Summer Rain

di Saverio D’Eredità

Per una volta spero che piova. Ha piovuto tutti i fottutissimi giorni quest’estate, per una volta potrebbe anche servire a qualcosa.

Le goccioline sul vetro di ieri sera hanno fatto da viatico ad un sonno sereno, seppur popolato di sogni difficilmente interpretabili. Mi sono addormentato lasciando a metà un racconto, una storia che ancora non ho finito che parlava del suicidio di un uomo incapace di sopportare la propria disabilità e di una donna che cerca un suo ultimo messaggio. Ho chiuso il libro, consolato dalle gocce e interdetto dai pensieri sulla vita, su certi fili sottili e impalpabili che ci tengono appesi. Ho pensato che forse dovevo dire di no ad Andrea stavolta, perché non si possono sempre passare le domeniche con l’ansia e tra poco arriva anche Francesca e forse devo ammettere che sto già pensando ad altro.

Ho rimandato come spesso capita le decisioni all’indomani, sapendo benissimo che erano già state prese.

Al mattino invece il cielo è insolitamente sereno e alle 6 Andrea è davanti alla porta di casa con una faccia piuttosto sveglia e convinta, tanto da indurmi a pensare di aver fatto male a pubblicare la relazione di Nicola sul sito. Il destino di oggi sembra già scritto perché davanti al caffè parliamo di tutto tranne che di discutere la meta, che sarà “Carnia Adventure” sulla Creta dei Cacciatori.

Una salita affascinante con un passaggio misterioso, una placca apparentemente inscalabile dalla quale pende una fettuccia sbiadita che si vede già dal sentiero, quasi come un monito o una sfida. Qualcosa che ha dell’eccentrico, se vogliamo, e per questo in qualche modo di artistico. Come uno strano dipinto sulla faccia liscia e inaccessibile di un palazzo alto 200 metri.

Passando rotonde e bivi realizzo quindi che la decisione è presa al di là del mio volere. Niente via a spit al Passo M.Croce, niente tranquilli avvicinamenti in Winkel. Siamo già instradati oltre Villa Santina e parliamo di quello che è stato e che sarà, tranne che della via. Oggi,  paradossalmente, non ho nemmeno la relazione in tasca come a voler allontanare ogni ansia e ogni aspettativa dalle ore a venire.

C’è poco da fare, ammetto di aver un brutto rapporto con le Carniche. Sarà per la naturale predilezione alle atmosfere grigio luce dell’estremo est. Sarà per questa pietra sempre difficile, ora compatta ora fragile che sembra non accettare mezze misure o facili scorciatoie. O più semplicemente per il fatto che ho preso un bel po’di bastonate da queste parti e quindi gioco forza l’autostima cala e il desiderio di conseguenza, rinnovando la lezione della volpe e l’uva.

Eppure è un peccato perché questi prati verdi che lambiscono le pareti, questi orizzonti aperti e silenti meriterebbero forse maggior attenzione o meglio, dita e piedi più abili per saperle scalare. Mi rassegno ad una giornata di sofferenza, l’ennesima, rimanendo della convinzione che prima o dopo dovrei darci un taglio.

Arriviamo all’attacco in un sole poco convinto e altrettanto poche parole. Decido senza troppi ripensamenti di attaccare il primo tiro, i cui metri di partenza sembrano già abbastanza tosti ma ben protetti. Se deve essere una giornata di patimento tanto vale verificarlo subito, penso. Il sopra non esiste, dimentico la fettuccia, le placche compatte, e questo traverso finale che ha agitato i sonni. Sempre un traverso di mezzo, mi dico, ma è mai possibile? Andrea mi lascia andare e percepisco da subito una particolare sintonia, come di acqua che scorre senza far rumore.

Commentare i passaggi mi aiuta a rilassarmi, così guadagno i primi metri leggermente aggettanti ringraziando per la presenza dei chiodi ai punti giusti senza i quali non avrei nemmeno attaccato. Esco dalla parte dura e mi dedico alla mia specialità – fessure ad incastro prive di stile – seguita da una frenetica e disordinata ricerca di protezioni accettabili. Il tiro va, rimango in campana ancora per i successivi venti metri, tra roccette sfasciate, ciuffi di erba e gomma viscida biasimando queste montagne come a giustificare la mia scarsa abilità. La prima sosta è oltremodo scomoda e ancora una volta mi convinco che non si possono più passare le domeniche così.

Vediamo, non visti, un piccolo gruppo di escursionisti che risale faticosamente il ghiaione sottostante. Stranamente non ci notano, mentre io posso ascoltare nitidamente i loro discorsi e quando Andrea arriva in sosta ci passiamo i materiali facendo solo attenzione a non far rumore, quasi fossimo dei bambini cattivi intenti in un qualche gioco proibito e con la paura di essere scoperti.

In un quadrato di luce che sarà l’ultimo della giornata Andrea affronta il tiro chiave, quello della fettuccia sbiadita che è lì da quando eravamo piccoli e oggi sembra quasi un feticcio. Studia i movimenti, infine passa misurato e preciso senza arrestare il flusso oltre quella placca dall’attrito imperscrutabile cui segue una lama respingente, per sparire poi oltre l’orizzonte visivo.

Veniamo in montagna per i grandi spazi per poi ridurci su pochi metri quadri giallo e grigi, dove prese e tacche sono un alfabeto morse che di volta in volta cerchiamo di decifrare. Ormai sono abituato alle contraddizioni e non mi faccio altre domande.

Nei tiri successivi centellino al necessario le richieste di consigli e aiuti dall’alto. Non perché mi senta particolarmente in forma, piuttosto per una specie di pudore. C’è una tale calma oggi che sarebbe proprio un peccato rovinarla. Viviamo ognuno il proprio tiro di corda, la propria sequenza di movimenti, scanditi solo dal fruscio della corda e dal tintinnare dei moschettoni.

Ad ogni sosta guardo in giù e guardo altrove, forse spero ancora che piova e me ne vergogno un po’.

 IMG-20140902-WA0000il quarto tiro di Carnia Adventure

foto di Andrea Fusari

La linea di salita sfrutta una venatura di roccia compatta districandosi tra placche ora ruvide ora lisce. Alcuni passaggi sono molto belli ed eleganti, e per una volta riconosco che questa pietra va solo presa con calma per il verso giusto, come certe persone scontrose. Alle soste ci sorprendiamo a parlare delle Giulie e istintivamente lo sguardo corre più ad est. Nel grigio fitto che sa di pioggia Andrea affronta l’ultimo tiro, quello in cui il pensiero martellante di un traverso improteggibile, sicura condanna dell’arrampicatore scarso, aveva tanto turbato il sonno notturno.

Solo sull’ultimo terrazzino ripenso alle gocce di ieri sera, al racconto e a questi fili impalpabili che ci tengono su come le corde sfalsate che mi danno la direzione di uscita. Nel recuperare le protezioni mi sento un piccolo burattino appeso a questi fili, i cui movimenti dipendono dalla trazione della corda e dall’inerzia nel contrastarli. Il traverso si risolve in un solo passo, che Andrea protegge con pochi ma essenziali accorgimenti, più conoscendomi che per assicurare la propria salita. Negli anni abbiamo imparato a riconoscerci così che raccomandazioni e consigli servono sempre meno. Ognuno conosce tempi, silenzi e sfoghi dell’altro in questa fragile combinazione che è una cordata.

Non ci sarebbe stato tempo per congratulazioni e commenti. Probabilmente non ce ne sarebbe stato bisogno. Scendiamo subito, planando sulla Forcella delle Genziane, una zattera verde alla deriva in questo mare grigio, in cui pareti e campanili emergono come scogli. Ci fermiamo ancora un istante a riguardare la parete: sembra quasi impossibile che non ci abbiano visto stamattina. E ancora ci stupisce il silenzio, in questo pomeriggio di nubi immobili, che beffardamente rimanda la pioggia.

Sarebbe arrivata dopo, la pioggia, sulla strada di un ritorno lento dove gli accordi di una vecchia canzone mi sono sembrati nuovi, e quasi più tollerabile una sosta inattesa e la coda di auto. Le gocce bagnano il parabrezza, ora sottili, ora pesanti. Non laveranno via queste domande, queste contraddizioni che non credo di poter risolvere adesso. Domenica prossima,non spererò più che piova.

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