Un autunno estivo

di Saverio D’Eredità

L’autunno è quella stagione dei boschi che cambiano colore, del foliage, delle giornate più corte ma non proprio cortissime, che fa fresco la mattina ma poi a mezzogiorno si sta da dio. L’autunno è quella stagione che, in montagna, è bellissima, si sa. Quella che se “potessi le ferie le farei solo in autunno” e si fanno le cime panoramiche che l’aria è più secca e si arrampica al sole su quelle vie non tanto lunghe, anzi corte, però non cortissime insomma quelle che vie che normalmente quando sei nel trip nemmeno consideri, ma sono pure belline.

L’autunno è quella stagione che forse meglio dire era. Perchè sto sudando come una capra (non so se le capre sudino, ma puzzo, si, di capra o sarà che sto salendo lungo le palline di escrementi caprini) e mi faccio largo tra erbe che saranno alte fino al ginocchio e dopo un po’di reticenza ho capito che o mi ci ficcavo dentro o sta parete ce la potevamo scordare.

Stefano Salvador sul primo tiro di Stelle Filanti – foto S.D’Eredità

L’autunno è quella stagione che era, perché un po’sarà che siamo arrugginiti noi, sarà che di vie ne abbiamo fatte un po’ – mica tutte – e quindi iniziano a scarseggiare le idee e ci muoviamo confusi, ma oggi pare estate – che dico – agosto pieno e ‘sta placca pare uno specchio incandescente. L’autunno c’erano i colori, un po’ci sono eh, ma non quelli che ricordavo. L’erba che tappezza anche le rigole di pietra, prospera nei terrazzini, avanza ovunque è verde e non risente di alcun cambio di stagione. Nell’aria fluttua la foschia che appartiene ad altri mesi e la bocca è secca ed impastata, ma non per le difficoltà che in fondo oggi abbiamo accuratamente evitato. Sento bisogno di una birra grande.

Insomma l’autunno c’era una volta e con esso anche un momento dell’anno che ritengo essenziale per sistemare le idee, assorbire esperienze e guardare al futuro. Dall’alto della sosta posta sull’unica fascia verticale della placconata osservo le venature scolpite nella pietra che danno il nome alla via “Stelle Filanti”. Eppure oggi – sarà ‘sta sete, sarà questa specie di ansia climatica che mi sta salendo – mi paiono più ruscelli di pietra, memorie di tempi che presto dimenticheremo. Se osservo da vicino la pietra (cosa che oggi posso anche permettermi mentre faccio finta di piazzare un friend) posso quasi sentire il movimento dell’acqua nel calcare, percepirne il gorgoglìo, il movimento verso il basso in obbedienza all’unica legge inevitabile, quella della gravità.

C’era l’autunno e quella stagione lì, oggi non so nemmeno se ci sarà ancora. Scaliamo in autunno estivo, confusi e spiazzati, eppure incantati da questa scultura di roccia che vorrei non finisse mai e continuasse altri 10 tiri almeno e verso non so dove, cercando di dimenticare qualcosa che non c’è.

Sul tiro “chiave” di Stelle Filanti

Placche del Coston di Stella (gruppo del Coglians)

Stelle Filanti (Pezzolato-Gojak,2005)

Difficoltà: prevalentemente IV, 1 p.V+, 1 p.VI

Lunghezza: 200 mt

Itinerario 175 della Guida Alpi Carniche Occ.li (D’Eredità-Zorzi)

Un luogo minore e appartato nel vasto ed articolato versante sud del Coglians, dove vaste fasce rocciose si alternano a conche pensili e boschi abbarbicati, sotto la muta presenza del “Tetto del Friuli”. Secondarie rispetto all’esplorazione alpinistica, son state “evidenziate” da De Rovere prima, da Paolo Pezzolato e Sara Gojak poi, infine ancora frequentate da locali quale Alex Corrò in tempi recenti. Qui nessuna vetta particolare (se si eccettua la policroma sagoma della Torre di Coston Stella), ma un ambiente che si direbbe arcadico. La grande placconata è unica nel suo genere, solcata da una miriade di rigole che hanno creato intarsi particolarissimi e caratteristici: lungo queste l’arrampicata scorre fluida (un solo salto, leggermente strapiombante, impone impegno) ma tecnica e in pura aderenza. Ideale per le cosidette “mezze stagioni” o comunque quando non si cerca particolare ingaggio e una comoda logistica. Via comunque alpinistica nonostante la rassicurante presenza di spit sui passi impegnativi.

Quello che mancava

di Saverio D’Eredità

Alcune cose, c’è da dire, sono cambiate in meglio.

Ad esempio la libreria è molto più in ordine. I volumi sono accostati per genere, colore e dimensione. Non li devo più cercare per casa, ora in bagno, ora sulla sedia della cucina, sul comodino o chissà dove perché letti, appoggiati, riaperti e lasciati. Le pagine delle guide sono meno consumate di prima e sanno di patinato, niente più foglietti sgualciti, reduci da appallottolamenti in tasche di giacche (e magari pure lavati), ma chissà perché non buttati. Niente riviste accumulate e fogli strappati con relazioni di vie in vattelapesca che chissà mai avrai tempo e voglia di andarci. Le odio, le biblioteche ordinate, comunque. Mi sanno così di finto. Di così poco amore.

Ad esempio passo molto meno tempo a consultare i siti meteo. Non è un’impressione, è proprio il rilevatore di benessere digitale dello smartphone a dirmelo. I siti meteo si trovano molto in giù nella cronologia, sostituiti da più seri quotidiani online e posta. Meno ore passate a capire i modelli, incrociare i dati, fare congetture e piani a, b o c. Il meteo è un’idea più vaga, meno ansiogena e piuttosto occasionale. Sempre più spesso in questi ultimi tempi mi sono alzato la mattina, ho guardato il cielo e deciso se mi andava o meno di fare qualcosa. Mi preoccupa semmai il fatto che il tempo sia sempre uguale da mesi, ma quella è un’altra storia che ci riguarda molto da vicino anche se non sembra.

Di sicuro c’è che i programmi sono diventati più semplici. Niente contorsionismi per incastrare occasioni di socialità, impegni familiari, pranzi cene o peggio brunch (no, ecco, i brunch teneteveli proprio che manco la parola, sopporto). Meno corse in auto, meno farfugliamenti sulle mete, più disponibilità. Forse persino più serenità.

Eppure, nonostante tutto, qualcosa mancava.

Carlo Piovan sulla seconda parte della Dimai alla Punta Fiames – foto S.D’Eredità

Arrampicare non è (o era) “tutta” la mia vita. E’ tanto facile incappare in questa trappola, quanto difficile poi è uscirne. Mi sono sempre tenuto alla larga da questa totale immedesimazione, se non altro come forma di prudenza, del tipo che non si sa mai. Che se poi qualcosa va storto, della tua vita, che ne è? No, non è tutta la vita. Ma una parte di essa sì. Ed una parte è pur sempre qualcosa che consideri tuo. Che se manca, ecco, se manca te ne accorgi. Non puoi fare finta di niente. Non puoi mentire a te stesso.

Funziona così con le passioni, le passioni vere intendo. Che non saranno poi tutta la tua vita, è vero, ma se non ci sono ti rimane addosso la sensazione di qualcosa che manca. Un pensiero strisciante, insistente, simile a certi pensieri di ogni giorno (avrò chiuso la macchina? Ho le chiavi di casa?) che quando vai in giro ti senti un po’nudo e un po’ incompleto. Come uscire in ciabatte.

Cosa era che mancava quindi? La consultazione del meteo, delle guide o di un programma? Niente di tutto questo e tutto questo insieme.

Carlo Piovan all’uscita della Dimai alla Punta Fiames – foto S.D’Eredità

Le mie cartine topografiche, ad esempio. Ho passato più tempo su quei fogli colorati della tabacco – consumare dita e occhi su linee di sentieri rossi o neri, calcolare curve di livello o semplicemente ammirare affascinato le gradazioni di colori ed immaginare forme – che non su molti libri di scuola. Erano tutta la tua vita? No, certo. Ma erano parte di essa.  Era qualcosa di tuo.

Osservo Federico prenderle ogni tanto dal cassetto e aprirle sul pavimento. Mi chiede dove siamo e io gli dico “lì” anche se è una vallata dolomitica a caso. Mi chiede se quella è la nostra montagna e dove è il fiume. Credo che lui, come me, non veda tanto una cartina e dei colori. Quanto delle possibilità. Ciò che noi possiamo fare di noi stessi.

Sarà per questo che si dice “ho fatto” una via e non ho scalato? Che senso ha il fare di un qualcosa che semplicemente ti limiti a percorrere? Me lo sono sempre chiesto.

Quello che mancava più di tutto erano gli ultimi metri prima dell’uscita. Quelli che sono più belli perchè sempre più facili, che senti odore di cima, di aria che cambia, di luci diverse. Percorrendoli, quella mancanza mi è sembrata chiara. Quello che mancava è la capacità di rendere ciò che si è immaginato reale. Mano su mano, piede su piede, “creare” quindi “fare” o sarebbe meglio dire “fare sé stessi”. Ed era questo quello che mancava.

Quello che mancava era la inspiegabile leggerezza che ti accompagna poi, per ore, giorni, forse settimane. Come di un peso tolto dalla bocca dello stomaco che ti fa improvvisare respirare, come prima mai. Che ti fa sembrare tutto di nuovo aperto, possibile. Come Federico che guarda le cartine e mi chiede dove andiamo domani.

In questo periodo dell’anno, puntualmente, nella mia playlist ricompare October, che ascolto quasi fosse una ricorrenza. I giri semplici, incalzanti, di basso e batteria, rimandano luci e aspre e intense come quelle di certi autunni di fuoco. Erano due anni, quasi, che non lo ascoltavo. Quello che mancava forse allora era ascoltare October nella luce che si assottiglia sulle montagne del ritorno, la batteria di Larry Mullen jr al minuto 2.41 di Rejoice e pensare che sì, ancora tutto è possibile, c’è ancora tutto un mondo da immaginare ancora.

Traverso sulla via “Like a Vergin” – Media Vergine (Alpi Giulie) – foto E.Zorzi

Ritorni – prima che faccia notte

di Saverio D’Eredità

C’è un gusto particolare a cogliere le ultime di stagione. Che poi ultime non sono mai, si sa, ma lo si fa per scandire il tempo. O per ingannarlo, il tempo. Le ultime prima delle tempeste, ti fanno sentire un po’privilegiato (tutto ruota spesso attorno a questa cosa qui, di qualcosa di unico, di irripetibile, che in realtà è già così), come il marinaio rientrato in porto prima della burrasca o l’ultimo dei mohicani. Allora, rivolgi lo sguardo alle montagne di sempre, quelle che fanno parte dell’orizzonte quotidiano (le altre,quelle nobili, quelle desiderate già si sono isolate nel loro silenzio invernale) e quindi anche se non ci pensi sono sempre con te, fanno parte di una sorta di paesaggio interiore sempre presente. Ti si parano davanti quando rotei in uno svincolo autostradale, uscendo dal supermercato, mentre distrattamente guardi dal finestrino. La Grauzaria per noi che non siamo poi tanto lontani, ma manco vicini è quella cosa lì. La montagna sempre presente, la cui porta è sempre aperta, soprattutto quando hai una malinconia da qualche parte che non sai spiegare. E ci sono di più – come vecchi amici cui confidare un segreto, un dubbio, un pensiero – in prossimità di questi giorni che già sanno di inverno e ti prende quella fretta o non so che di sapere ancora qualcosa, prima che finisca tutto, prima che faccia notte. Quel desiderio di tornare. Allora metti da parte aspirazioni, pretese, o chissà che idee senza senso e non hai difficoltà a dire all’amico “ma sì, torniamo lì”.

In vista della Medace

Per noi, per me, la Grauzaria è quella cosa lì. Montagna a cui torni, anche mille volte, e non ti pesa. Nessuna occasione perduta. Nessun rimpianto. La “Direttissima” ce l’ho sempre nella coda dell’occhio in quei momenti insulsi in cui attraversi strade e paesaggi nei giorni in cui non succede niente che poi è la vita normale, e se la visibilità è buona subito la ritrovi. Il terrazzo sospeso del Gran Circo, la turrita cresta sommitale, i gorghi inestricabili sotto la Cima Senza Nome. Si torna alla Grauazaria, come da bambini in qualche rifugio segreto, la casa sull’albero per chi ha avuto la fortuna di avercela, un angolo della stanzetta per altri, il muretto con gli amici.

Il traverso delle fessurette

Se poi è un po’che ti sei messo in pausa, allora le montagne di sempre sanno ricordarti il motivo per cui torni. Che ti mancava la sveglia, uscire nel buio, tagliare le tele di ragno nel bosco. Fare quel passo fuori dal sentiero tracciato. Riscoprire un certo passaggio. Cercare un ometto e aggiungergli una pietra sopra. Prima che faccia notte.

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Creta Grauzaria mt.2065

Via “Direttissima” (N.Cozzi e T.Cepich 8/9 settembre 1900)

Tra le vie cosidette “d’ambiente” senz’altro una delle più affascinanti delle montagne friulane, che permette una traversata della Creta da est a ovest con giro ad anello. Percorso solare ed arioso, molto vario e con alcuni passi caratteristici come il pertugio “dantesco” che permette di superare il grande masso incastrato d’attacco e il traverso delle fessurrette che -per l’epoca di apertura- fecero meritare l’appellativo di “Direttissima”. Primi salitori illustri per questa montagna ora fuori moda, ovvero il leggendario Napoleone Cozzi con Tullio Cepich, membri della Squadra Volante protagonista di spettacolari prime salite all’alba del Novecento, un vero salto di qualità per l’alpinismo “senza guida”. Si tratta di terzi gradi, ma considerando i mezzi ridotti e le scarse conoscenze anche geografiche dei gruppi, di tutto rispetto. La salita (itinerario n.111 della Guida Alpi Giulie e Carniche Or.li) non supera mai il III+ (brevi passaggi) ed è sufficiente uno spezzone di corda (anche 30 metri) per percorrerla (qualche rinvio e un paio di friend per sicurezza). La parte alta, in cresta, si svolge su terreno spesso insidioso dove prestare attenzione. Discesa per la normale.

Cresta sommitale dall’anticima S/E- visibile la cima della Creta, la sx delle due

Le potenti creste della Cima dei Preti

di Saverio D’Eredità

Potenti le creste della Cima dei Preti! Da qualunque parte abbia osservato questa montagna due aspetti hanno sempre catturato il mio sguardo. Le sue grandi creste e le inconfondibili lastronate calcaree del versante nord est. Le prime non sono semplici linee spartiacque, ma possenti nervature che risalgono al vertice della vetta come spine dorsali di colossali draghi cristallizzati nell’atto del salire. Ogni volta che ho provato a misurare gli sviluppi mi sono scontrato con gli inganni delle prospettive e della profondità delle loro radici, affondate nelle valli invisibili. Le imponenti lastronate inclinate ne accentuano invece le drammaticità, lasciando sempre spiazzati circa la loro reale inclinazione e conferendole un tono quasi enigmatico. Continua a leggere

L’atlante delle montagne

di Saverio D’Eredità

Vinsero quindi le ombre. Finiva lì, appena sotto il tetto che segnava l’occhio della Sfinge la nostra rincorsa all’ultimo giorno d’estate. Avevamo cercato la luce, senza mai trovarla, scalando i muri grigi e compatti della Sfinge. La parete basale, altissima e verticale, sembrava non finire mai. Alzando gli occhi non vedevamo che uno sconfortante ciglio di mughi e non altro che lavagne grigie ai nostri lati. Come se la montagna quel giorno non avesse cima. Della luce del giorno, terso ed immobile, potevamo osservarne solo il riflesso, quando illuminava ora il profilo destro ora quello sinistro della “faccia” senza mai riuscire a rivelarne completamente il volto.

Assaporai, seppur malinconicamente, i metri finali di quel diedro liscio e squadrato, sapendo anche che sarebbero stati gli ultimi per quel giorno, e forse per tutto il resto della stagione. Una domanda sarebbe quindi rimasta sospesa, sotto quell’occhio muto e al termine del nostro giorno irrisolto. Scoloriva il giorno all’orizzonte, la pietra facendosi man mano fredda. Non avevamo più fretta. Il buio ci avrebbe sicuramente ripreso sulla via del ritorno. Quando tornammo al rifugio la Sfinge sembrava inghiottita dalla notte. Continua a leggere