Una lunga giornata – un viaggio solitario sulla ovest del Canin

di Piero Surace

Le giornate lunghe mi son sempre piaciute, come molti provo una qualche forma di piacere quando arrivo alla sera completamente distrutto, con le palpebre che si chiudono da sole sulla via di ritorno da una arrampicata o da una scialpinistica. Non so di preciso cosa mi attragga con tale forza verso queste esperienze, non so neanche se è importante capirlo ma sono sicuro che non sono l’unico a pensarla così.

Sciare la parete Ovest Del Kanin è un’avventura che potrebbe diventare una di quelle giornate, una giornata lunga. Già in fase di pianificazione ci si rende conto che, come usiamo dire, è un bel viaggio, a maggior ragione se fatto in totale autonomia e facendo coincidere punto di partenza e punto di arrivo.

Nel suo diario Mauro Rumez, il primo ad aver percorso con gli sci questa parete, racconta di non essere sceso fino a fondovalle in Val Resia ma di essere risalito fino a Sella Grubia per poi attraversare tutto l’altipiano che porta a Sella Bilapec o Sella Ursic per raggiungere Sella Nevea. È facile immaginare che le pagine scritte da Rumez le ho consumate a forza di sfogliarle, d’altronde Rumez era un triestino come me e pioniere dello sci ripido.

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La scelta di ripercorrere le sue orme è stata resa particolarmente facile dall’estetica della parete: entrare in Val Resia senza accorgersi della Ovest è impossibile come è impossibile non innamorarsene. Sbam, ti si para di fronte, bellissima e attorniata da pareti bellissime, in una valle incantevole. Decido di partire un sabato mattina da  Sella Nevea con relativa calma. Alle 7:30 ho le pelli sotto gli sci e inizio la risalita verso il Rifugio Gilberti pianificando di proseguire verso Sella Ursic. In mia casuale compagnia c’è Giorgio, scialpinista udinese appena conosciuto e anche lui alle prese con un avventura solitaria. Curioso condividere una parte della salita con un altro che ha deciso di andare per i fatti suoi, al suo ritmo e con le sue autonome scelte. Sul momento le chiacchiere che facciamo non mi fanno pensare più di tanto alla particolarità di questo breve incontro. Le nostre strade si dividono in Sella Ursic e proseguo da solo verso l’attacco della ferrata Divisione Julia, la risalgo interamente e mi ritrovo sulla estetica cresta del monte Kanin.

Le giornate lunghe non richiedono fretta e la fretta in quel momento non la contemplo minimamente: nulla mi vieta di stappare una birretta in cima, il tempo non mi manca e spero che col passare del tempo la neve si trasformi quanto basta per permettermi una discesa sicura e godibile.

Piero Surace sulla ovest del Canin – foto P.Surace

Si fa l’una del pomeriggio, penso che il sole potrebbe aver già scaldato la parete. Comincio a prepararmi: chiodi in tasca, corda pronta, picca nello spallaccio, attacchini chiusi e via, dopotutto sono stufo di aspettare! Da subito mi rendo conto che le speranze di trovare neve ammorbidita dal sole sono state mal riposte ma per fortuna un minimo di crosta permette alle lamine di tenere discretamente bene. Le prime curve si fanno su una pendenza costante e decisa, da metà in poi diventa meno ripido e da qui anche la neve inizia a perdonare qualcosa in più, il sole ha fatto il suo dovere e io posso far correre un po’ gli sci. Non ho neanche il tempo di godere per un po’ delle buone condizioni della neve che la mia discesa è temporaneamente finita.

Per ripercorrere i passi di Rumez devo scendere con una calata in doppia, sciare ancora qualche curva e poi lentamente rientrare verso Sella Nevea. Da quanto mi è stato riferito dovrei trovare la sosta per la calata sulla destra ed abbastanza in basso, capita però, che nelle giornate lunghe alcuni aspetti sembrino non voler girare nel verso giusto: la sosta infatti non si fa trovare. Poco male, mi accontento di un solido spuntone e inizio a calarmi con gli sci in spalla. Mi dico che “kevlarino” da 5 e una ghiera in vita saranno sufficienti, sono sicuro di non essere l’unico a propendere per uno zaino leggero. Inizio a scendere ma dopo soli cinque metri di calata sento un boato sopra di me.

Riconosco il rumore e spero con tutto me stesso che la valanga non mi stia seguendo nello stesso canalino nel quale mi trovo. Ho solo il tempo di pensare a tutto questo, vengo travolto da una scarica di neve, ghiaccio e pietre.

Quanto sarà durata? Un minuto? Tre minuti? A me è sembrata un’ora.

Fortunatamente rimango appeso alla corda fino alla fine della scarica. La sosta improvvisata tiene e maledico un po’ la scelta minimale in termini di attrezzatura, sento il sangue che mi esce dalla testa e cola verso il collo, mi stupisco di quanto sono stato fortunato a non svenire. Mi dico che non è il momento per perdersi in dubbi e domande, riprendo a calarmi fino alla base della parete e dopo essermi raccapezzato in qualche modo, continuo la discesa su uno dei firn più belli mai sciati. Devo ammettere che forse questo mio giudizio è influenzato dalla gioia di essere quasi del tutto integro seppure un po’ ammaccato.

Nelle giornate lunghe si cerca l’avventura e quando si cerca l’avventura spesso la si trova, infatti il cellulare non ha linea e so che non l’avrà fino a fondo valle. Fino a lì devo arrangiarmi da solo. Mi faccio forza pensando che in fondo sto vivendo esattamente quello che cercavo, seppure con qualche imprevisto. Da quel punto la soluzione migliore sarebbe rientrare a casera Kanin e da lì puntare a malga Coot per farsi venire a prendere da qualche generoso amico in automobile o sperare in un passaggio in autostop.

Non credo di essere nelle mie migliori condizioni, ma ricordo di un vecchio sentiero che porta a Rio Runk: inizio a cercarlo ma neanche questo sentiero vuole farsi trovare, mi ritrovo in piena parete con la certezza di dover fare almeno un altra doppia, per giunta da attrezzare. Cerco invano di piantare qualche chiodo ma nessuna fessura è così generosa da accoglierne.

La ovest del Canin in un anno di “magra” visto dal Picco di Carnizza – foto S.D’Eredità

Dopo una buona mezz’ora di tentativi individuo una vaga traccia, probabilmente battuta da qualche cacciatore. Decido quindi di abbandonare il piano della calata e di seguire questo percorso che un pò faticosamente mi porta al sentiero diretto a Coritis. Percorrendo questo sentiero mi volto per osservare la linea di discesa appena abbandonata e realizzo che è stata una fortuna non essere riuscito a piantare nemmeno un chiodo in quel punto: mi trovavo espostissimo sopra uno strapiombo e con una corda sicuramente troppo corta per raggiungere la base della parete. Una bella fortuna, dico tra me e me.

Continuo nel mio faticoso percorso e finalmente raggiungo un punto coperto da linea telefonica, approfitto subito per chiamare un’amica che accetta generosamente di venirmi a prendere.

Al nostro incontro vedo il terrore nei suoi occhi, la visione che le propongo deve essere più splatter di quel che pensavo, cerco di rincuorarla sulle mie condizioni ma le mie parole non sono sufficienti: Non riesco a convincerla di non portarmi in ospedale, ha tutte le ragioni del mondo per accompagnarmi al pronto soccorso. La mia giornata lunga, o forse ormai lunghissima  si conclude con qualche punto di sutura sulla testa e questa storia da raccontare. Il giorno dopo parlo della mia disavventura a Saverio, lui mi dice che “è la valanga della montagna che ti vuole bene”. Io ascolto in silenzio, dentro di me credo sia uno strano modo per dimostrare affetto.

Appendice

Il Lato Selvaggio – Canin, parete Ovest

Nel mondo dello sci ripido tutto è capovolto. Sia perché il senso del percorso è inverso rispetto all’alpinismo (dall’alto verso il basso), sia perché i tratti salienti vanno letti al contrario. Simile è la dinamica, opposta la direzione. Lo scalatore, come lo sciatore, individua i punti deboli di un percorso. Interpreta il terreno. Individua le vie d’uscita. Nella scalata si risolvono in un passaggio, una fessura che permette di proteggersi, una cengia che evita un tratto inscalabile. Nello sci ripido, invece, le cose si fanno un po’ più complicate. Ci sono le condizioni della neve, l’interazione con in raggi solari, la temperatura dell’aria, l’umidità. L’andamento dell’inverno, dei venti, dell’innevamento e di una miriade di componenti che fanno di questa disciplina un’arte.

Ci sono discese in cui l’uscita è un’enigma. Che tiene il fiato sospeso anche al più esperto, audace e preparato degli sciatori. La ovest del Canin è, in questo senso, emblematica. Non basta avere il coraggio di affacciarsi in questo imbuto aperto a ventaglio sulla val di Resia. Bisogna andare proprio alla strozzatura dell’imbuto, nel punto dove la gravità e l’inclinazione convogliano il peso della montagna. Dove sta la porta di uscita dalla parete.

La parete ovest del Canin

Selvaggia, misteriosa, tanto evidente quanto enigmatica, la “ovest” del Canin è forse una delle pareti più ignorate e al tempo stesso ambite a seconda degli occhi che si usano per guardarla. Anonimo pendio di sassi, rocce ed erba, fasciato dalle regolari sedimentazioni calcaree, si illumina solo nei tramonti delle giornate estive. Imbuto raccapricciante e seducente quando lo si guarda nelle corte giornate invernali, ricoperto di neve tanto da farlo apparire come un unico lenzuolo se visto da lontano. Ma quel lenzuolo è sospeso sopra un salto di almeno 20 metri che separa la parete dall’ampia conca sottostante. Una parete del genere non può che stuzzicare i sogni degli sciatori del ripido. Se la parete sud del Canin Basso è certamente più attraente per la sua eleganza e continuità, la “ovest”, girata in maniera quasi altezzosa conserva tutto la sua anima selvaggia. E quel salto in fondo non fa che aumentare la curiosità.

Curiosità che nel maggio del 1991 fu tolta da un fuoriclasse assoluto del ripido: Mauro Rumez. Il 22 maggio di quell’anno, infatti, Rumez sale in vetta al Canin per la via normale ed affronta per la prima volta l’imbuto. Quando la parete si stringe mancano 20, 30 metri alla “carnizza” sottostante dove terminano le difficoltà: Rumez attrezza una doppia e risolve il passaggio. Aveva trovato la “porta”, e anche se la corda si era resa necessaria (interrompendo quindi la linearità e continuità della discesa) rimaneva una impresa notevole, di grande valore esplorativo. L’impresa di Rumez viene ripetuta 5 anni più tardi da un’altra grande figura del ripido: Luciano De Crignis. Exploit notevole quello del maestro di sci carnico, che concatena (supportato però dall’elicottero) le due pareti, ovest e sud, nella stessa giornata: 1700 metri di sciata tra i 45 e i 55 gradi in poche ore!

Non passano tanti da queste parti, come si sa. La val di Resia non spicca certo tra le mete dei “top skiers” e la nostra parete rimane affare per pochi. Passa una generazione ed emergono nuovi sciatori del livello adeguato a questa sfida: il 3 aprile del 2014, al termine di un inverno memorabile, Andrea Fusari ed Enrico Mosetti si aggiudicano la seconda ripetizione, ma prima nello stile di Rumez, con salita in vetta per la normale. Ultimo in ordine di tempo (e per quanto si sappia!) il nostro Piero Surace “Pierin” che da solo si è lanciato giù dalla ovest nel 2021.

Difficilmente vedremo da queste parti frotte di specialisti affannarsi a cogliere le condizioni perfette, ammesso che esistano per una discesa del genere le cui caratteristiche sono quanto mai problematiche e legate alla quota, l’esposizione e le peculiarità di una montagna con pochi eguali come il Canin. Ma del resto non c’è da stupirsi ed in fondo va bene così. Per apprezzare una parete così riservata ed austera, che sembra quasi nascondersi, bisogna essere un po’come lei ed accettarne le regole. Solo così si potranno fare due passi “sul lato selvaggio” e cogliere il senso di un avventura che, talvolta, è difficile esprimere a parole.

Canin mt.2587 – parete Ovest

Dislivello: 700 metri

Difficoltà: 5.4, E4 (fino a 55°)

Prima discesa: Mauro Rumez, 22/05/1991

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Skipedia – appunti per un’enciclopedia minima dello sci di montagna

di Saverio D’Eredità

In fondo non sono che parole. Ma le parole sono la nostra bussola nel mondo, in questo caos che cerchiamo di decifrare. La nostra più semplice ed efficace attrezzatura per affrontare i difficili percorsi della vita.

Quali sono le parole dello sci? Ne conosciamo molte, più spesso legate alla qualità della neve, alla morfologia della montagna, alle qualità degli attrezzi. Ne usiamo tante, di parole, nello sci. Ma quali sono i concetti che caratterizzano e differenziano lo sci, lo sci di montagna in particolare, da tutto il resto? Perché i semplici numeri (dislivelli, inclinazioni, scale più o meno dettagliate) non spiegano tutto e l’esperienza dello sci (che vogliamo restituire alla sua origine, ovvero lo sci “di montagna” piuttosto che affibbiare l’etichetto di “sci-alpinismo”, incompleta e limitante come accade con tanti -ismi) sembra essere qualcosa di più. Più profondo, più vasto.

La letteratura non manca di certo. Più raro però che anche gli sciatori, i grandi sciatori fossero essi i precursori della disciplina dello “ski-tour” o i “ripidisti” oggi meglio noti come “estremi”, abbiano saputo dare forma a quelle sensazioni. Non è mai facile, quando si è immersi nell’azione. Può risultare meno vivido, quando mediato dal tempo e dall’esperienza. Ci rimangono, quindi, parole. A guidarci attraverso i diversi approcci e stili, sia che siamo freerider che amanti dello sci ripido. Sci-turisti o sci-escursionisti. Guerrieri del “ravanage” o amanti di più miti ondulazioni. Lo sci di montagna è una grande comunità in cui ognuno usa però gli stessi strumenti sullo stesso terreno. Ci deve essere quindi, da qualche parte, una piccola enciclopedia da consultare, dove ritrovare parole che raccogliamo lungo le nostre tracce sulla neve. Una specie di indagine in cui raccogliamo le prove.

Ho provato a prendere solo alcune, segnalando per alcuni di questi, il luogo del ritrovamento. Questa quindi non è una scelta di itinerari (ancora!) e nemmeno una monografia. Potreste farne ognuno di voi una vostra, nei vostri luoghi, sulle vostre tracce. Ma, se volete, potete usare questa breve lista dei luoghi.

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Annozero (sul Nevee Outdoor Festival e altre cose)

di Saverio D’Eredità

“Che vergogna, sarà mica accoglienza questa! Tovagliette di carta e nemmeno una carta dei vini!”

“Ci siamo persi, i segnavia erano sbiaditi e non mi prendeva il GPS!”

“Quella ferrata è pericolosa: c’è un tratto in cui il cavo è allentato e nessuno ha messo un cartello. Andrebbe chiusa!”

“Nel programma era previsto di arrivare in cima alle ore 12 e invece non l’abbiamo nemmeno vista!”

Avete già sentito commenti come questi? Non è raro intercettarli in qualche bar di fondovalle o fuori dai rifugi. Senza parlare delle pagine dei social. Forse alcuni vi sembrano esagerati, ma non siamo poi tanto lontani dalla realtà. E la realtà è che – ci piaccia o meno – tutto quello che gravita attorno alla montagna è né più né meno che un prodotto di mercato. Che sottostà a regole di marketing più che meteorologiche. Dove le condizioni naturali sono sostituite dall’offerta. Dove si fruisce e non si vive.

Potrebbe sembrare la solita lamentala di un nostalgico amante di un’arcadia ormai perduta (e forse mai esistita). Ma credo che tante volte il liquidare così ogni tipo di riflessione sia solo un modo per eludere il problema. Problema di cui siamo tutti parte: prima ancora che come “appassionati” (tralasciando le definizioni o meglio “nicchie” per usare ancora una volta un termine economico), sicuramente come cittadini per non dire consumatori. Perché quello siamo. Consumatori del prodotto montagna, con tutto il corollario che va dall’ultimo aggiornamento tecnologico che ci portiamo dietro all’abbigliamento, dall’attrezzatura tecnica ad un determinato “stile” che adottiamo (o compriamo?) per sentirci in quel contesto, in quel momento, inseriti, accettati per non dire apprezzati. E che altro non è che conformismo.

Credo sia questo il punto: non tanto demonizzare il risvolto economico del turismo (ricordandoci che la prima forma di turismo alpino fu proprio l’alpinismo dei benestanti inglesi nell ‘800), né per contro, inneggiare ad una non meglio definita libertà che si tramuta in sterile anarchia. Il punto è aver pian piano fatto sfumare il senso profondo della montagna (anzitutto per quello che è, ovvero spazio naturale) fino a farlo diventare del tutto secondario rispetto al “prodotto montagna”.

Ne avevamo già parlato su questa pagina quando, nella surreale primavera del 2020 si era posto il problema della agibilità dei rifugi (e persino della percorribilità dei sentieri!) in pandemia. Ma di quel dibattito ricordo soprattutto l’incredibile spostamento del discorso da un tema di “sicurezza sanitaria” ad uno di “qualità dei servizi”. Come se un rifugio fosse un resort che doveva “garantire” uno “standard”.

Se ci pensate non è tanto diverso dal dibattito odierno. All’indomani del cataclisma (perché quello è stato) della Marmolada, il dibattito mediatico ha deviato la sua traiettoria da una urgente riflessione sugli effetti del cambiamento climatico (ovvero la causa), per concentrarsi sulla regolamentazione delle attività che si svolgono in quota, quasi fosse quello il problema. E al di là della deprecabile morbosità quando si conta la perdita di vite umana, la conclusione è stata che bisogna in qualche maniera “porre dei limiti”. Insomma, se del caso, vietare. E così mentre ci lamentiamo che mancano i cartelli o il rifugio non propone un adeguato menu, un giorno ci alzeremo e scopriremo che in montagna potremo andarci solo sulla base di un’autorizzazione emessa da qualcuno al quale avremo delegato la nostra capacità di scelta. E magari ci starà anche bene, nel frattempo.

Ma cosa c’entra tutto questo con il Nevee Outdoor Festival? Dopo due anni di stop forzato e con il rischio di perdere quell’atmosfera festosa (e la voglia di ricrearla) che aveva caratterizzato un’occasione del genere, quest’anno il NOF riparte. Dalle origini. Da quella che era la grande festa pensata da Leo (e per Leo) come un raduno di ragazze, ragazzi, bambini e adulti accumunati da quelle passioni in cui la Natura è parte integrante.

Il NOF di quest’anno si libera di programmi, percorsi segnati, tabelle e appuntamenti. Un unico, grande raduno di due giorni il cui cuore pulsante è il Rifugio Gilberti. A parte le attività organizzate per i bambini (da sempre elemento distintivo di questo ritrovo), il resto si svolgerà a schema libero. Avete un crash pad? Portatelo su, cercatevi un masso, massacratevi i polpastrelli per risolvere un blocco! Vi piace camminare? C’è un pianeta Canin da scoprire, vi basta un passo per entrare nel Parco Prealpi Giulie. Amate le vie a più tiri? Credo che in Giulie e forse nelle Alpi orientali non esista roccia come quella del Bila Pec. Ci sono inghiottitoi per chi vuole esplorare gli abissi, linee di slack da tirare, manca solo la neve quest’anno, ma speriamo si sia solo presa una pausa.

Cosa c’entra quindi il NOF? Il NOF vive un nuovo annozero, in cui ripensare tutto di nuovo. Che nel suo piccolo lancia un messaggio: viviamo la montagna per quello che è. Viviamo la Natura indipendentemente da una tabella, un programma, un pacchetto. Non facciamoci imboccare, incasellare, guidare. Se rinunciamo a questa autonomia, il cui altro lato è la responsabilità delle nostre azioni, avremo rinunciato – e per davvero – alla libertà. E non quella vuota, svogliata, libertà “di fare quello che voglio”, ma la libertà del prendersi cura di noi stessi, degli altri, dell’ambiente. Una libertà piena e consapevole.

Dipende da noi, ora più che mai.

Note: il NOF 2022 si terrà il 23 e 24 luglio a Sella Nevea. Le attività organizzate e guidate saranno dedicate esclusivamente ai bambini (under15), quali arrampicata, speleologia e slack line e partiranno dalla mattina di sabato (ore 10) al tardo pomeriggio (ore 17), analogamente la domenica. Il resto a schema libero, nella meravigliosa cornice della conca Prevala.

Info sul NOF al sito e sulla pagina Facebook

http://www.neveeoutdoorfestival.com/ https://www.facebook.com/NeveeOutdoorFestival

Precario

di Saverio D’Eredità

Ho chiesto al Batti delle foto elettrizzanti della gita dell’altra volta. Anche se era stata una giornata un po’ così, senza arte né parte, ero certo che il Batti la sua foto “alla Batti” me l’avrebbe tirata fuori. La classica dello sciatore nell’istante della curva, un poco grandangolata per dare profondità e un po’ di “wow”, con il soggetto nella terza parte dell’inquadratura e quel bilanciamento del bianco tecnicamente ineccepibile, ma vagamente insipido. La classica foto alla Batti – che ahilui – non può mai contare su performer di riguardo, gente bene in piega, con lo spruzzo, colorata, arrogante, sbarazzina, che sa sciare, che sa fare, che sa tutto. No, lui c’ha gente come noi, il Biondo al più per aggiungere un tocco da south rock americano, altrimenti il Pasc o me. Me che son il peggiore anche perché non gli faccio mai la curva dove dice lui per la foto. E nemmeno dove dico io. La curva viene dove deve venire, io sta cosa ancora non la domino bene, quindi la foto viene, inoppugnabilmente, male.

Ma la foto elettrizzante, al Batti, l’avevo chiesta perché volevo parlare del Leupa. Anzi a dire il vero la gita l’avevo approvata “così” potevo parlare del Leupa. Sapete, sto un po’in fissa con sta cosa che se non parlo io delle montagne, specie quelle un po’ diciamo “di nicchia”, poi non ne parla nessuno. E quindi su Google non si trovano. E quindi praticamente è come se non esistessero. Solo che il Leupa / Lopa in sloveno, con quella quota facile da ricordare (2402, bel numero), non ha proprio niente di interessante. Non è brutta, forse al più anonima. Più che brutta è “non-figa” che tutte le montagne pare siano fighissime e invece no, alcune non sono niente. A parte essere montagne, ovviamente. Ma quelle del Canin, poi più che montagne-montagne sono tipo cippi lungo la strada. Tutte circa uguali, squadrate, tarchiatelle, striate, poco alte (non basse, solo poco alte). Il Leupa pure è così. A forma di rettangolo, con una cresta piatta come cima, e le regolari stratificazioni calcaree che a me, magari un po’prosaicamente, ricordano le pieghette dell’omino Michelin. Tutte le cime del Canin son un po’come l’omino Michelin, quel fisico non slanciato, pacioccoso diciamo ma pur sempre ingombrante che se si sposta fa un casino.

Il Batti di foto me ne tira fuori due, pure un po’deluso che non c’era molta ispirazione (a nord, con il cielo terso, la poca neve, le solite cime, uffa). In una ci sono io, un puntino rosso in mezzo all’altipiano che punto dritto verso la nord del Leupa. Probabilmente in quell’istante, stavo pensando a cosa dire del Leupa, quindi potremmo dire che è una foto matrioska, oppure aristotelica a seconda del vostro gusto, ma in quel momento a me venivano in mente più che Leupa Aristotele e Matrioske, gli influencers. Che, poracci, devono sempre dire qualcosa della loro giornata – tipo me, adesso, solo che non ci vado a fare la spesa con ste cose che vi racconto – e deve essere una vitaccia, eh, sempre qualcosa da dire di una giornata.

Altopiano del Poviz – verso il Leupa – foto M.Battistutta

Vabè visto che non son influencer scrivo solo se mi pare oppure ho una mezzora libera, o voglio che il tag “Leupa” compaia più spesso su Google. Solo che il Leupa non ha niente di interessante. La parete, abbiamo detto. Banconate calcaree sia compatte che fragili, che a mio modesto quanto insindacabile modo di vedere, sono praticamente inscalabili. Si si, litighiamo pure però prima andate sul Leupa e io vi guardo da sotto. Chiamiamo anche i maghi del misto o del dry, una Angelika Rainer se si degna di venire qua e vediamo. Se agganci una picca una. Se ti proteggi a meno di 25 metri. Se quello che metti come protezione tiene più della vostra giacca. Vediamo. Tutti bravi. E poi: tiè c’è il Leupa. Che Buscaini, secondo me, è andato in fiducia quando gli hanno detto che c’erano 2 vie. Secondo me manco è andato a vedere che diciamolo, su, chi vuoi che vada a scalare 150 metri di quella roba lì. Io il canale friabile e la cengetta a sinistra e lo spigolo etc mica li ho visti. Ma lo capisco, il Busca, anche lui ogni tanto ha spuntato la lista perché andava di fretta magari. Peccato perché io dal Busca tiro sempre fuori robe interessanti, anche con 3 nomi una data e un “1 chiodo lasciato” che ci ricamo su le favole. Invece il Leupa niente. Ha due creste, sappiatelo. Una Est, una Ovest (facile). Non ha un versante sud (si ovvio che ce l’ha, ma voi fate come se non). Due normali. Una Est, una Ovest (facile). Quella ovest, “Celo”! Un inverno di anni fa, con Stief e Cricca, di quei tempi che la cima era il must. Che ti presenti “sciallo” e dopo neanche 5 minuti sei lì che ti muovi tipo gli acrobati di Oceans’eleven. Cengette spioventi, ghiaccietto, canalino-ok, uscita-non ok, cresta – sospiro – giù subito e piano e aspetta che vedo di piantare un chiodo valà – ah guarda c’è! (1 chiodo lasciato, avevi ragione Busca) – e via di doppia sul chiodo che ti pare un pilone. La est mi mancava, sarebbe pure la normale, ed è l’unica traccia digitale in Google (grazie Raffaello!). Cresta a tratti esposta, passaggio di II che d’inverno sarà una esaltante goulotte di ben 3 metri, cresta saliscendi. Facile. E qui veniamo alla seconda foto. Nella seconda foto ci sono sempre io, che traverso con fare delicatissimo e l’occhio sgranato sta cengetta che in realtà è pure larga eh, e avrà un saltino che so di 1 metro? e poi sotto c’è neve. Ma io paio sospeso sull’abisso. In quella foto c’è tutta la mia, la nostra, la sua (del Leupa), precarietà. Sarà il movimento che il Batti ha preso, sarà il casco, lo sfondo non lo so, ma lì c’è tutta la precarietà di questo nostro andare, di questo nostro essere. Se solo ci fosse più neve. Se solo sapessi se posso calarmi. Se solo capissi perché ci tenevo tanto a parlare del Leupa. Questo monte che tutti fingono di conoscere (“guarda! quello è il Leupa” dicono indicando un punto tra la Cima Confine e il Sart, che magari l’hanno letto su Peak Finder un attimo fa) e nessuno ci è stato mai. Questo monte che nessuno si fila, ma poi, se non c’è o se un giorno non lo vedi, ti dispiace. Come l’amico – che chiameremo non so, Fred – che c’è sempre a tutte le serate, ma non dice molto, non è antipatico, nemmeno simpatico, ma si ricorda del tuo compleanno e magari ti porta a casa quando sei sbronzo. Fred c’è. Il Leupa c’è. Ma se una volta non lo trovi ci stai male.

Però senti questa precarietà, questo senso di qualcosa che non sai mai quanto dura. Me lo si legge in faccia, nella piega del ginocchio, nelle mani che scorrono la roccia ed è precaria anche lei. E quindi non hai certezze più.

Sulla cima non ci siamo andati, poi. Era appunto un po’troppo precaria, quella poca neve, quel poco ghiaccio, quel poco tutto, anche la voglia magari. Siamo andati per poterci ricordare questa montagna e ne siamo tornati con meno certezze di prima. La montagna, a me, altro che fiducia in sé stessi e quelle cose che ci raccontano, mi da sempre meno certezze. Queste poi, mai. Ma forse è proprio questa assenza a rendere tutto molto interessante. E penso di nuovo agli influencers, che sono sempre certi di tutto, hanno sempre qualcosa da dire, mentre io oggi mi tengo stretta questa foto, questa precarietà che dovremmo sempre avere a cuore, come le montagne che nessuna sa dove sono, eppure ci sono sempre. A fare da sfondo. A portarci a casa.

Nei pressi di Forca Sopra Poviz, verso la cresta del Leupa – foto M.Battistutta

The Julian connection – scalate in letargo

di Emiliano Zorzi

A quanto pare l’inverno bussa alle porte e quindi la scalata su roccia si avvia al letargo, specialmente quella rivolta a nord. Dato il luogo in cui sono nate, profondamente giulio, e la connessione di eventi che hanno portato alla loro gestazione e svezzamento, No Pellarini – no patry e Pari o dispari, ormai attenderanno il disgelo 2022 per poter conoscere il mondo.

L’estate 2020 ne ha visto la nascita, l’estate 2021 le prime scalate da parte dei genitori e qualche sporadica visita di amici, parenti e aficionados; per quella del 2022 potranno camminare con le loro gambe…o meglio, far muovere le gambe dei futuri ripetitori che apprezzino le loro fattezze, ovvero:

  • camminata di due orette circa in ambienti solitari e idilliaco-severi allo stesso tempo;
  • scalata su quel caratteristico calcare duro e arcigno delle pareti ombrose giuliane;
  • presenza di bel tempo (possibilmente caldo) stabile data la lunghezza delle vie e delle discese.

Insomma un assaggio in chiave sportiva delle nord nostrane.

Nello specifico qualche notizia:

Quinta Rondine mt.1848 – No Pellarini, no party

380 m, 7a (obbl. 6b), 15 lunghezze

Relazione qui: http://quartogrado.com/friuli/Fuart/Quinta%20Rondine_No%20Pellarini%20no%20party.htm

Si sviluppa sulla parete a forma di pala, rivolta a nord-ovest, della Quinta Rondine. Queste rocce, ben visibili da tutta la Saisera, sovrastano il morbido ambiente boscoso e prativo della Sella Prasnig. Pur in questo quadro ameno, la scalata è a tratti arcigna, anche se sempre protetta sistematicamente a fix. Nei 15 tiri entra un po’ di tutto: lunghezze verticali-strapiombanti fisiche su roccia ottima, tratti di media difficoltà su simil-placca, qualche tratto molto facile su terreno sporco e/o friabile come tipico condimento del posto.

La via è stata conclusa in extremis pre-inverno nel novembre 2020, prima scalata a fine giugno 2021 (G. Barnabà, E. Zorzi, U Iavazzo), a cui sono seguite un paio di altre scalate di cui abbiamo notizia. Dopo la conclusione della via è stata individuata, sull’altro versante, una discesa “normale” (terreno selvaggio ma max. I e II) attrezzata con qualche sosta di calata e taglio di mughi, in modo da evitare una lunghissima serie di doppie lungo la via di salita.

Per circa 10 metri, la via incrocia Caccia al tesoro di Roberto Mazzilis e Lisa Maraldo. Un ringraziamento a Roberto che ci ha permesso di mettere due fix sulla sua via, per non creare un “buco” troppo lungo fra le protezioni di No Pellarini, no party.

Il nome deriva dalla festa di compleanno a sorpresa organizzata da benemeriti amici durante il soggiorno al rifugio.

Quinta Rondine – Nono tiro di “No Pellarini no party” – foto Archivio E.Zorzi

Cresta Berdo , Pilastro Gloria (top.proposto) mt 2076 Pari o dispari

350 m, 6c (obbl. 6b), 12 lunghezze

Relazione http://quartogrado.com/friuli/Montasio/Cresta%20Berdo_Pilastro%20Gloria_Pari%20o%20dispari.htm

Si svolge a cavallo del netto spigolo dello sperone che scende dalla Cresta Berdo verso il grandioso circo sottostante la parete nord del Montasio-Cima Verde. L’idea è nata a seguito della ripetizione di una via vicina (O là o rompi), alla vista dello spettacolare spigolo tagliamare, simile alla scura pinna di squalo. Per una mera casualità, le lunghezze dispari sono quelle caratterizzate da una scalata tecnicamente più impegnativa e “sportiva” su roccia ottima; quelle pari sono invece più adatte allo scalatore “classico”. Date le difficoltà inferiori su roccia sempre buona e ripulita ma che necessita di un po’ più di occhio.

La via è stata conclusa nell’agosto 2020; la prima salita (R. Geromet, E. Zorzi, M. Buzzinelli) è dell’agosto 2021 a cui sono seguite alcune altre ripetizioni note. Curiosamente (considerando che il luogo è molto isolato, lontano da sentieri battuti), qualcuno aveva già tentato la scalata della via prima della sua pubblicazione. Abbiamo rinvenuto una maglia rapida di calata verso la fine del quinto tiro. Lì il destino beffardo (per gli aspiranti ripetitori) ha voluto che la sosta si trovi nascosta alla vista a destra oltre uno spigoletto, mentre dritti sulla parete ci sono due tasselli senza piastrina (di un nostro tentativo abortito) che devono avere ingannato gli ignoti-ignari scalatori. Ora, post-letargo inverno 2021 e svezzamento, gli aspiranti potranno avere più fortuna.

Sul nono tiro di “Pari o Dispari” alla Cresta Berdo – foto Archivio E.Zorzi

Like a Virgin – Notizie e ringraziamenti dal Vallone di Riofreddo

di Emiliano Zorzi

Come d’uso per il blog, Sav mi ha chiesto un breve testo-storia per accompagnare la notizia dell’apertura di “Like a virgin”, sulla solare faccia sud-est della Media Vergine. Data la pigrizia e il fatto che mettersi a raccontare si va a finire a dire sempre le stesse cose, butto giù semplicemente una serie di ringraziamenti e incoerenti notizie sulla via e dintorni.

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Una speciale Trilogia nel segno di Comici

di Saverio D’Eredità

Stilare classifiche e liste è sempre un giochetto divertente seppur fine a sé stesso. Nel mondo alpinistico le raccolte più o meno note di “le 100 più belle…” (scalate, sciate, cime, traversate…l’elenco può essere lunghissimo) sono una costante e bisogna ammettere che ognuno di noi ha le sue liste segrete. Che poi, si sa, lasciano il tempo che trovano, ma dato che viviamo una passione che per metà è sogno e metà azione, quella parte di sogno va pure coltivata! Il bello delle liste è che se ne possono creare di tutti i tipi. Il brutto (ma anche il bello, su) è che non metteranno mai tutti d’accordo, e mi sembra normale. Ma c’è un tipo del tutto particolare di liste, quelle che potremmo definire “filologiche”, che sono certamente da intenditori, ma almeno abbastanza oggettive. Sono le liste che si costruiscono sulla storia, sui legami sottili tesi attraverso le epoche, i personaggi, gli stili. Richiedono conoscenze, una certa dose di gusto e anche capacità di osservazione. Se dovessi iniziare a parlare di una “Lista” di linee sciistiche di alto livello citando Emilio Comici forse qualcuno inizierebbe a non seguirmi. Non è infatti noto a tutti che proprio Comici, lo scalatore simbolo dell’epoca del sesto grado, fosse anche un altrettanto appassionato esploratore di salite su neve e ghiaccio. Le Alpi Orientali, si sa, non sono il terreno ideale per questo genere di salite, eppure una caratteristica propria delle Dolomiti e delle Giulie sono proprio i grandi canaloni nevosi. Cupi e incassati tra le pareti, spesso interrotti da salti “misteriosi” in quanto imprevedibili e soggetti all’andamento delle stagioni, i canali dell’est hanno caratteristiche peculiari rispetto a quelli dell’ovest. Soprattutto, sono linee “naturali” e per questo non possono che attrarre l’insaziabile occhio dei cacciatori di linee. Tanto di salita quanto di discesa.

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La curva del Gasex

di Saverio D’Eredità

Si dice che l’avventura inizi sempre “un po’più in là”, oltre quella che un termine piuttosto abusato e dal sapore di marketing chiama la “zona di comfort.” Sinceramente non ho mai capito cosa sia questa zona di comfort né ho speso del tempo a definirla. Se dovessi proprio rifletterci, dovrei dire che ci sono situazioni piuttosto comuni (tipo passeggiare in un centro commerciale o cercare l’auto nei parcheggi sotterranei) in cui sento di trovarmi ben al di là della mia “zona di comfort”. Però è un po’triste come cosa, per farne un’avventura.

Il tubo del Gasex spunta dalla neve come il boccaglio di un sub dall’acqua e passandoci vicino mi chiedo se sono ancora nei margini della mia zona di comfort, su questo pendio circondato da impalcature, seggiovie e con l’“unz-unz” di sottofondo che sale dagli altoparlanti degli impianti. A giudicare dal numero di volte che mi fermo per valutare la pendenza dovrei ammettere che non è esattamente così. Strano monte, eh, il Forato. Come tante cime del Canin non brilla per eleganza o bellezza, con quella sua forma a parallelepipedo e le forme ingombranti. Pare un lavoro lasciato a metà o un rudere dimenticato. Come tante cime del Canin, però, offre angolazioni stupefacenti dalle quali appare affilato e persino leggero. Una bellezza sempre un po’controversa, quella del Canin, dove è la somma delle parti, più che il singolo scorcio, a fare impressione. Soprattutto quando l’inverno qui si fa paziente artigiano, operando stucchi e decorazioni, rendendo le anonime stratificazioni e i profili spigolosi incredibilmente vari, affascinanti e misteriosi.

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In tutto questo, però, il povero Forato se la passa sempre un po’ male, quasi si fossero messi d’impegno ad imbruttirlo. Grovigli di cavi, piloni, sbancamenti circondano e avviluppano ogni versante. Dimenticavo, in cima c’è anche uno strano bussolotto che sembra una stazione lunare e qua e là se ci fai caso spuntano vecchi ferri ritorti della guerra e fili spinati. Non si direbbe proprio una montagna dove vivere grandi avventure. Eppure, non c’è una volta delle tante in cui ci sono salito che non mi sia trovato, anche solo per una breve parentesi, a passare quella soglia che divide l’abitudinario dall’ignoto. Come ad esempio sulla curva del Gasex. Bisogna ammettere che se non ci fosse questo brutto tubo di metallo, la pala est del Forato passerebbe quasi inosservata. Non così lunga da fare veramente impressione e non così ripida da solleticare sciatori di livello. Eppure quel tubo, piantato lì in mezzo, pare star lì apposta per disegnarci una curva attorno. A segnare il confine dell’avventura a pochi passi dal mondo conosciuto.

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Da bambino mi spaventava il blu profondo del mare. Dalla spiaggia di ciottoli potevo vedere le varie gradazioni di azzurro scurirsi via via da quello più chiaro e trasparente della riva, fino al nero del mare alto. Ad una distanza che non riuscivo mai a stimare, emergeva dalle acque una strana struttura, una specie ragno di cemento e acciaio a quattro zampe corroso dalla salsedine e dal vento. Mi sembrava che il mare lì fosse più cattivo e nero. Persino più lontano. Ma forse era proprio quello strano scheletro tappezzato di alghe e mitili, a farmi paura. A dare una dimensione alla profondità del mare. Ogni volta che arrivavo lì, deciso a nuotare nel mare nero, succedeva qualcosa che mi ricacciava indietro. Un giorno, infine, decisi di passarci attraverso. Potevo aggirarlo o nuotare in un’altra direzione, è vero, ma il mare alto, il mare nero, iniziava lì. Per farmi forza presi a battere forte i piedi ed infine mi immersi a pelo d’acqua, cercando di contrastare la corrente. Appena sotto la superfice l’acqua era calma e ferma. Piccoli pesci brucavano le alghe appese al palo di cemento e tutto era silenzio. Riemersi appena oltre, nel mare alto e nero, oltre il confine della paura e di un tempo che mi parve infinito. La riva chiassosa di mamme e bambini non era che a poche bracciate da lì.

Inforco gli sci sulla lunga dorsale della cima e mi avvicino al bordo. Attraverso le punte, posso vedere il profilo del gasex e intuire l’inclinazione del pendio, come quel ragno di cemento mi dava la profondità del mare. Come quella volta, devo passarci attraverso. Se dovessi pensare alle altre volte che sono sceso di qua, alla neve cotta a puntino e al fatto che – in fin dei conti – non sono che poche curve dovrei sentirmi all’interno della mia zona di comfort. Anche meglio di un parcheggio sotterraneo. Eppure la curva del gasex riesce a smontare una ad una le mie certezze, i precedenti e il senso di controllo. Non sto più contando le volte in cui questa scena si è già ripetuta, né ricordando come avevo fatto la prima curva l’ultima volta, che traiettoria avevo preso o se posso distinguere le voci degli sciatori, l’unz-unz degli altoparlanti e l’odore di fritto. L’avventura è come un varco aperto d’improvviso in un mondo parallelo. Puoi decidere di entrarci o meno, e con quali regole. Soprattutto, l’avventura inizia nel momento in cui le nostre certezze vengono meno e affiorano le domande più elementari. Quando iniziamo a dare un valore alle cose. Quando tutto è di nuovo in discussione. E ci riappropriamo di una parte di noi.

Salendo al Forato: alla nostra destra, il tubo del Gasex – foto Melania Lunazzi

L’età incerta

di Saverio D’Eredità

C’è stato un tempo, molto tempo fa, prima che tutto iniziasse – o non era forse già iniziato? tempo di cartine Tabacco stropicciate tra libri di scuola, tempo di numeri di Alp che duravano mesi sul comodino, letti e riletti e mandati a memoria, pubblicità incluse – c’è stato un tempo, dicevo, in cui mi ero posto un grande obiettivo: salire in inverno tutte le maggiori cime delle Giulie occidentali. Un obiettivo tanto grandioso quanto stupido: che valore poteva mai avere un progetto alla portata di ogni alpinista medio? Nessuno, probabilmente, come nessuna era la possibilità che avevo di realizzarlo, allora. Ma tutto questo non potevo ancora saperlo. Eppure quello strano sogno diventò a poco a poco il pane della mia solitudine. É una solitudine tutta particolare, quella che provi a 14 anni. Simile a quella di chi emigra o di chi porta con sé un grande dolore. La solitudine di chi realizza di non aver più un passato mentre vive un presente di argilla. Paradossalmente il futuro diventa la cosa più concreta cui tu possa aggrapparti.

Se è vero che nel dipingere bisognerebbe prima posizionare il soggetto e poi definire lo sfondo, io procedevo all’inverso. Nella mia immaginazione non facevo che disegnare sfondi. E lo sfondo, il mio sfondo, era la corona di montagne spiate di nascosto dal colle del Castello sul quale passavo i pomeriggi e mille sconosciuti tramonti. In quella solitudine, di quel tempo in cui tutto era ancora possibile, tracciavo i miei confini.

In discesa dal Jof Fuart, un pomeriggio di fine inverno: sullo sfondo le Cime Castrein – foto G.Simeoni

L’alpinismo invernale ha senza dubbio un grande fascino e credo che abbia a che fare proprio con l’idea di un confine. Di un qualcosa che è posto ai margini e per questo motivo ci attrae. Come la notte o l’amore, la sua inconoscibilità è ciò che ci interessa. Perché come esseri umani siamo naturalmente portati ad andare verso un confine. E la montagna d’inverno è un confine. É remota. Aliena. Scorre in un altro tempo. I suoni, gli odori, le luci. Tutto è straniero. Inconoscibile. Forse era proprio per quello che la ricercavo. L’inverno era quanto di più lontano fosse dalla mia conoscenza. Un buon motivo, quindi, per mettersi su quella strada

Sono arrivato sulla cima del Jof Fuart – casualmente da solo – in uno degli ultimi giorni d’inverno. Solo quando ho visto la grande scritta in vernice rossa sull’ultimo masso prima della cima ho realizzato che stavo per portare a termine quello stupido progetto di tanti anni prima. Me ne ero quasi dimenticato, eppure quell’idea aveva vissuto con me molto più di tante altre persone, cose, passioni in questi anni. In qualche maniera mi aveva definito.

In discesa dalla normale del Jof Fuart – foto G.Simeoni

La cima era silenziosa e l’aria calma. Grandi nubi si arroccavano sulle creste del Montasio. Un po’più in là, il Canin fluttuava come un pack ghiacciato sopra la valle. Ho percorso la cresta piatta fin quando, all’estremo opposto, non ho potuto scorgere la Spragna. La cima è sempre là dove puoi guardare oltre. Non faccio mai niente di particolare, quando arrivo in cima ad una montagna. Mi limito a sistemare lo zaino, bere un sorso d’acqua e guardarmi attorno. Poi penso solo a scendere. E’ curioso che il luogo verso il quale concentriamo tutte le nostre energie finisca per diventare solo un passaggio transitorio e quasi senza sentimento. Ho provato a scattare una foto, ma il laconico “be-bop” del telefono ne ha preannunciato lo spegnimento. Finita la batteria, senza più altro da fare, rimasi lì fermo sul bordo della cornice con nient’altro che me. A ben vedere, però, non ero solo. Al margine di quella cresta, infatti, mi aveva aspettato quel ragazzo che fui, quello che saliva sul Castello a spiare le montagne e disegnava sfondi. Mi ha aspettato pazientemente in tutti questi anni, quel ragazzo, solo su questa cima come me adesso. Mi ha visto invecchiare, prendere altre strade. Credo di averlo deluso. Forse non ho avuto il coraggio di diventare ciò che lui avrebbe desiderato e me ne vergognavo un po’. Eppure oggi ero qui, le nostre solitudini ritrovate e un debito saldato.

Una frotta di nubi risaliva a conquistare la cima, preceduta da un vortice di fiocchi di neve. Guardai nuovamente attorno, poi iniziai a scendere seguendo a ritroso la processione dei miei passi. Mi voltai un’ultima volta prima di veder scomparire quelle quattro pietre, le mie impronte sulla neve e quel ragazzo di 14 anni che stavo salutando per l’ultima volta. Si sarebbe allontanato da me, piano piano svanendo tra le nebbie che ora avvolgevano la cima. Avevo raggiunto il suo confine e procedevo oltre.

C’è stato un tempo, molto tempo fa, in cui in qualche modo tutti noi siamo stati senza passato e abbiamo cercato di definire noi stessi. Il più delle volte non ne abbiamo che una vaga idea. Un’immagine sfocata. Una tavolozza di colori mescolati e qualche linea appena abbozzata. Presi dalla fretta di vivere, abbiamo presto dimenticato quel tempo, in cui senza rendercene conto abbiamo spostato lo sguardo un po’più in là, tracciando i nostri confini. In quell’età incerta, l’unica cosa che avevamo era il futuro.

Scienza degli attimi

di Saverio D’Eredità

Volume 1 – il miracolo del Buinz

Che lo scialpinismo sia una questione di attimi, è una cosa che ci siamo detti varie volte. Essere bravi a coglierli, però, è tutta un’altra storia. Più passa il tempo, infatti, più mi convinco che il miglior scialpinista non sia tanto quello che scia meglio, o scia più forte, o sul più ripido (tutte cose che vanno bene, intendiamoci), ma quello che conosce più profondamente questa scienza inesatta degli attimi. Sapere ad esempio il momento in cui la neve fa tac! e trasforma il pendio da una lastra di marmo ad un morbido tappeto di panna su cui scivolare. Capirlo dall’angolazione dei raggi solari, dalla conformazione di un versante, dal vento, dall’umidità, dalla temperatura e dalla struttura dei cristalli di neve. E tutto questo poi condensarlo in un frazione di tempo minima, l’attimo, appunto.

Salendo a Sella Buinz -foto L.Barbui

Per quanto si provi a trovare la formula esatta che sta dietro quell’attimo, a me pare che sai più facile ragionare come in cucina. Avete presente il “QB” delle ricette? Ho visto gente molto razionale andare in totale confusione con la storia del “Quanto Basta” di una quantità di zucchero o di cannella. Voi come lo calcolate? C’è un algoritmo? Uno studio di funzione? No, è “QB”, punto. Il resto si vedrà. Ecco, a pensarci bene quel famoso attimo in cui Ia neve fal “tac!” ad una certa ora su un certo pendio è simile al QB delle ricette di cucina. 

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