Atlantide (o degli alpinisti estinti)

di Saverio D’Eredità

Cima Verde mt.2661

Per il versante Est – via della Spragna

“G.Kugy con A. e J. Komac, 13 nov.1892. In seguito ripetuta dallo stesso Kugy con A.Komac il 9 luglio 1893 e in seguito numerose altre volte fino all’inizio del secolo. Poi cadde nell’oblio. (…) Durante le prime salite sul passaggio più difficile dei massi incastrati “Venne usata una pertica a forcone con la quale si issava il capocordata per quasi 3 metri.” In seguito, venne messo un chiodo. Difficoltà presumibili: III e IV.” (Alpi Giulie, G.Buscaini, 1974)

Poche righe in corsivo sono abbastanza per creare un segreto e altrettanto per darti un indizio. Che spesso il mistero non sta tanto in ciò che ignoriamo, ma in ciò che crediamo di conoscere. Da tempo mi arrovellavo su quelle poche righe – erano un invito o una minaccia? – sulla scena della pertica e in generale sul senso dell’oblio.

Da tempo la osservavo quella cresta, così evidente, così lineare, eppure così invisibile. Come da tempo non mi capitava di alzarmi una mattina, incontrare i compagni e tagliare fuori dal sentiero senza che nessuno sapesse esattamente cosa ci aspettasse. (Il motivo, di questo tempo atteso, di questa indecisione, ce lo saremmo ricordati più tardi, col sole ormai alto, le decisioni prese, irreversibili).

Che questo genere di cose, questo alpinismo senza molto futuro e tutto sommato senza nemmeno troppo passato, vanno prese a piccole dosi, del resto. I suoi effetti sono a rilascio lento nel tempo dei giorni, dei mesi, vorrei dire persino degli anni. Perché senza dubbio viene da lì, dagli anni passati, da una memoria del corpo e degli occhi l’adattarsi a questi prati imperdonabili senza perdere l’equilibrio, passare attraverso certe creste sbertucciate eppure non muovere un sasso quasi fossimo gli abitanti del posto – che poi sono solo i camosci che vorrei dire di aver trovato persino stupiti della nostra presenza. Viene certamente dagli anni passati, da esperienza sepolte, tanto il sapere intuire il passaggio giusto quanto finire nel posto sbagliato. Ricordarsi che un canale, in Giulie, è spesso una buona opzione ma non sempre è una buona opzione.

Qual era dunque il segreto della Spragna? Perché era caduta nell’oblio dopo “le numerose salite” di cento e più anni fa? Kugy era certamente un fine osservatore di montagne con una lieve ossessione per il Montasio. E le sue guide gente con sufficiente pelo e una buona dose creativa. Sul passaggio della pertica per anni ho fatto mille congetture, che era una balla raccontata ai creduloni e magari la facevano drammatica per farsi pagare di più. Oggi, in realtà, penso soprattutto che quegli uomini barbuti, con giacche di feltro e baffoni, erano decisamente più “freak” di noialtri ben vestiti e ben informati che, al contrario, ci stiamo appiattendo sulle stesse cose. Questi ti andavano su per quei posti dissennati prendendo – magari al mattino, uscendo di casa, dalla stalla – una pertica a forcone e improvvisando questo numero da circo. Per poi accorgersi che la via era certamente grandiosa, sì, ma per andare in cima alla Nord si poteva far di meglio. L’attenzione di Kugy si spostò quindi in mezzo alla parete e la via della Spragna rimase in disparte, sprofondando in quell’oblio. Perché nessuno ha più seguito i suoi passi?

Questa forma di alpinismo è un bagno di realtà. Ti riporta all’essenziale. Alla terra che si infila sotto le unghie, a poche parole scambiate e solo per necessità, che ogni passo è una scelta, ogni direzione presa un’assunzione di responsabilità. Forse è per questo che ci spaventa. Non la fatica, ma il sapere che da qualche parte sbaglierai per forza, che il dubbio ti assalirà ancora. Ti spinge a rinunciare ad ogni certezza e – in fin dei conti – improvvisare. Essere consapevoli delle nostre scelte.

E dietro l’angolo, oltre la cengia che – come una porta segreta – ci ha condotto a scoprire la linea di fragilità della parete, abbiamo trovato la solitudine. Ma una solitudine così profonda, così totale, da fare quasi paura. Nessuno a quel punto ha detto più una parola. Bastava guardare quel vecchio piolo piegato e affidarsi ancora una volta, dopo 100 anni al cavo di guerra per capire l’oblio.

Alti sulla cresta, osservavo inabissarsi la nostra piccola Atlantide, portandosi dietro quell’oblio. E rimaneva solo il cavetto, il piolo, l’unico chiodo trovato e che aspetterà chissà quanti anni ancora, altri lettori di poche righe in corsivo di un alpinismo estinto.

Note

La “via della Spragna” è probabilmente una delle vie più dimenticate delle Giulie. Nonostante la sua linea sia molto evidente e logica (è il crestone che si diparte dalla Cima Verde e chiude ad oriente la grande muraglia settentrionale del Montasio, noto anche come “Cresta Berdo”) di fatto da 100 anni riceve rarissime visite, nonostante le difficoltà non siano elevate. Originariamente aperta da Kugy con le guide A e J Komac con lo scopo di salire direttamente dalla Saisera al Montasio e successivamente utilizzata a scopo bellico (sono ancora presenti alcune attrezzature), la via è stata abbandonata in favore della più nota “Diretta” – oggi attrezzata. Certamente una salita di questo tipo richiede una ottima esperienza nel muoversi su terreni di fatto tornati vergini, spesso esposti e su roccia non sempre affidabile (ma buona sulle difficoltà). L’orientamento non è molto complesso: noi abbiamo optato per l’attacco dal canalone della Torre Genziana invece del giro originale per la Cianrza. Oltre che più diretto è anche più divertente (passi di II su roccia ottima) e in ambiente grandioso. La salita sui ripidi prati della Cresta Verde è semplice, mentre più attenzione va posta nel tratto che porta sulla cresta rocciosa sommitale. Difficoltà di III con brevi passi di IV e uno più difficile ma agevolato da vecchio cavo di guerra. Discesa facile per la normale che si congiunge a quella del Montasio. Necessaria corda e attrezzatura alpinistica (qualche friend e chiodi).

Una lunga giornata – un viaggio solitario sulla ovest del Canin

di Piero Surace

Le giornate lunghe mi son sempre piaciute, come molti provo una qualche forma di piacere quando arrivo alla sera completamente distrutto, con le palpebre che si chiudono da sole sulla via di ritorno da una arrampicata o da una scialpinistica. Non so di preciso cosa mi attragga con tale forza verso queste esperienze, non so neanche se è importante capirlo ma sono sicuro che non sono l’unico a pensarla così.

Sciare la parete Ovest Del Kanin è un’avventura che potrebbe diventare una di quelle giornate, una giornata lunga. Già in fase di pianificazione ci si rende conto che, come usiamo dire, è un bel viaggio, a maggior ragione se fatto in totale autonomia e facendo coincidere punto di partenza e punto di arrivo.

Nel suo diario Mauro Rumez, il primo ad aver percorso con gli sci questa parete, racconta di non essere sceso fino a fondovalle in Val Resia ma di essere risalito fino a Sella Grubia per poi attraversare tutto l’altipiano che porta a Sella Bilapec o Sella Ursic per raggiungere Sella Nevea. È facile immaginare che le pagine scritte da Rumez le ho consumate a forza di sfogliarle, d’altronde Rumez era un triestino come me e pioniere dello sci ripido.

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La scelta di ripercorrere le sue orme è stata resa particolarmente facile dall’estetica della parete: entrare in Val Resia senza accorgersi della Ovest è impossibile come è impossibile non innamorarsene. Sbam, ti si para di fronte, bellissima e attorniata da pareti bellissime, in una valle incantevole. Decido di partire un sabato mattina da  Sella Nevea con relativa calma. Alle 7:30 ho le pelli sotto gli sci e inizio la risalita verso il Rifugio Gilberti pianificando di proseguire verso Sella Ursic. In mia casuale compagnia c’è Giorgio, scialpinista udinese appena conosciuto e anche lui alle prese con un avventura solitaria. Curioso condividere una parte della salita con un altro che ha deciso di andare per i fatti suoi, al suo ritmo e con le sue autonome scelte. Sul momento le chiacchiere che facciamo non mi fanno pensare più di tanto alla particolarità di questo breve incontro. Le nostre strade si dividono in Sella Ursic e proseguo da solo verso l’attacco della ferrata Divisione Julia, la risalgo interamente e mi ritrovo sulla estetica cresta del monte Kanin.

Le giornate lunghe non richiedono fretta e la fretta in quel momento non la contemplo minimamente: nulla mi vieta di stappare una birretta in cima, il tempo non mi manca e spero che col passare del tempo la neve si trasformi quanto basta per permettermi una discesa sicura e godibile.

Piero Surace sulla ovest del Canin – foto P.Surace

Si fa l’una del pomeriggio, penso che il sole potrebbe aver già scaldato la parete. Comincio a prepararmi: chiodi in tasca, corda pronta, picca nello spallaccio, attacchini chiusi e via, dopotutto sono stufo di aspettare! Da subito mi rendo conto che le speranze di trovare neve ammorbidita dal sole sono state mal riposte ma per fortuna un minimo di crosta permette alle lamine di tenere discretamente bene. Le prime curve si fanno su una pendenza costante e decisa, da metà in poi diventa meno ripido e da qui anche la neve inizia a perdonare qualcosa in più, il sole ha fatto il suo dovere e io posso far correre un po’ gli sci. Non ho neanche il tempo di godere per un po’ delle buone condizioni della neve che la mia discesa è temporaneamente finita.

Per ripercorrere i passi di Rumez devo scendere con una calata in doppia, sciare ancora qualche curva e poi lentamente rientrare verso Sella Nevea. Da quanto mi è stato riferito dovrei trovare la sosta per la calata sulla destra ed abbastanza in basso, capita però, che nelle giornate lunghe alcuni aspetti sembrino non voler girare nel verso giusto: la sosta infatti non si fa trovare. Poco male, mi accontento di un solido spuntone e inizio a calarmi con gli sci in spalla. Mi dico che “kevlarino” da 5 e una ghiera in vita saranno sufficienti, sono sicuro di non essere l’unico a propendere per uno zaino leggero. Inizio a scendere ma dopo soli cinque metri di calata sento un boato sopra di me.

Riconosco il rumore e spero con tutto me stesso che la valanga non mi stia seguendo nello stesso canalino nel quale mi trovo. Ho solo il tempo di pensare a tutto questo, vengo travolto da una scarica di neve, ghiaccio e pietre.

Quanto sarà durata? Un minuto? Tre minuti? A me è sembrata un’ora.

Fortunatamente rimango appeso alla corda fino alla fine della scarica. La sosta improvvisata tiene e maledico un po’ la scelta minimale in termini di attrezzatura, sento il sangue che mi esce dalla testa e cola verso il collo, mi stupisco di quanto sono stato fortunato a non svenire. Mi dico che non è il momento per perdersi in dubbi e domande, riprendo a calarmi fino alla base della parete e dopo essermi raccapezzato in qualche modo, continuo la discesa su uno dei firn più belli mai sciati. Devo ammettere che forse questo mio giudizio è influenzato dalla gioia di essere quasi del tutto integro seppure un po’ ammaccato.

Nelle giornate lunghe si cerca l’avventura e quando si cerca l’avventura spesso la si trova, infatti il cellulare non ha linea e so che non l’avrà fino a fondo valle. Fino a lì devo arrangiarmi da solo. Mi faccio forza pensando che in fondo sto vivendo esattamente quello che cercavo, seppure con qualche imprevisto. Da quel punto la soluzione migliore sarebbe rientrare a casera Kanin e da lì puntare a malga Coot per farsi venire a prendere da qualche generoso amico in automobile o sperare in un passaggio in autostop.

Non credo di essere nelle mie migliori condizioni, ma ricordo di un vecchio sentiero che porta a Rio Runk: inizio a cercarlo ma neanche questo sentiero vuole farsi trovare, mi ritrovo in piena parete con la certezza di dover fare almeno un altra doppia, per giunta da attrezzare. Cerco invano di piantare qualche chiodo ma nessuna fessura è così generosa da accoglierne.

La ovest del Canin in un anno di “magra” visto dal Picco di Carnizza – foto S.D’Eredità

Dopo una buona mezz’ora di tentativi individuo una vaga traccia, probabilmente battuta da qualche cacciatore. Decido quindi di abbandonare il piano della calata e di seguire questo percorso che un pò faticosamente mi porta al sentiero diretto a Coritis. Percorrendo questo sentiero mi volto per osservare la linea di discesa appena abbandonata e realizzo che è stata una fortuna non essere riuscito a piantare nemmeno un chiodo in quel punto: mi trovavo espostissimo sopra uno strapiombo e con una corda sicuramente troppo corta per raggiungere la base della parete. Una bella fortuna, dico tra me e me.

Continuo nel mio faticoso percorso e finalmente raggiungo un punto coperto da linea telefonica, approfitto subito per chiamare un’amica che accetta generosamente di venirmi a prendere.

Al nostro incontro vedo il terrore nei suoi occhi, la visione che le propongo deve essere più splatter di quel che pensavo, cerco di rincuorarla sulle mie condizioni ma le mie parole non sono sufficienti: Non riesco a convincerla di non portarmi in ospedale, ha tutte le ragioni del mondo per accompagnarmi al pronto soccorso. La mia giornata lunga, o forse ormai lunghissima  si conclude con qualche punto di sutura sulla testa e questa storia da raccontare. Il giorno dopo parlo della mia disavventura a Saverio, lui mi dice che “è la valanga della montagna che ti vuole bene”. Io ascolto in silenzio, dentro di me credo sia uno strano modo per dimostrare affetto.

Appendice

Il Lato Selvaggio – Canin, parete Ovest

Nel mondo dello sci ripido tutto è capovolto. Sia perché il senso del percorso è inverso rispetto all’alpinismo (dall’alto verso il basso), sia perché i tratti salienti vanno letti al contrario. Simile è la dinamica, opposta la direzione. Lo scalatore, come lo sciatore, individua i punti deboli di un percorso. Interpreta il terreno. Individua le vie d’uscita. Nella scalata si risolvono in un passaggio, una fessura che permette di proteggersi, una cengia che evita un tratto inscalabile. Nello sci ripido, invece, le cose si fanno un po’ più complicate. Ci sono le condizioni della neve, l’interazione con in raggi solari, la temperatura dell’aria, l’umidità. L’andamento dell’inverno, dei venti, dell’innevamento e di una miriade di componenti che fanno di questa disciplina un’arte.

Ci sono discese in cui l’uscita è un’enigma. Che tiene il fiato sospeso anche al più esperto, audace e preparato degli sciatori. La ovest del Canin è, in questo senso, emblematica. Non basta avere il coraggio di affacciarsi in questo imbuto aperto a ventaglio sulla val di Resia. Bisogna andare proprio alla strozzatura dell’imbuto, nel punto dove la gravità e l’inclinazione convogliano il peso della montagna. Dove sta la porta di uscita dalla parete.

La parete ovest del Canin

Selvaggia, misteriosa, tanto evidente quanto enigmatica, la “ovest” del Canin è forse una delle pareti più ignorate e al tempo stesso ambite a seconda degli occhi che si usano per guardarla. Anonimo pendio di sassi, rocce ed erba, fasciato dalle regolari sedimentazioni calcaree, si illumina solo nei tramonti delle giornate estive. Imbuto raccapricciante e seducente quando lo si guarda nelle corte giornate invernali, ricoperto di neve tanto da farlo apparire come un unico lenzuolo se visto da lontano. Ma quel lenzuolo è sospeso sopra un salto di almeno 20 metri che separa la parete dall’ampia conca sottostante. Una parete del genere non può che stuzzicare i sogni degli sciatori del ripido. Se la parete sud del Canin Basso è certamente più attraente per la sua eleganza e continuità, la “ovest”, girata in maniera quasi altezzosa conserva tutto la sua anima selvaggia. E quel salto in fondo non fa che aumentare la curiosità.

Curiosità che nel maggio del 1991 fu tolta da un fuoriclasse assoluto del ripido: Mauro Rumez. Il 22 maggio di quell’anno, infatti, Rumez sale in vetta al Canin per la via normale ed affronta per la prima volta l’imbuto. Quando la parete si stringe mancano 20, 30 metri alla “carnizza” sottostante dove terminano le difficoltà: Rumez attrezza una doppia e risolve il passaggio. Aveva trovato la “porta”, e anche se la corda si era resa necessaria (interrompendo quindi la linearità e continuità della discesa) rimaneva una impresa notevole, di grande valore esplorativo. L’impresa di Rumez viene ripetuta 5 anni più tardi da un’altra grande figura del ripido: Luciano De Crignis. Exploit notevole quello del maestro di sci carnico, che concatena (supportato però dall’elicottero) le due pareti, ovest e sud, nella stessa giornata: 1700 metri di sciata tra i 45 e i 55 gradi in poche ore!

Non passano tanti da queste parti, come si sa. La val di Resia non spicca certo tra le mete dei “top skiers” e la nostra parete rimane affare per pochi. Passa una generazione ed emergono nuovi sciatori del livello adeguato a questa sfida: il 3 aprile del 2014, al termine di un inverno memorabile, Andrea Fusari ed Enrico Mosetti si aggiudicano la seconda ripetizione, ma prima nello stile di Rumez, con salita in vetta per la normale. Ultimo in ordine di tempo (e per quanto si sappia!) il nostro Piero Surace “Pierin” che da solo si è lanciato giù dalla ovest nel 2021.

Difficilmente vedremo da queste parti frotte di specialisti affannarsi a cogliere le condizioni perfette, ammesso che esistano per una discesa del genere le cui caratteristiche sono quanto mai problematiche e legate alla quota, l’esposizione e le peculiarità di una montagna con pochi eguali come il Canin. Ma del resto non c’è da stupirsi ed in fondo va bene così. Per apprezzare una parete così riservata ed austera, che sembra quasi nascondersi, bisogna essere un po’come lei ed accettarne le regole. Solo così si potranno fare due passi “sul lato selvaggio” e cogliere il senso di un avventura che, talvolta, è difficile esprimere a parole.

Canin mt.2587 – parete Ovest

Dislivello: 700 metri

Difficoltà: 5.4, E4 (fino a 55°)

Prima discesa: Mauro Rumez, 22/05/1991

Quattro chiacchiere e un po’di “jamming” con Samuel Straulino

di Saverio D’Eredità

Quando si parla di Carnia, in fatto di scalata, di solito vengono in mente le placche e rigole di Avostanis, o gli esigenti monotiri della Scogliera in Pal Piccolo. Gli alpinisti che masticano vie classiche avranno sicuramente passato momenti “riflessivi” sugli spalmi e altri meno riflessivi, ma piuttosto avventurosi, cercando di venire a capo delle ostiche fessure, ora esaltanti ora disperanti, specie quando – succede sempre- la roccia presenta i bordi svasi che sembrano non andare d’accordo né con le mani né con le protezioni. Insomma, la fessura carnica è una categoria a sé stante, sicuramente un bel banco di prova per quanti li affrontano e che, una volta superatolo, non temeranno di misurarsi con i luoghi di elezione di questo tipo di scalata come il Piemonte, la Val Di Mello, il Bianco o perchè no, la mitica Yosemite.

Ho incontrato per la prima volta Samuel alla base del Salto, struttura rocciosa strapiombante nell’area del Pal Piccolo. Notammo questo ragazzo intento a scalare con calma e determinazione, una fessura dall’apparenza ostile. I sassetti che cadevano ci fecero capire che non stava salendo qualcosa di molto ripetuto. Margherita, che lo assicurava alla base, ci disse infatti che stavano aprendo dei tiri in stile trad (http://quartogrado.com/cargiul/relazioni%20montecroce/Pal%20Piccolo_Falesia%20del%20Salto.htm)e ci invitò a provare una fessura che poteva fungere da variante d’attacco alla via del Sandwich che nelle nostre intenzioni più “plaisir” ci accingevamo a salire quel giorno. I 3 friends appesi al nostro imbrago sarebbero stati sufficienti per quei 15 metri. E in effetti lo furono, dato che potemmo piazzarli in maniera ottimale sul fondo della fessura. Meno sufficiente fu la mia tecnica, di colpo costretta a misurarsi con quel tipo di scalata per noi inusuale, pregiudicando un po’ la resa sui tiri successivi. Non siamo certo specialisti! Rimasi quindi colpito dallo stile di Samuel che, scoprii dopo, con Margherita Della Pietra si stava dedicando ad aperture in stile “yosemitico” sulla difficile roccia di Carnia. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere in stile “jamming”, quella particolare tecnica che si applica sulle vie di fessura, parlando del suo percorso, le sue aperture, scoprendo come anche in Carnia ci si può confrontare con questa scalata “occidentale” immaginando quella “valley uprising” che popola i sogni di tanti di noi.

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Straulino su Ain’t no easy way out, sulla Creta di Collina – 340 mt, VIII

Quando si parla di Carnia non si pensa di certo alle fessure: eppure tu sei uno specialista di questo tipo di strutture, con un bel carnet di itinerari aperti con questo stile di scalata su queste montagne. La domanda che sorge spontanea è: come hai capito il potenziale dell’arrampicata in fessura in Carnia? E cosa ti ha spinto a specializzarti?

Quando ho cominciato a scalare il pane quotidiano per me erano i video di master of stone e tutti i video riguardanti lo Yosemite e le mitiche imprese di Tommy Caldwell e Dean Potter: quindi per me la scalata era scalare in fessura! Da qui poi ho cominciato a ripetere tutte le grandi classiche delle Carniche, scoprendo come le vie in montagna di stampo classico differiscano dalla falesia proprio per la ricerca dei punti più deboli delle pareti. Sfruttando prevalentemente fessure, camini e diedri ho iniziato a comprenderne la logica e a quel punto mi si è aperto un mondo: avevo “trovato” la mia Yosemite in Carnia! Più esperienza facevo e più cercavo di ripetere vie di maggiore difficoltà. Avendo poi scalato tanto con Roberto Mazzilis e quindi imparato moltissime cose da lui e dallo stile con cui apre le sue vie in montagna, ho cominciato a fantasticare e a cercare nuovi itinerari nello stile che mi piace di più. Così ho scoperto che le nostre pareti carniche hanno ancora delle linee che non sono state scalate con fessure strepitose!

In cosa differisce questo tipo di scalata sulle pareti carniche da quella più classica che si può trovare altrove, tanto su granito quanto su dolomia? Come ti muovi per affrontarle? Tecnica, protezioni, materiali…

Certamente c’è una gran differenza tra le fessure granitiche rispetto a quelle calcaree e dolomitiche. Innanzitutto per le caratteristiche della roccia: il granito presenta fessure regolari che corrono su pareti generalmente lisce (a seconda della grana più o meno grossa), quindi per scalarle si ricorre a tutti i tipi d incastri, da quello di mano alle tecniche di incastro su fessure “offwidth”, mentre nei calcari le fessure sono irregolari e per loro caratteristica offrono appoggi e tacche in parete, quindi non sarà sempre necessario incastrare mani e piedi. Per quanto riguarda la proteggibilità, il fatto che su granito le fessure sono più regolari fa si che sia più facile e immediato usare protezioni veloci, mentre su calcare e dolomia serve maestria nel piazzarle, spesso in fessure che risultano molto “svase”. Io cerco sempre di usare il più possibile friend e dadi per proteggermi, dove non è possibile ovviamente uso martello e chiodi.

E ora una domanda classica e scontata: dicci il tiro più bello e la via più bella (sempre parlando di fessure) che hai scalato!

Come tiro direi “Separate reality”(*) in Yosemite , mentre parlando di via direi Astroman (**)sempre in Yosemite.

(*) Separate Reality: celebre monotiro scalato da Ron Kauk nel 78 (diff. originaria 5.12, 7a+), immortalato in numerose foto che hanno fatto la storia dell’arrampicata americana. Mitica la prima free solo di Gullich nel 1986.

(**) Sulla Washington Coloumn, Astroman è una delle vie più importanti dello Yosemite, aperta nel 1959 da Warren Harding, Glenn Denny e Chuck Pratt, valutata 5.11 c (corrisponde all’incirca a un 6c+ in scala francese, ma su una scalata molto specifica)

Parlaci di te, del tuo percorso e delle tue esperienze: hai viaggiato molto per andare a provare le scalate “iconiche” in fessura, ad esempio. Quali sono i luoghi da non perdere per questo tipo di scalata?

Fin da bambino ho iniziato a frequentare la montagna sia con escursioni estive che d’inverno sugli sci assieme ai miei zii. Ho cominciato a scalare a vent’anni da autodidatta e divorando tutti i video che trovavo sullo Yosemite e tutte le più famose bigwall al mondo, quindi per me la scalata era…scalare in fessura! Dopo pochi mesi ero già pronto per andare a ripetere vie classiche in montagna, la falesia era solo allenamento per riuscire ad alzare il grado sulle vie. Durante i primi anni di scalate ho avuto la fortuna di conoscere il fuoriclasse Roby (Roberto Mazzilis) e da li è cominciata una vera e propria saga di vie nuove aperte insieme a lui. Scalando con Roberto ho imparato tante cose e sopratutto ho avuto la fortuna salire dove nessuno era stato prima. Quella sensazione di novità, avventura e di mettersi totalmente in gioco che si prova soltanto in montagna mi ha rapito fin da subito. Quindi ho cercato di far più esperienza possibile per poi trovare le mie nuove linee, cercando le fessure ancora inviolate sulle pareti vicino casa. E appena ho potuto sono volato oltre oceano per visitare la mitica valle che ho sempre sognato: lo Yosemite. Qui ho ripetuto tante vie classiche e anche monotiri che hanno fatto la storia, come Separate Reality. Una grande avventura è stata la via “Astroman”, sia per la via in sé, una bellissima scalata tra diedri infiniti ed incastri in fessure di ogni larghezza, sia per il fatto che avevamo portato pochissima acqua con noi per non avere tanto peso con la conseguenza che arrivammo in cima disidratati e sfiniti. Un altro posto molto bello per le vie lunghe è il Zion National Park, dove consiglierei Moonlight Buttres e Tatooine. Il viaggio è finito con le fessure più perfette che si possano desiderare, in un ambiente magico quale il deserto a Indian creek, dove ho scalato veramente tantissimo ripetendo un sacco di vie dalle classiche “iconiche” a quelle meno conosciute. Sicuramente ci tornerò, secondo me sono posti magici!

Poi però sei tornato a casa, dove hai continuato una incessante opera di individuazione ed apertura di vie di stampo tradizionale, prediligendo lo stile “americano”, quindi arrampicata tendenzialmente “clean” e ricerca di fessure. Domanda d’obbligo: quale tra le vie da te aperte consideri la migliore?

Tra quelle che ho fatto, direi proprio l’ultima sulla parete sud della Creta di Collina, un luogo speciale per me (qui Samuel ha aperto Ain’t no easy way out e Hotshots, nonché raddrizzato la classica Viaggio ad Oxford – ndr) dove ho aperto “Be the Change”, 230 mt difficoltà massima di VIII+. Qui ho trovato dei tiri in fessura davvero spettacolari, ma anche passi in placca non da meno. Peccato solo che la parete di per sé non sia molto alta, se vogliamo è l’unico difetto che posso trovarle. Però ci tengo a ricordare anche un’altra via, che ho soltanto ripetuto, ma che ha rappresentato molto per me. Si tratta di “Laura”, sulla sud del Gamspitz (via storica, aperta da Mazzilis e Di Gallo nel 1984 dove per la prima volta su queste montagne si è sfiorato l’ottavo grado: la via infatti presenta un passo di VIII- e conta pochissime ripetizioni tutt’ora -ndr): non la più dura che ho salito, ma la più desiderata sicuramente. Ripeterla con l’autore, Roberto Mazzilis, è stata un’emozione particolare.

L’arrampicata cosiddetta “trad” sta avendo un grande interesse negli ultimi anni: secondo te come mai?

Io penso che l arrampicata “trad” possa darti molto di più a livello di “avventura” e quindi di coinvolgimento mentale, dove oltre al gesto tecnico sei tu a decidere dove e quanto proteggere un tiro. Oltre al fatto di riuscire a farti crescere mentalmente e stimolarti a ripetere vie sempre più dure.

Come vedi l’evoluzione di questo stile applicato alle falesie come ad esempio fanno da sempre in Uk, ma anche tu hai aperto dei tiri trad in Pal Piccolo. Secondo te avrà futuro o sarà sempre una nicchia?

Certamente in Uk c’è una lunga tradizione sul fatto di scalare “clean”, ma c’è anche una roccia diversa dalla nostra, quindi forse più “portata” a questo stile. Non va dimenticato comunque che anche da noi negli anni ottanta, assieme alla nascita delle falesie attrezzate a spit in Pal Piccolo sopravvivevano parecchie fessure protette solo con nut ed exentrics. Successivamente – purtroppo secondo me – anche da noi si è un po’abusato di questo strumento: su placche altrimenti impossibili da proteggere va benissimo, ma su moltissime fessure non li avrei usati. Questo perché oltre a sminuirle nell’impegno, tolgono anche la possibilità a molti di imparare ad usare le protezioni veloci e a conoscere un modo diverso di scalare. Infatti qua da noi in Friuli poca gente ha una serie di friend nella propria attrezzatura, quindi almeno qui da noi il “trad” farà molta fatica ad avere successo, se non tra i pochi appassionati.

Tu sei anche guida alpina: se un cliente volesse iniziare a provare a scalare tiri in fessura, cosa consiglieresti? come lo guideresti?

Le fessure carniche non sono certo come le fessure che si possono trovare in granito, dove si ha una scalata in fessura più completa, però secondo me si potrebbe tranquillamente cominciare con le nostre pareti, magari proprio in Pal Piccolo zona “Scogliera” per poi passare alla mia falesia trad e finire con l arrivare a ripetere qualche multipitch zona Salto (vedi https://rampegoni.wordpress.com/2020/12/06/ritorno-al-futuro-arrampicata-trad-sulle-pareti-del-pal-piccolo/). Se invece si cerca il granito, la”Mecca” qui in Italia è il Piemonte con la valle dell Orco, dove ci sono sopratutto multipitch, oppure le falesie di Cadarese e Yosesigo con i suoi monotiri e le fessure perfette!

Insomma, non resta che fasciarvi le mani, appendere i friends all’imbrago e lanciarsi in quell’avventura intensa e leale che questa arrampicata sa regalare. Immaginando per un momento di trovarsi in una nostra piccola Yosemite a nordest.

Samuel in apertura sulla falesia del Salto

Annozero (sul Nevee Outdoor Festival e altre cose)

di Saverio D’Eredità

“Che vergogna, sarà mica accoglienza questa! Tovagliette di carta e nemmeno una carta dei vini!”

“Ci siamo persi, i segnavia erano sbiaditi e non mi prendeva il GPS!”

“Quella ferrata è pericolosa: c’è un tratto in cui il cavo è allentato e nessuno ha messo un cartello. Andrebbe chiusa!”

“Nel programma era previsto di arrivare in cima alle ore 12 e invece non l’abbiamo nemmeno vista!”

Avete già sentito commenti come questi? Non è raro intercettarli in qualche bar di fondovalle o fuori dai rifugi. Senza parlare delle pagine dei social. Forse alcuni vi sembrano esagerati, ma non siamo poi tanto lontani dalla realtà. E la realtà è che – ci piaccia o meno – tutto quello che gravita attorno alla montagna è né più né meno che un prodotto di mercato. Che sottostà a regole di marketing più che meteorologiche. Dove le condizioni naturali sono sostituite dall’offerta. Dove si fruisce e non si vive.

Potrebbe sembrare la solita lamentala di un nostalgico amante di un’arcadia ormai perduta (e forse mai esistita). Ma credo che tante volte il liquidare così ogni tipo di riflessione sia solo un modo per eludere il problema. Problema di cui siamo tutti parte: prima ancora che come “appassionati” (tralasciando le definizioni o meglio “nicchie” per usare ancora una volta un termine economico), sicuramente come cittadini per non dire consumatori. Perché quello siamo. Consumatori del prodotto montagna, con tutto il corollario che va dall’ultimo aggiornamento tecnologico che ci portiamo dietro all’abbigliamento, dall’attrezzatura tecnica ad un determinato “stile” che adottiamo (o compriamo?) per sentirci in quel contesto, in quel momento, inseriti, accettati per non dire apprezzati. E che altro non è che conformismo.

Credo sia questo il punto: non tanto demonizzare il risvolto economico del turismo (ricordandoci che la prima forma di turismo alpino fu proprio l’alpinismo dei benestanti inglesi nell ‘800), né per contro, inneggiare ad una non meglio definita libertà che si tramuta in sterile anarchia. Il punto è aver pian piano fatto sfumare il senso profondo della montagna (anzitutto per quello che è, ovvero spazio naturale) fino a farlo diventare del tutto secondario rispetto al “prodotto montagna”.

Ne avevamo già parlato su questa pagina quando, nella surreale primavera del 2020 si era posto il problema della agibilità dei rifugi (e persino della percorribilità dei sentieri!) in pandemia. Ma di quel dibattito ricordo soprattutto l’incredibile spostamento del discorso da un tema di “sicurezza sanitaria” ad uno di “qualità dei servizi”. Come se un rifugio fosse un resort che doveva “garantire” uno “standard”.

Se ci pensate non è tanto diverso dal dibattito odierno. All’indomani del cataclisma (perché quello è stato) della Marmolada, il dibattito mediatico ha deviato la sua traiettoria da una urgente riflessione sugli effetti del cambiamento climatico (ovvero la causa), per concentrarsi sulla regolamentazione delle attività che si svolgono in quota, quasi fosse quello il problema. E al di là della deprecabile morbosità quando si conta la perdita di vite umana, la conclusione è stata che bisogna in qualche maniera “porre dei limiti”. Insomma, se del caso, vietare. E così mentre ci lamentiamo che mancano i cartelli o il rifugio non propone un adeguato menu, un giorno ci alzeremo e scopriremo che in montagna potremo andarci solo sulla base di un’autorizzazione emessa da qualcuno al quale avremo delegato la nostra capacità di scelta. E magari ci starà anche bene, nel frattempo.

Ma cosa c’entra tutto questo con il Nevee Outdoor Festival? Dopo due anni di stop forzato e con il rischio di perdere quell’atmosfera festosa (e la voglia di ricrearla) che aveva caratterizzato un’occasione del genere, quest’anno il NOF riparte. Dalle origini. Da quella che era la grande festa pensata da Leo (e per Leo) come un raduno di ragazze, ragazzi, bambini e adulti accumunati da quelle passioni in cui la Natura è parte integrante.

Il NOF di quest’anno si libera di programmi, percorsi segnati, tabelle e appuntamenti. Un unico, grande raduno di due giorni il cui cuore pulsante è il Rifugio Gilberti. A parte le attività organizzate per i bambini (da sempre elemento distintivo di questo ritrovo), il resto si svolgerà a schema libero. Avete un crash pad? Portatelo su, cercatevi un masso, massacratevi i polpastrelli per risolvere un blocco! Vi piace camminare? C’è un pianeta Canin da scoprire, vi basta un passo per entrare nel Parco Prealpi Giulie. Amate le vie a più tiri? Credo che in Giulie e forse nelle Alpi orientali non esista roccia come quella del Bila Pec. Ci sono inghiottitoi per chi vuole esplorare gli abissi, linee di slack da tirare, manca solo la neve quest’anno, ma speriamo si sia solo presa una pausa.

Cosa c’entra quindi il NOF? Il NOF vive un nuovo annozero, in cui ripensare tutto di nuovo. Che nel suo piccolo lancia un messaggio: viviamo la montagna per quello che è. Viviamo la Natura indipendentemente da una tabella, un programma, un pacchetto. Non facciamoci imboccare, incasellare, guidare. Se rinunciamo a questa autonomia, il cui altro lato è la responsabilità delle nostre azioni, avremo rinunciato – e per davvero – alla libertà. E non quella vuota, svogliata, libertà “di fare quello che voglio”, ma la libertà del prendersi cura di noi stessi, degli altri, dell’ambiente. Una libertà piena e consapevole.

Dipende da noi, ora più che mai.

Note: il NOF 2022 si terrà il 23 e 24 luglio a Sella Nevea. Le attività organizzate e guidate saranno dedicate esclusivamente ai bambini (under15), quali arrampicata, speleologia e slack line e partiranno dalla mattina di sabato (ore 10) al tardo pomeriggio (ore 17), analogamente la domenica. Il resto a schema libero, nella meravigliosa cornice della conca Prevala.

Info sul NOF al sito e sulla pagina Facebook

http://www.neveeoutdoorfestival.com/ https://www.facebook.com/NeveeOutdoorFestival

The Julian connection – scalate in letargo

di Emiliano Zorzi

A quanto pare l’inverno bussa alle porte e quindi la scalata su roccia si avvia al letargo, specialmente quella rivolta a nord. Dato il luogo in cui sono nate, profondamente giulio, e la connessione di eventi che hanno portato alla loro gestazione e svezzamento, No Pellarini – no patry e Pari o dispari, ormai attenderanno il disgelo 2022 per poter conoscere il mondo.

L’estate 2020 ne ha visto la nascita, l’estate 2021 le prime scalate da parte dei genitori e qualche sporadica visita di amici, parenti e aficionados; per quella del 2022 potranno camminare con le loro gambe…o meglio, far muovere le gambe dei futuri ripetitori che apprezzino le loro fattezze, ovvero:

  • camminata di due orette circa in ambienti solitari e idilliaco-severi allo stesso tempo;
  • scalata su quel caratteristico calcare duro e arcigno delle pareti ombrose giuliane;
  • presenza di bel tempo (possibilmente caldo) stabile data la lunghezza delle vie e delle discese.

Insomma un assaggio in chiave sportiva delle nord nostrane.

Nello specifico qualche notizia:

Quinta Rondine mt.1848 – No Pellarini, no party

380 m, 7a (obbl. 6b), 15 lunghezze

Relazione qui: http://quartogrado.com/friuli/Fuart/Quinta%20Rondine_No%20Pellarini%20no%20party.htm

Si sviluppa sulla parete a forma di pala, rivolta a nord-ovest, della Quinta Rondine. Queste rocce, ben visibili da tutta la Saisera, sovrastano il morbido ambiente boscoso e prativo della Sella Prasnig. Pur in questo quadro ameno, la scalata è a tratti arcigna, anche se sempre protetta sistematicamente a fix. Nei 15 tiri entra un po’ di tutto: lunghezze verticali-strapiombanti fisiche su roccia ottima, tratti di media difficoltà su simil-placca, qualche tratto molto facile su terreno sporco e/o friabile come tipico condimento del posto.

La via è stata conclusa in extremis pre-inverno nel novembre 2020, prima scalata a fine giugno 2021 (G. Barnabà, E. Zorzi, U Iavazzo), a cui sono seguite un paio di altre scalate di cui abbiamo notizia. Dopo la conclusione della via è stata individuata, sull’altro versante, una discesa “normale” (terreno selvaggio ma max. I e II) attrezzata con qualche sosta di calata e taglio di mughi, in modo da evitare una lunghissima serie di doppie lungo la via di salita.

Per circa 10 metri, la via incrocia Caccia al tesoro di Roberto Mazzilis e Lisa Maraldo. Un ringraziamento a Roberto che ci ha permesso di mettere due fix sulla sua via, per non creare un “buco” troppo lungo fra le protezioni di No Pellarini, no party.

Il nome deriva dalla festa di compleanno a sorpresa organizzata da benemeriti amici durante il soggiorno al rifugio.

Quinta Rondine – Nono tiro di “No Pellarini no party” – foto Archivio E.Zorzi

Cresta Berdo , Pilastro Gloria (top.proposto) mt 2076 Pari o dispari

350 m, 6c (obbl. 6b), 12 lunghezze

Relazione http://quartogrado.com/friuli/Montasio/Cresta%20Berdo_Pilastro%20Gloria_Pari%20o%20dispari.htm

Si svolge a cavallo del netto spigolo dello sperone che scende dalla Cresta Berdo verso il grandioso circo sottostante la parete nord del Montasio-Cima Verde. L’idea è nata a seguito della ripetizione di una via vicina (O là o rompi), alla vista dello spettacolare spigolo tagliamare, simile alla scura pinna di squalo. Per una mera casualità, le lunghezze dispari sono quelle caratterizzate da una scalata tecnicamente più impegnativa e “sportiva” su roccia ottima; quelle pari sono invece più adatte allo scalatore “classico”. Date le difficoltà inferiori su roccia sempre buona e ripulita ma che necessita di un po’ più di occhio.

La via è stata conclusa nell’agosto 2020; la prima salita (R. Geromet, E. Zorzi, M. Buzzinelli) è dell’agosto 2021 a cui sono seguite alcune altre ripetizioni note. Curiosamente (considerando che il luogo è molto isolato, lontano da sentieri battuti), qualcuno aveva già tentato la scalata della via prima della sua pubblicazione. Abbiamo rinvenuto una maglia rapida di calata verso la fine del quinto tiro. Lì il destino beffardo (per gli aspiranti ripetitori) ha voluto che la sosta si trovi nascosta alla vista a destra oltre uno spigoletto, mentre dritti sulla parete ci sono due tasselli senza piastrina (di un nostro tentativo abortito) che devono avere ingannato gli ignoti-ignari scalatori. Ora, post-letargo inverno 2021 e svezzamento, gli aspiranti potranno avere più fortuna.

Sul nono tiro di “Pari o Dispari” alla Cresta Berdo – foto Archivio E.Zorzi

Like a Virgin – Notizie e ringraziamenti dal Vallone di Riofreddo

di Emiliano Zorzi

Come d’uso per il blog, Sav mi ha chiesto un breve testo-storia per accompagnare la notizia dell’apertura di “Like a virgin”, sulla solare faccia sud-est della Media Vergine. Data la pigrizia e il fatto che mettersi a raccontare si va a finire a dire sempre le stesse cose, butto giù semplicemente una serie di ringraziamenti e incoerenti notizie sulla via e dintorni.

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Una speciale Trilogia nel segno di Comici

di Saverio D’Eredità

Stilare classifiche e liste è sempre un giochetto divertente seppur fine a sé stesso. Nel mondo alpinistico le raccolte più o meno note di “le 100 più belle…” (scalate, sciate, cime, traversate…l’elenco può essere lunghissimo) sono una costante e bisogna ammettere che ognuno di noi ha le sue liste segrete. Che poi, si sa, lasciano il tempo che trovano, ma dato che viviamo una passione che per metà è sogno e metà azione, quella parte di sogno va pure coltivata! Il bello delle liste è che se ne possono creare di tutti i tipi. Il brutto (ma anche il bello, su) è che non metteranno mai tutti d’accordo, e mi sembra normale. Ma c’è un tipo del tutto particolare di liste, quelle che potremmo definire “filologiche”, che sono certamente da intenditori, ma almeno abbastanza oggettive. Sono le liste che si costruiscono sulla storia, sui legami sottili tesi attraverso le epoche, i personaggi, gli stili. Richiedono conoscenze, una certa dose di gusto e anche capacità di osservazione. Se dovessi iniziare a parlare di una “Lista” di linee sciistiche di alto livello citando Emilio Comici forse qualcuno inizierebbe a non seguirmi. Non è infatti noto a tutti che proprio Comici, lo scalatore simbolo dell’epoca del sesto grado, fosse anche un altrettanto appassionato esploratore di salite su neve e ghiaccio. Le Alpi Orientali, si sa, non sono il terreno ideale per questo genere di salite, eppure una caratteristica propria delle Dolomiti e delle Giulie sono proprio i grandi canaloni nevosi. Cupi e incassati tra le pareti, spesso interrotti da salti “misteriosi” in quanto imprevedibili e soggetti all’andamento delle stagioni, i canali dell’est hanno caratteristiche peculiari rispetto a quelli dell’ovest. Soprattutto, sono linee “naturali” e per questo non possono che attrarre l’insaziabile occhio dei cacciatori di linee. Tanto di salita quanto di discesa.

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Fuga sul Plauris

di Saverio D’Eredità

Sono giunto alla conclusione che il merito di certe imprese un po’folli sia da attribuirsi non tanto a chi le ha concepite (che a sparare minchiate siamo bravi tutti), quanto piuttosto al primo che ci crede. Mi spiego. Quando arrivi a dire “bè, se siamo in zona rossa e possiamo muoverci solo in bici potremmo pur sempre fare – che ne so – il Plauris partendo da Udine” (che già il Plauris, di per sé, non è che sia una montagnetta). Ecco, quando dici una cosa del genere (sapendo benissimo che rimarrà sepolta in qualche chat insieme a chissà quali altre fantasie) è il primo a venirti dietro che è veramente l’artefice. E con lui tutti gli altri. E a quel punto tutto rientrerà nell’ambito di una certa – seppure disagiata – normalità.

Partenza notturna da Udine – foto M.Battistutta

Sembrerà normale quindi sgattaiolare alle 5 del mattino, con la città ancora anestetizzata dalla notte e il coprifuoco, trovarsi come ladri all’angolo di una strada e filare via leggeri se non nel carico almeno nell’animo. Gli sci che fendono l’aria come spinnaker sulla bici, tutto il resto legato alla “mah sì, secondo me regge” e via attraversando gli scheletri di cemento e acciaio della nostra quotidianità. Scoprendo che gli uccellini cinguettano anche alle rotonde (sì, anche al Terminal Nord) e che l’alba colta all’altezza del sexy shop di Gemona sa essere tenue e commovente come da una cresta del Bianco.

Cambio assetto 1/ Portis ore 7 – foto F.Clocchiatti

E a quel punto non ci sarà più niente di strano e ti sembrerà persino ovvio parcheggiare le bici e caricarsi gli sci in spalla (tanto era lì che stavano già da due ore e 40 km) e addentrarsi nella val Lavaruzza, misteriosamente bella come tante valli prealpine. Anche se a risalirle, queste valli (o sarà meglio definirle scoli, grondaie, pareti un po’boscose), è come la comica del rastrello: ogni passo che fai è come pestare un rastrello e prendersi un palo in faccia da quanto è ripido. Però le cascate, ora al disgelo, sono bellissime e da qui non si vede nemmeno l’autostrada.

Quella di Cjariguart è una terra promessa di neve e silenzio, a dimostrazione che follia non era, anzi. Metter giù gli sci (finalmente!) e incamminarsi verso la cima (che vuoi sono solo ancora 700 metri) a quel punto non sarà né un sacrificio né un’agonia, ma un dovuto omaggio al Re delle Prealpi Giulie. Perché alla fine siamo venuti qua – ammettiamolo – per una foto. Una bella foto, per carità, quella che immortala la curva (una, due, al massimo) più elegante delle Prealpi Giulie. Ma pur sempre una foto. No, ditemi se non è da bohemien questa cosa. Però loro ci hanno creduto. E allora penso che se tutti veramente avessimo qualcosa in cui credere (qualcosa di bello, di esteticamente apprezzabile, di totalmente coinvolgente, intendiamoci), chissà che sfracelli faremmo. Pensa che spirito, che coesione, che forza! Potremmo farne la rivoluzione.

Ultimi passi prima della cima del Plauris – foto G.Simeoni

Sempre che la cosa non sfugga di mano. È successo, anche stavolta – è un rischio insito nelle rivoluzioni – che poi gli altri ci credano un po’ troppo. Che la tua idea del mattino (una delle tante) di sfruttare quella lingua di neve che scarta a destra la cascata e (pensa tu!) ti fa sciare ancora duecento metri sia veramente fattibile. Ci avevamo visto passare un camoscio come una scheggia giù di là. Ed è vero che “dove passa il camoscio passa anche l’uomo” ma io a quella panzana non ci ho mai creduto. Dove passa il camoscio l’uomo passerà anche, ma se la fa sotto. Già mi vedevo derapare afferrando rametti qua e là calcolando punti di caduta e potenziali traumi, litigare con qualcuno a caso e tornare giù infastidito. Quindi è stata persino commovente l’insistenza infantile di Gabriele (“se non vieni tu non ci vengo io”) e l’audacia silenziosa (e inconsapevole) del Batti, nel lanciarsi sul bordo di quell’abisso tra rododendri, faggi e poi chissà e dire “mah si, SEMBRA che si passi”. E perdio, siamo pur sempre sciatori o no? E allora via, seguendo il camoscio e ancora la neve, fino al salto della cascata, là dove ridiventa acqua, ridiventa tempo che scorre. Allora via, ma a cercare cosa poi, l’avevamo capito? Avevo riletto qualche giorno prima l’avventura di Felice Benuzzi sul Monte Kenya. La fuga da un campo di prigionia (e ritorno) a puro scopo di alpinismo. Vi lascio con queste parole, senza aggiungerne altre.

“Esiste un futuro! Se si sa crearlo, se si sa osare, se si sa preparare. Tu puoi rimettere in moto il tempo se ti sai impegnare con tutto te stesso.”

La più bella curva delle Prealpi Giulie: Gabriele Simeoni in discesa dalla cima del Plauris – foto M.Battistutta

Ritorno al Futuro – arrampicata “trad” sulle pareti del Pal Piccolo

di Saverio D’Eredità

Trad, tred…o cosa?

Si chiama “Trad” si legge “Tred”, ma gli alpinisti di un tempo mi direbbero “alla vecchia”! Sono poi così importanti le definizioni e le etichette quando si fa qualcosa, soprattutto quando lo si fa per passione e un pizzico d’amore? Del resto, un vecchio trucco del marketing è proprio quello di cambiare nomi alle cose per farle sembrare nuove. Ma noi, che esercitiamo sempre e comunque il libero pensiero, non ci faremo trarre in inganno. Parlare di arrampicata “trad” sulle pareti del Pal Piccolo come fosse qualcosa di nuovo, in effetti, è solo una mezza verità. Perché tutto sommato qui la storia era iniziata proprio così. Con un pugno di dadi (all’epoca si trattava soprattutto dei mitici “eccentrici” oggi quasi del tutto scomparsi dall’argenteria alpinistica, anche se le fessure carniche li apprezzerebbero ancora…), un po’di sana follia e tanto pelo sullo stomaco. Oggi lo chiamiamo “trad”, ci siamo anche dati delle regole (è un po’un vizio dei nostri tempi), ma dovremmo sempre guardare le cose più per come sono che non per come vogliono apparire. E scoprire che in ogni storia nuova c’è un seme antico.

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Un passo dopo l’altro sulla cresta Val d’Inferno

di Saverio D’Eredità

Non c’è mai niente di facile, da queste parti. Soprattutto, mai niente di scontato. O che sia quantomeno un po’prevedibile. In quanto terra di opposti, dove idilliaco e arcigno coesistono costantemente, la Carnia non si smentisce. Ti priva di punti di riferimento. Prendi le sue creste, ad esempio. O sono quelle dorsali mansuete, bovine, dove pascolare in serenità lasciandosi cullare nei grandi spazi, o sono fragili castelli tutti in bilico e precarietà. Sono controverse, le creste. Sono l’ossatura delle montagne, l’esoscheletro che le tiene appese al cielo. Ma non tutte, perché altre te le devi immaginare. Non dev’essere un caso che a “pensare” e poi intrecciare i passaggi di questa cresta fossero stati due assi come Ettore Castiglioni e Gino Pisoni, nel 1939. Castiglioni stava battendo le Carniche per realizzarne la prima guida CAI, e pensò bene di inanellare tutti i i pinnacoli della lunga cresta che dalla Forcella Val Grande arriva fino ai Brentoni. Eppure, non è esattamente una cresta logica. Districarsi tra questi denti scheggiati è un tormento non da poco, una specie di esercizio mentale dove alla fine vince chi riesce a scendere ad un compromesso sufficiente con una serie di cose: sicurezza, velocità, curiosità. Non si può essere troppo ortodossi, mentre si fa l’elastico su questa specie di yo-yo di calcare sbrecciato, che poi ogni tanto – vedi? gli opposti, le contraddizioni che ti stupiscono – ti regala momenti di pura delizia salendo alle vette. Del resto, come si fa a non fare una visita a quella cima beccuta dal nome Pinguino (solo per il nome, andrebbe salita), o alla baricentrica Torre Val d’Inferno o ancora alla Torre Innominata col suo libro di vetta che è una specie di bottiglia dei naufraghi. Salendole scopri il dono della roccia magnifica, appena dopo aver lasciato pensieri e capelli bianchi in traversini che te li raccomando. Ci sarebbero un sacco di considerazioni da fare, azzardando paragoni con la vita e gli stati d’animo, andando in su e in giù in qua e in là su questa cresta che poi è cresta solo ogni tanto e quando gli pare a lei. Che sa anche respingerti o scambiare le carte (vero, Torre Evelina?) ma noi che appunto non siamo troppo fissati con i numeri ma ci piace il gioco in sé, una soluzione l’abbiamo trovata lo stesso. Si, si potrebbe ricavarne un po’di lezioni sulle cose del mondo, ma per oggi preferiamo rimanere concentrati sul presente. Un passo dopo l’altro. E occhio eh, che non si sa mai. Un po’come la vita, in effetti.

La cresta Val d’Inferno ben visibile a destra. A sinistra la piramidale cime Ovest dei Brentoni – foto S.D’Eredità
A fil di cielo: Carlo Picotti nel tratto di cresta che precede la Torre Val d’Inferno
Sospesi: caratteristica lama prima del Pinguino – foto C.Picotti
Saverio D’Eredità risale la fessura sotto la Torre Val d’Inferno – foto C.Picotti
Traverso delicato sotto Punta Anna -foto C.Picotti

Cresta Val d’Inferno

(Alpi Carniche – gruppo dei Brentoni)

Difficoltà: dal II al IV

Dislivello: circa 500 mt (saliscendi) e circa 1500 di sviluppo

Roccia: di qualità varia, da friabile a molto buona

Prima salita: Ettore Castiglioni e Gino Pisoni, 13 luglio 1939

Prima Invernale e solitaria: Mario Di Gallo, 20 gennaio 1990

Itinerario n. 11 della Guida A. Carniche Occ.li

Nel suo genere, più un’eccezione che una regola, considerando che le Carniche non abbondando di percorsi di cresta. Castiglioni e Pisoni nel ’39 hanno saputo immaginare un percorso di grande fantasia ed eleganza, destreggiandosi tra torri e pinnacoli e toccando ben 5 cime tra la Forcella Valgrande e la forcella che separa la Torre Evelina dalla Cima Brentoni Est. In totale sono oltre mille metri di dislivello e quasi duemila di sviluppo su terreno esposto, spesso su roccia friabile, ma anche incredibilmente solida (soprattutto salendo al Pinguino, Torre Val d’Inferno e Torre Innominata). Ne risulta una specie di “grande course”, molto interessante e decisamente alpinistica anche se le difficoltà non superano il quarto. Necessaria una corda da 50 metri, qualche friend e chiodi per evenienza. Lungo il percorso si incontrano 4 brevi doppie (vivamente consigliate!) e – a seconda dell’esperienza e grado di confidenza – potrà essere necessario effettuare brevi tiri di corda, in particolare nel traverso (delicato, noi l’abbiamo trovato verglassato) sotto Punta Anna e nella salita alla Torre Evelina. A onor del vero su quest’ultima, per pochi metri, non siamo arrivati: la fessura finale ci è parsa decisamente friabile seppur fattibile. Abbiamo quindi optato per l’aggiramento della Torre per rampa a sud e attrezzato una breve doppia per entrare nel canale sotto la forcella (1 ch. vecchio in loco+1 ch.nostro e kevlar nuovi).Rispetto alla relazione nella nostra guida Alpi Carniche occ.li, segnaliamo che nel tragitto prima del Pinguino sono 2 e non 1 le doppie da eseguire, mentre la salita a Punta Evelina presenta roccia friabile in finale. Forse è possibile salire per la parete sud più a sx e quindi completare integralmente la cresta (ovviamente se qualcuno ha info saremo ben felici di correggere e aggiornare!)

Sguardo a ritroso per Carlo Picotti verso la lunga cresta Val d’Inferno – foto S.D’Eredità