I tre spigoli della Tofana e quell’alpinismo intramontabile

di Saverio D’Eredità

L’anno è il 1946. Nell’Italia che lentamente si ricostruisce, le mani degli alpinisti tornano a toccare quelle rocce troppo a lungo proibite. E mentre una generazione passa la mano, le nuove leve si fanno avanti a colpi di scalate prestigiose e sempre più spinte. Il Gruppo degli Scoiattoli è già attivo da alcuni anni, ma la guerra ha fortemente condizionato la loro attività. Qualcuno non è tornato. Le montagne, invece, sono rimaste mute spettatrici di un’immane tragedia.
Nel corso della guerra solo Ettore Costantini “il Vecio” rimase veramente attivo, ovviamente sulle montagne di casa. La sua variante alla Comici Dimai alla Grande di Lavaredo rende giustizia alla linea perfetta della parete. La leggenda si consacra però sul pilastro della Tofana nel 1944. (vedi Sirene Sirene/2 )
Ma non tutte le pagine sono state ancora scritte. Così, nel giro di soli due mesi del 1946, uno dopo l’altro vengono saliti i tre spigoli che caratterizzano il settore orientale della grande parete Sud della Tofana di Rozes. Se nel secondo, e più difficile, c’è ancora la firma del Vecio e del “Bibi” Ghedina – vera anima degli Scoiattoli e scalatore estremamente dotato che sarà protagonista per tutti gli anni ’50 – il primo e il terzo sono opera di altri due protagonisti di quegli anni: Albino Alverà e Ugo Pompanin.
Non si tratta di salite di grido, inferiori per difficoltà ad altre maggiori realizzazioni degli stessi Scoiattoli di quegli anni. Ma sono questi i simboli di un alpinismo intramontabile, classico nel senso più autentico, che difficilmente potrà risentire dell’usura del tempo. Qui non è la ricerca della difficoltà o del problema l’essenza della scalata, quanto piuttosto la bellezza architettonica della montagna stessa.
Chiunque arrivi nella conca ampezzana, o anche solo osservando la grande parete dalle vette limitrofe non potrà che ritrovare in quelle tre linee in successione la semplicità e la naturalezza delle forme. Elementi strutturali ed estetici al tempo stesso. Come se un Grande Architetto avesse saputo valorizzare le colonne portanti affilandone i profili e rendendole elementi decorativi.
La successione degli spigoli non si esaurisce. Il Terzo, il più lungo e massiccio, lascia intuire i successivi movimenti della parete che per un inganno dell’occhio – o forse del cuore – sembra assumere un movimento plastico. Come un drappeggio scolpito nella dolomia.
Il 4 e 11 agosto del ’46, in una sola settimana, Albino Alverà e Ugo Pompanin salgono per primi quelle che fino ad allora erano solo strutture minori, ma che sarebbero diventate poi le mete di riferimento per una generazione di alpinisti classici. Altre vie, pur più difficili e dirette, sono infatti cadute nell’oblio col tempo: pensiamo solo alla Stosser e la Tissi proprio nel cuore dell’Anfiteatro della Sud. Gli spigoli invece sopravvivono alle mode e alle simpatie degli scalatori. Sono linee naturali, l’indice puntato alla parete da chiunque veda nella roccia qualcosa di vivo.
Non sarà minimamente paragonabile alla “Triade” dei diedri delle Alpi Orientali e nemmeno alle “6 Grandi Nord”. Ma salire tutti e tre gli spigoli rimane una piccola soddisfazione squisitamente alpinistica e dunque individuale.
La Sud della Tofana è probabilmente l’unica parete dolomitica che sappia mostrarsi al tempo stesso grandiosa nella forma, ma estetica nei dettagli, accogliente nell’aspetto e severa nelle sue vie. Si torna sempre volentieri, alla sua base. Ogni via è un modo particolare di osservarne i segreti, percepirne una angolatura differente.
Pur simili, i suoi spigoli non risultano ripetitivi. Il primo spicca per il profilo affilato e tagliente, il secondo definisce il contorno del grande pilastro, il terzo si inarca e si distende come il dorso di un animale addormentato. Ognuna di queste salite mi ha lasciato un ricordo profondo, una soddisfazione che va oltre il grado, la sfida, il singolo passaggio o l’impegno. Forse più un senso di pace ed armonia.

 

Pochi giorni fa abbiamo salito il terzo spigolo in un’aria che sapeva di autunno profondo, tra nubi dense, sbuffi e primi timidi segnali d’inverno. La parete è stata ancora una volta benevola, lasciandosi solleticare dalle nostre corde stese sulla sua pietra sana. Le montagne hanno caratteri diversi, come gli uomini.
All’uscita ci attendeva la neve. Poteva essere forse la fine di un ciclo o di una stagione. Invece osservandola da un’angolatura ancora diversa ho potuto ancora intuirne altre di linee, in questa parete che quando si incontra col sole, pare cosa viva. Perché ogni spigolo rimanda ad un altro, come un gioco di indizi che sta all’alpinista scoprire ed interpretare. Nel raccogliere le corde quindi rimane un senso di incompiuto. Prima di arrivare all’attacco scherzosamente avevo detto a Nicola che stavamo per finire le vie. Non è del tutto vero. Gli spigoli della Tofana, che ci hanno accolto ognuna di queste volte ce lo dimostrano, simboli appunto di quell’alpinismo intramontabile.

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Portando tutto a casa

Impressioni di settembre sul secondo Spigolo di Tofana

Non è vero che le giornate sfigate sono tutte da buttare. Oggi, ad esempio, complice un tiro di corda decisamente disgraziato, ci siamo ritrovati a concederci anzitempo la lunga pausa pomeridiana che di solito permette di tirare un po’il fiato e guardarsi attorno.
E allora nasce qualcosa, un innamoramento improvviso, un’ispirazione.
Qualcosa legato, in definitiva, ai colori. Alle luci. Alle mutazioni. Una strana elettricità che pervade l’atmosfera e che ti invita ad aprire gli occhi, respirare a pieni polmoni.

Sono le ultime occasioni, le ultime offerte sui banchi di stagioni di cui non saremo mai soddisfatti pienamente. Allora scatta come una molla, alla caccia delle ultime salite che sono poi quelle che ci portiamo dietro più volentieri, i ricordi da tenere in tasca, che ci terranno compagnia più avanti nelle giornate autunnali più buie, o alla foce di stanchi inverni. Osservo, rapito, la sud della Tofana, questa specie di tempio naturale, con le sue colonne ora verticali, ora rastremate e il suo frontone gigantesco e giallastro. Tra tutti, il Pilastro di Rozès esercita un magnetismo particolare. Adoro la sua forma panciuta, ma slanciata con le gigantesche placche basali che piombano come il ventre di una balena sui prati sottostanti. È una struttura che non può che richiamare quasi fisicamente l’arrampicata. Lo guardo, lo scruto, con gli occhi seguo le venature mentre la mente comincia a calcolare, esaminare i dettaglio, pianificare la salita. È così che nascono i sogni.

Il messaggio del Gerri arriva quanto mai tempestivo ad inizio settimana e la decisione è presa in un istante, con poche parole. Poche parole per ritrovarsi di nuovo a questa svolta di sentiero, là dove altre volte ho alzato lo sguardo perdendo tempo prezioso per la salita che mi attendeva quel giorno. Oggi no, oggi sono qui per mettere le mani sulla pancia della balena, sperando sia quieta e bonaria come lo è da millenni e ci permetta di farle un  po’di solletico.

Saliamo in scioltezza le placche basali, stendendoci come ramarri a catturare i primi raggi del sole che intiepidiscono l’aria e la roccia. I tiri si succedono in una rara armonia, mentre osservo la gialla ferita che divide il pilastro a metà e che ci attende con il suo traverso risolutore. Devo dire che oggi mi pervade una strana calma. Sarà il sole, sarà questa roccia rugosa che da fiducia, quest’aria attorno che ti fa sentire leggero, senza pensieri.
Il Gerri parte per quello che di fatto è il tiro più difficile. Difficoltà crescenti tra il quinto e il sesto e chiodatura saltuaria. Fortunatamente la roccia è sana e verso la fine i passaggi danno anche una certa  soddisfazione. Il Gerri si muove sicuro su queste difficoltà e io son ben contento di seguire da secondo. In sosta respiro un attimo cercando la giusta concentrazione per affrontare il traverso, quasi fosse una questione terapeutica più che alpinistica.

La linea è evidente, sembra quasi scolpita nel giallo e nel rosso della parete. Un bel cordone a metà passaggio sa tanto di boa di salvezza. Cautamente e metro a metro mi faccio avanti, ricacciando indietro paure e pensieri. Aggancio il cordone ringraziando il santo che è riuscito a piazzarlo non so come (e non voglio nemmeno sapere dove visto il rumore di gomena che fa ogni volta che si muove) e lasciandomi scivolare oltre lo spigolo dove un ulteriore passo richiede più fiducia che abilità.
Qualche sudatissimo minuto dopo naufrago su un terrazzino col culo per aria e i brutti ricordi ormai alle spalle. Spunta un’altra cordata dallo spigolo, che a vederlo fa un certo effetto. E anche la cordata che mi segue fa un certo effetto, innanzitutto perché non è una vera cordata e infine perché non c’è proprio la corda…è un ragazzo che sale slegato! Mi corre un brivido mentre lo vedo tastare i blocchetti fratturati dove un attimo prima mi stavo consumando per rinviare ad ogni metro possibile.

Il ragazzo mi guarda, sorride e commenta: “ un pelo esposto qua!”. Non riesco a dire nulla, il ragazzo mi passa sopra la testa e sparisce…

Pochi minuti dopo sbuca anche il casco rosso a bombetta del Gerri e l’altro capo della mia corda. Lo spigolo è doppiato! Contrariamente alle aspettative i tiri che seguono sono godibili e anzi, completano bene la salita.
La roccia ricomincia a scorrere piacevolmente sotto le nostre mani e le corde si stendono verso l’alto a cercare l’uscita. Vorrei che questi tiri non finissero mai, questi mille appigli, quest’arco di sole che scende. Richiami rimbalzano dal Terzo Spigolo a noi. Altri dal sentiero. Sembriamo uccelli persi tra le chiome di questi pilastri.
Poi la verticalità man mano sfuma e la roccia si rompe. Ci dispiace quasi che stia finendo, come la stagione che forse concederà pochi altri giorni come questi. Tanto vale allora allungare la sosta, indugiare su queste ombre che si fanno più dure, più intense. Come a catturare queste impressioni, per portare tutto a casa, come diceva una vecchia canzone.

Catturarle per quando torneranno alla mente, questi squarci luminosi delle estati e tutti gli ometti di sassi incontrati sulle vette o ad una svolta di sentiero. Quando ripasserò ad una ad una tutte le montagne salite e da salire, accettando ancora una volta che i sogni viaggino più veloci delle mie capacità. Portando tutto a casa, per fare l’inventario di tutto ciò che ho perso, facendo posto per ciò che avrei ritrovato. Tirando ancora una volta una linea e attendendo con la pazienza dei marinai, il prossimo giro d’orizzonte.

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