempre meno certezze. Queste poi, mai. Ma forse è proprio questa assenza a rendere tutto molto interessante. E penso di nuovo agli influencers, che sono sempre certi di tutto, hanno sempre qualcosa da dire, mentre io oggi mi tengo stretta questa foto, questa precarietà che dovremmo sempre avere a cuore, come le montagne che nessuna sa dove sono, eppure ci sono sempre. A fare da sfondo. A portarci a casa.

Nei pressi di Forca Sopra Poviz, verso la cresta del Leupa – foto M.Battistutta

Polvere e Spit

di Saverio D’Eredità

È sempre rischioso dar peso alle promesse fatte davanti a una birra dopo una giornata di montagna. La fatica accumulata aiuta il seppur lieve tasso alcolico ad entrare in circolo, la rilassatezza fa allentare i freni inibitori della parola e, se la compagnia è giusta, è facile ci si sbilanci parecchio.
La giornata era partita con il clamoroso pacco rifilatomi dal socio poche ore prima e che come conseguenza ebbe una rabbiosa ed improvvisata salita al Pacherini. Da lì, con il provvidenziale consiglio di Claudio, mi rintanai da solo fin sulla Croda del Sion. La salita si compì come una seduta psicanalitica, confermandomi ancora una volta l’utilità delle “solitarie su cime solitarie” come indispensabile equalizzatore degli umori. L’annata fin lì avara di soddisfazioni stava accumulando delle scorie e come al solito mi ritrovavo a far i calcoli con la lista degli obiettivi irrealizzati.

Non fu del resto un caso il fatto di incrociare Andrea al rifugio mentre serviva ai tavoli. Attesi la fine del turno e la birra fu solo una logica conseguenza. Di sorso in sorso lasciammo roteare la girandola dei sogni sulle mille salite che avremmo voluto fare nello scampolo di stagione che ci rimaneva e, tra tutte, la mitica Piussi al Pinnacolo della Cima del Vallone esercitava su di noi un irresistibile fascino. Il Pinnacolo! Come non averci pensato prima! Fummo rapiti dall’euforia di quella salita tanto agognata, quasi fosse un nostro personalissimo omaggio ad un grande delle Giulie. Il Pinnacolo! L’obiettivo dell’anno era stato individuato. Brindammo al nostro sogno e riprendemmo la strada del fondovalle, con la testa già altrove. Continua a leggere

Il Diedro Infinito

di Saverio D’Eredità

Prologo

Come il pane o la poesia

Che silenzio che c’è qui. Che silenzio tra queste rocce, ultime a difendere la luce di un giorno che man mano svapora. Il buio risale dal profondo del terra. Procedo piano. Una pietra, smossa, precipita senza far rumore quasi fosse senza peso. Mi sento leggero anch’io, o forse sono solo svuotato e quella che sento è semplicemente fame. C’è un piacere sottile a percorrere con lentezza questi ultimi tiri, come a voler conservare un ricordo più a lungo di altri.
D’improvviso l’aria si riempie di una luce riflessa. “Guarda”, dico ad Andrea che sta rollando una meritata cicca di fine via. È l’ora in cui il sole giunge a riscattare l’altra faccia del diedro dall’ombra millenaria cui sembra condannata. Pochi istanti prima del tramonto a dar vita a queste pietre senza significato, se non per i nostri occhi e le nostre mani che oggi le sfiorano e le osservano. Lo spigolo del diedro, illuminato, si staglia come una prua nel vuoto e forse solo ora prendiamo coscienza di dove ci troviamo. Il Cozzolino, il diedro infinito, è ormai dietro di noi. Continua a leggere

Lo splendido mostro del Montasio

di Saverio D’Eredità

Le cronache alpinistiche non sono mai particolarmente interessanti. Mi trovo sempre più spesso a sfogliare noiosamente le poche pagine di una qualche rivista senza trovare nessuno spunto che riaccenda un po’di interesse. Reticoli di vie che si insinuano una sull’altra, sovrapposizioni, varianti minime a torrioni trascurabili.

Non è una novità, del resto. Esaurito (?) ormai da tempo il “Terreno di gioco d’Europa” di Stephen Leslie, ci si accontenta di fantasticare sulle nuove esplorazioni di sub-continenti remoti o catene para-alpine confinate in qualche giungla tropicale dove praticare del vero “alpinismo di ricerca”. Una ricerca che inizia subito con l’Atlante (o forse meglio Google Earth…) almeno per sapere a che parallelo si trova la nostra imperdibile via. Continua a leggere

1974

di Saverio D’Eredità

Mi portò un pacco di vinili in una busta di carta con un foglietto scritto a mano

To feed your free spirit

La mia amica aveva la passione per i messaggi un po’criptici ed allusivi e dal canto mio la domanda era più che altro come poter ascoltare quei vinili non avendo alcun supporto per farli girare, quindi più prosaicamente le chiesi di farmi una copia cd che non si sapeva mai.

La partenza per l’Erasmus a Bruxelles stava diventando quasi come il saluto prima di partire per la naja, ed in un certo senso lo era, comparato ai tempi moderni. L’unico problema era far stare le robe per i primi 3 mesi senza sforare il limite bagaglio di Ryanair. Tempi moderni, appunto. C’erano molte cose passate che stavo portando in quel borsone, fossero libri o cd o magari maglioni che non avrei più avuto il coraggio di mettere. In questo senso quei polverosi vinili dal consolante fruscio si inserivano benissimo. Tra gli album in quella busta di carta spiccavano Led Zeppelin IV, un Pearl di Janis Joplin e un paio di Stones quali Sticky Fingers e Exile on Main Street. Tutta roba che sarebbe servita a “nutrire il mio spirito libero”, pubblicata nella prima metà degli anni settanta.

Ma serviva qualcos’altro per alimentare il “mio spirito libero” e così un altro pezzo degli anni settanta, precisamente del 1974, scivolò lestamente nel borsone a discapito di un bignamino di verbi francesi, ovvero la prima edizione della guida “Alpi Giulie” di Gino Buscaini, la cui copertina grigia telata già presentava i segni di un’usura sproporzionata alle effettive realizzazioni alpinistiche. Quante volte era stata nel mio zaino? Tirata fuori e appoggiata a qualche attacco, consultata persino a metà di una cengia. Una guida nel vero senso della parola, quasi un breviario da portare nel taschino per recitarne un salmo a metà salita. Continua a leggere