Il fuoco e la neve

di Saverio D’Eredità

Avevo salito il canalone nord del Siera esattamente dieci anni fa, al termine del mese di febbraio più memorabile che si ricordi e poco dopo aver saputo che aspettavamo Francesca. Questo canale, lineare e ben visibile in tutta la sua traiettoria quando si scollina a Cima Sappada, è senza dubbio tra quelli esteticamente più belli in Carniche, immancabile nel carnet dello scialpinista. Non troppo difficile, nemmeno banale, imbattibile dal punto di vista ambientale ed estetico: aperto perfettamente tra il corpo principale del Siera e del suo fratello “Piccolo”, mostra una forma regolare che dal conoide finale man mano si stringe fino all’acuta e spesso invalicabile forcella. Aggiungeteci il fatto che, quando si sbuca dal canale, si plana letteralmente sulle piste di Sappada e gli ingredienti di una sciata ideale ci sono tutti.

L’avevo percorso 10 anni fa, dicevo, ed in un certo senso è stato come tornare a chiudere la linea di un cerchio. Venti anni prima, infatti, mettevo per la prima volta gli sci sui campetti di Cima Sappada e poi sulle piste del Siera e quel canale ce l’avevo sempre davanti agli occhi: nei momenti in seggiovia – spesso da solo – che erano rilassanti solo in parte perché le partenze e gli arrivi mettevano a dura prova la mia goffaggine. Era davanti agli occhi – spesso distratti – mentre aspettavo di eseguire gli esercizi impartiti dal Maestro – il “baffone” con gli occhiali a specchio sempre con la battuta tagliente e vagamente razzista sulla bocca (ah, cosa si direbbe oggi!). Era sempre lì. E io ero sempre a terra. A maledire tutto, ma non lo sci. Sentivo, nello sci, qualcosa di implacabile ma onesto. Che non potevo che rispettare, pur subendolo.

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Dopo la discesa del canale scrissi qualcosa che voleva essere un po’ l’epilogo di una storia di riscatto, in un certo senso Tre Storie – di neve, di sci e di quella strana, insolita, grazia Uno schema classico: il brutto anatroccolo insegna. Fatto il canale, tradotte in parole le sensazioni, come immaginavo non ci sono più tornato. Coincidenze, scelte, piccole ritualità. Quando chiudiamo i conti con qualcosa, mettiamo tutto in una scatola che ficchiamo da qualche parte senza sapere dove ritrovarla. Sappiamo che c’è ma non si sa dove. Chiudiamo i conti, talvolta, semplicemente per non pensarci più.

Risalgo la pista, indurita dal rigelo notturno, mentre man mano il cielo schiarisce e lascia intuire meglio la spolverata notturna. Il Siera ha dalla sua una certa eleganza, non bilanciata però da altre peculiarità che ne farebbero una montagna di prestigio. Le pareti rotte da canali, colatoi, inframmezzati da cenge e pulpiti la rendono disomogenea e poco attraente. Ma quando si spolvera anche solo leggermente diventa d’improvviso seriosa e al tempo stesso conturbante. Transito vicino al Rifugio Siera e costeggio lo skilift, forse in cerca di quei ricordi di ormai trent’anni fa. Certo che la pista è davvero poco pendente, rifletto, poco più di un campetto. Eppure quella volta mi pareva ripidissima. Dove è finito tutto questo? Quella volta che caddi poco prima della fine dello skilift sotto gli occhi divertiti e sarcastici dei compagni, la solita invettiva del Maestro contro la mia incapacità, il piumino verde, gli occhiali appannati, tutto quel mondo ostile, dove si trovano tutte queste immagini adesso? Sono in quella scatola chiusa e messa da qualche parte?

Svolto e punto verso il conoide, sorpreso o forse deluso che di tutte queste sensazioni non rimanga più nulla. Si devono chiudere i conti per arrivare a questo? A questa specie di stasi, di annullamento delle emozioni? Probabilmente è questo quello cui tendiamo. Stare sereni. Stare in pace con il mondo. Deporre le armi e lasciarsi trascinare dalla corrente. È tutto così normale, ora. No alarm/No surprises.

Dove è finito l’occhiale a specchio del Maestro, dove sono le risate di scherno, quel sentirsi soli, esclusi, inadeguati? “E cosa ci fa uno di Palermo sulla neve?”. Quanto hanno pesato queste cose nello sviluppo di una mia identità, quanto nelle mie scelte, quanto nei miei errori? Immagino tutti questi frammenti inabissarsi in un fondale indistinto e opaco, perdere forma e sostanza, non essere che immagini e poi nemmeno quelle. Come i ricordi di Riley in Inside-Out e il suo elefante rosa. Dove saranno ora?

Arriva un punto, risalendo un canalone di neve, in cui tutti sanno che bisogna fermarsi, staccare gli sci e caricarseli in spalla. Comincia il battere traccia. È uno dei momenti che preferisco, anche se non dovrei dirlo che se no la prossima volta mandano avanti me – anche se ci andrei lo stesso. C’è un che di meditativo e al tempo stesso devoto, nell’atto di aprirsi la traccia nella neve. Nel percepire la diversa consistenza della neve, nello scegliere la traiettoria, nel suono cavo del cuore che batte. Il tempo si contrae e dilata a seconda dell’incidere dei passi. Si penetra una dimensione mentale fluttuante per il tramite di una fatica fisica orrenda. Qualcosa che avvicina alle pratiche del misticismo orientale. Io ho invece solo la sensazione di meritarmi davvero qualcosa di questo mondo. Aprendo traccia nella neve. Ansimando in un canale buio alle prime ore del mattino. Devozione e riconoscenza.

Dentro il canalone del Siera – foto S.D’Eredità

Dopo un tratto incassato, in cui i piccoli scaricamenti ci passano sulla testa senza toccarci, il canale si apre leggermente, là dove si intravvede la fine. La differente consistenza del mio passo ci arresta. Ci guardiamo un secondo e senza che si debba dire altro ci fermiamo, scaviamo un piccolo ripiano, poggiamo gli zaini e ci prepariamo a scendere. È bastato un minimo dubbio, il passo diverso, lo sfarinamento della neve che cambia suono, per farci invertire la rotta. Da cosa viene tutto questo? Da quale coscienza collettiva, da quale substrato di esperienze? Lo abbiamo attinto da quel fondale dove si sono sedimentati i ricordi, le paure, le emozioni? La rinuncia non pesa. È un atto dovuto. Riconciliazione. Sarebbe stato così anche dieci anni fa?

Le procedure prendono più tempo del solito, non sono tra i più abili nei cambi assetto e vedo i compagni già pronti. Sarà una bella sciata, questo 30 centimetri di polvere ce li siamo guadagnati. E’ sempre stato così o lo siamo diventati? Qualche volta penso che accumuliamo esperienze per farne sempre meno. Praticamente miglioriamo non per andare avanti, ma per tornare indietro. La cosa strana è che non è stata la paura. Nessuno di noi ha avuto veramente paura. Era solo ciò che andava fatto. Conservazione della specie. Forse è questo che in definitiva orienta i nostri gesti, i nostri pensieri. Andare avanti, per tornare indietro. Riportare indietro qualcosa. Il fuoco.

Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

(La Strada – di Cormac McCarthy)

Risalita a Forcella Rinsen – foto C.Betetto

Alcuni giorni fa ho sciato una mattinata in pista con Francesca e Graziella. Era la prima volta che sciavo insieme a mia figlia per davvero e non sui tappetini dei campi scuola. È stata in una di quelle mattine serene di sole e di pace, che possono accadere anche in uno normale comprensorio sciistico e senza per forza cercare l’intensità della fatica o il piacere del tracciare pendii. Si prende la seggiovia, si guarda attorno, si scia lenti ad aspettarsi. Qualche consiglio normalmente inutile o inascoltato, le brevi soste per decidere quale bivio prendere. Il panino a fine giornata. Quelle giornate in cui ti rimetti in linea, in cui non cerchi niente più che un paio d’ore di sole e di leggerezza e mi rendo conto che difficilmente ci accontentiamo di questo. Ma sappiamo anche che non esisterebbe l’una senza l’altra.

Abbiamo fatto tutte le piste blu anche più volte – del resto, lo Zoncolan non è che offra chilometri di piste ma almeno sono facili e la mattina c’è il sole – qualche stradina, un paio di saltini. Verso la fine delle ore di skipass, dondolando in seggiovia verso il “cubo” in cima ho notato come la “2” fosse pressoché deserta. “Potremmo fare questa, Franci, cosa dici” le ho chiesto già sapendo che avrebbe detto di no. Non insistere. Non imporre. Non proiettare la tua immagine sui tuoi figli. Non fare realizzare a loro i tuoi desideri. Esegui. Conduci. Non voltarti indietro. Ho sempre cercato di ripetermi questi comandamenti, che non credo si trovino in nessun decalogo per padri o in corsi di genitorialità. Io devo andare avanti. Devo solo aprire la strada. Saranno loro a percorrerla, se vorranno.

“E’ una rossa?”

“Sì, ma è larga, non è difficile. È come una blu solo più lunga”

Francesca guarda sotto, mentre da un pilone all’altro fuggiamo verso il cielo.

“Va bene, facciamo questa”

Quindi inizia tutto di nuovo così? Nuovamente una seggiovia, una linea, una traccia lasciata nella neve?Silenzio. Alzo la sbarra, una spinta, scendiamo.

Dopo alcune curve facili, arriva il primo muretto. Mi volto a guardarla mentre punta i bastoncini, si abbassa, imposta la curva sulla base del suo piccolo bagaglio di esperienze. Acquisisce una postura. Interagisce con il mondo. Capisco che non posso fare nulla. Non devo fare più nulla.

Posso solo andare avanti. La neve di mezzogiorno è pesante, piccoli mucchietti costellano la pista come i buchi delle talpe. La sciata diventa faticosa.

“Segui la mia traccia, Franci: scia dove passo io così porto via un po’di neve ed è più facile”.

Non posso insegnare. Non devo insegnare. Io posso solo aprire una strada. Educare. E-ducere: trarre fuori. Allevare. Questo è il mio ruolo. Questa la mia missione. Il fuoco. Devo tenere acceso il fuoco. Dopo altre tre curve mi fermo. Non segue le mie tracce, ma percorre una sua linea. Si ferma, fa fatica. Ogni tanto spazzaneve. Non cade. Persiste. Mi sembra di intravvedere, nella sua cocciuta ostinazione (nel fallire, nel riuscire, nel provare) un piccolo filamento del mio DNA. Ero anche io così? Per questo sono ancora qui? Origine della specie.

Procediamo di muretto in muretto, ora fermandoci. Ogni tanto affiorano i nervi e la stanchezza. Ma siamo due mondi, due universi separati. Io non posso entrare nel suo, posso solo assecondarne la forza. Lo sci è solitudine. Mi allontano appena in tempo da un piccolo pianto, proseguo sulla mia linea, ogni tre curve mi fermo. Dove finirà questo momento in lei? Dove finiranno questi ricordi, si faranno opachi, un giorno forse non le diranno più niente. Sarò ai suoi occhi quello che fu per me il baffuto e sarcastico maestro sappadino? O un padre egoista che pretende dai figli ciò che lui non è riuscito a fare? Che compensa su di essi le proprie mancanze? Evoluzione della specie.

Ci sono giorni in cui – più di altri – realizzi cosa vuol dire essere padre. Questo è uno di quei giorni. La guardo scendere ora sulla mia traccia, ora aprendo la sua e penso solo che siamo qui perché mi ha chiesto lei di portarla a sciare. Perché è voluta scendere per la 2, anche se era rossa. Perché è iniziato tutto di nuovo.

Sciando il conoide alla fine del canalone – foto C.Betetto

Qualche giorno fa ho trovato un commento di Francesca alla “Pasqua” di Guido Gozzano “se c’è la vita, c’è l’impossibile”. Questa strana frase mi è risuonata in testa per giorni, e ad ogni passo mentre salivamo il canalone. E’ questo dunque, il senso del fuoco, il senso della neve?

Si arriva ad un certo punto – a quel punto, quello in cui ti fermi guardi il compagno e semplicemente scendi – proprio perché lo scopo in noi è un altro. È mettere a frutto tutto quello che siamo stati. Issarci su quel fondale nebuloso dove sono precipitati i ricordi senza che questi ci portino in giù. Abbiamo sperimentato il limite. Siamo le nostre esperienze. Siamo il fuoco che deve passare attraverso di noi. Siamo il desiderio di aprire quella traccia di nuovo. Siamo l’impossibile.

Salendo il canalone del Siera, inverno 2014

Tre Storie – di neve, di sci e di quella strana, insolita, grazia

di Saverio D’Eredità

1 . Del cadere. E del rialzarsi.

“E tu? E tu da dove vieni?”

Lo sguardo del maestro, mascherato dagli occhiali a specchio, era puntato proprio su di me. Anche se io in quel momento non stavo perfettamente seguendo le indicazioni su come impostare la curva a sci paralleli. Il mio sguardo, invece, era rapito da quel cupo canalone incassato tra le pareti del Siera, del quale non vedevo lo sbocco ma ne immaginavo avventurose strettoie, linee fragili, sfuriare di venti.

“Sì, parlo proprio a te, con quel piumino verde!” Continua a leggere