Visto di Transito

di Saverio D’Eredità

In fondo potrebbe essere giusto così. Perché prima o poi – lo sapevo – il momento di dover fare i conti con le mie paure e la mia inveterata tendenza ad assumere atteggiamenti pusillanimi e codardi sarebbe pur arrivato
A questo punto tornare indietro sarebbe forse possibile, certo. Magari un po’complicato. Di certo, sarebbe tremendamente imbarazzante.
Quindi, a conti fatti, potrebbe anche essere giusto così. Una volta tanto assumermi le mie responsabilità, senza alternative o opzioni. Messo all’angolo da me stesso e dall’ineluttabilità della mia condizione. Ma se devo dirla tutta, l’unica cosa che non mi sarei aspettato è di provare questa stranissima, insolita, calma.
Sto traversando lungo una sottile cornice, scolpita in questo desolante muro di calcare compatto
Dietro di me c’è solo la corda sospesa tra una protezione e l’altra.
Non posso incrociare lo sguardo del compagno, né parlargli. In altre parole, sono solo.
Del resto, lo immaginavo. Pochi minuti fa, mentre Nicola mi consegnava ordinatamente il materiale, osservavo lo spigolo oltre il quale saremmo scomparsi reciprocamente alla vista. Oltre un primo, facile, diedrino mi sarei allontanato definitivamente come una piccola zattera alla deriva nel mare aperto. Come mi sarei sentito? Sarei riuscito a mantenere la calma, a fare la cosa giusta, a non cedere alla tentazione di rinunciare?
Invece non avrei mai pensato che mi sarei sentito così bene.
La roccia è molto compatta e lascia poche alternative. Alcune piccole tacche per le mani, una serie di esigui appoggi per i piedi. Devo solo seguire la loro sequenza. Non cercare alternative. Non cercare raggiri. Non pensare. Tutto sommato, una cosa semplice.
Più che un tiro di corda, assomiglia ai transiti attraverso certe vecchie frontiere di una volta, dove passavi da un gendarme all’altro ripetendo i medesimi gesti (documento, sguardo, domanda, risposta, sguardo, documento), spostandoti pian piano lungo una linea.
Non dovevi fare niente di particolare, a quelle frontiere. Anzi l’unica cosa da fare era non fare proprio niente.
Attenersi alla procedura.
Non guardare troppo in giro.
Porgere il documento e rimanere in attesa di farsi apporre il visto di transito.

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Nicola Narduzzi in uno dei passaggi più celebri delle Dolomiti: la lama del Grande Muro. Foto S.D’Eredità

Ancora due metri in salita per una piccola fessurina che muore tra le placche, prima di mettere gli occhi sulla lama, nient’altro che una crosta appoggiata alla parete. La osservo in tutto il suo sviluppo e mi stupisco di trovarla tutto sommato breve. Riesco ad intravvedere la sua interruzione e, poco oltre, il terrazzino cui devo arrivare, che pare galleggiare come una boa nel mare aperto. Tra me e il punto di arrivo ci sono una decina di metri e un mare di silenzio.
Appoggio il piede esattamente dove poso lo sguardo. Scorro con le mani lungo la lama. Muovo l’altro piede. Procedo nella terra di nessuno. Quando la lama finirà mostrerò il mio documento. Là dovrò ottenere il mio visto di transito.

Quando nel 1969 Messner affrontò questo passaggio forse non era del tutto consapevole che stesse per compiere l’ultimo atto di una lunga transizione. La via che lui e Frisch aprirono attraverso il bastione del Grande muro forse non aveva nulla di eccezionale, rispetto a quello che gli stessi avevano già dimostrato di sapere fare sulle pareti dolomitiche. Solo un anno prima Reinhold con il fratello Gunther aveva aperto una nuova pagina nell’alpinismo dolomitico, addentrandosi nelle futuristiche placche del Pilastro di Mezzo. Ma nel 1969, alla fine di quella transizione che vedeva ritornare ed affermarsi un nuovo concetto di alpinismo, ciò che era accaduto sul Pilastro di mezzo non era ancora chiaro ai più. Solo Messner proseguiva, ostinato, verso il punto di arrivo di quel lungo passaggio.
“In alpinismo l’evoluzione risiede nel come. Io mi sforzo di affinare la mia tecnica di arrampicata, di esercitare l’occhio, di aumentare la mia resistenza. La mia meta è raggiungere una sicurezza totale in arrampicata su qualsiasi tipo di terreno”
Scriveva Messner in “Settimo Grado”, annotando a margini il racconto della scalata al Pilastro di Mezzo e di quella che sarebbe diventata una vera icona dell’alpinismo di quegli anni.
Messner con le sue azioni rappresentò e sintetizzò più di ogni altro quel cambiamento. Non era il solo certo. Il cambiamento aveva radici lontane, i ragazzi dello Yosemite cominciavano a girare per l’Europa e l’epoca dell’alpinismo che lo stesso Messner ebbe a definire “tecnologico” si stava esaurendo, collassando su sé stessa. Non era il solo, eppure in una lettura hegeliana della Storia, Messner agì quasi come un individuo “cosmico-storico”. E certamente il Messner di quegli anni, e di quel 1969 in particolare, riassumeva perfettamente la rottura di una concezione comune, ma ormai esausta dell’alpinismo.

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La compatta lavagna del Grande Muro nell’ombra del mattino – foto S.D’Eredità

In questo senso, vi sono scalate che rappresentano più di altre una transizione, al di là della difficoltà intrinseca, del grado, dello sviluppo o della pericolosità. Come avremmo commentato con Nicola tra un terrazzino e l’altro, è proprio nell’intenzione più che nel valore tecnico in sé, che si misura il valore delle vie di Messner. “Non esistono vie a priori” – scrisse anni dopo – “Esistono solo quando l’uomo le progetta e le traccia. Non sono vie necessarie, ma possibili. E quello che conta in tutto ciò che si crea, vale anche per una prima ascensione.” La via del Grande Muro era, per l’appunto, possibile. Seppur non necessaria.
Le pareti del Sass dla Crusc, con il loro sviluppo orizzontale, l’assenza di grandi vette di riferimento e l’apparente monotonia delle sue forme non attirarono fino a quegli anni le smanie degli alpinisti. Ma che queste pareti fossero lo scrigno dell’alpinismo del futuro era un’intuizione riservata a pochi. Il numero di vie che viene aperto immediatamente dopo gli anni ’70 spiega di per sé il motivo. Ed è curioso che fino a quell’epoca la più importante fosse l’ultimo capolavoro della scuola artificiale, in cui Livanos e Gabriel diedero sfoggio di abilità e coraggio nel negoziare metro a metro il friabilissimo pilastro del Sasso Cavallo. Quasi un passaggio di consegne.
Nel percorrere il Grande Muro questa transizione risulta ancora più evidente, tanto che essa sembra quasi una piccola sintesi di storia dell’alpinismo nel breve arco di 300 metri di scalata. I regolari camini e diedri della parte bassa sembrano appartenere ad un’altra epoca dell’alpinismo, quelle in cui le linea naturali ed “interne” della parete permettevano di sfuggirne esposizione e verticalità. Nei primi quattro tiri potremmo essere su una qualunque via di una qualunque epoca dell’arrampicata dolomitica. La cengia di metà via, dove ci siamo accoccolati per qualche istante al sole caldo di quest’ottobre segna la discontinuità della parete. Pochi metri di una parete gialla a scaglie preludono al calcare grigio e ruvido delle placche superiori. Qui delle strette fessure intaccano la compattezza della parete come incrinature in un fragile specchio. Come un atto di fede sono queste che vanno assecondate per trovare l’uscita dal labirinto della parete.
La lama termina su una placca compatta. Parrebbe la fine dei giochi e forse lo deve aver pensato anche Messner, quel giorno. Tornare indietro sarebbe ancora meno possibile, a questo punto. Sono in piedi sull’ultimo gradino disponibile e osservo uno strano cordone che scende lungo il bordo della lama. Immagino che dovrò fare qualche strano gioco con le corde per passare dall’altra parte. Ma non ne vedo il reale motivo. So che esiste un “trucco” ma al momento non capisco quale possa essere. Finché non metto a fuoco, proprio davanti al naso, una scaglia rovescia. Tastandola, pare avere la consistenza di un cracker. Ma è evidentemente questo il trucco. Sorrido. Oggi non avrò bisogno di barare.
Gli alpinisti sono soliti affermare che scalando una parete, superando un certo passaggio, “vincono” le proprie paure. Questo modo di pensare, tuttavia, non mi è mai stato congeniale. Non credo di aver mai superato veramente nessuna delle mie paure. Ho ancora paura di volare. Ho ancora paura di non essere capace di superare un passaggio o di non essere in grado di sopportare il dolore, la fatica o l’insindacabilità della rinuncia.
Non credo di essere veramente in grado di vincere le mie paure, e forse non mi interessa nemmeno. Io oggi sono le mie paure. E le mie paure sono con me.
Nell’affrontare questi due passi, nel transitare per la terra di nessuno sento ancora quel freddo sul collo, il battito cardiaco che accelera, la pesantezza del corpo che cerca aiuto nella pietra. Ci sono proprio tutte, e tutti gli anni passati, i momenti di sconforto e sollievo. Ci sono gli occhi dei compagni e certi sorrisi stirati per sfuggire al paradosso delle nostre stupide azioni. In questi pochi passi che devo compiere in orizzontale, afferrando il rovescio della lama, puntando i piedi su piccoli cubetti di calcare, sono forse proprio le mie paure a sostenermi.
Naufrago sul terrazzino. Vorrei urlare a Nicola che sono oltre, ma c’è un silenzio così bello e pieno che spiace romperlo. Anche perché alla sosta mancano ancora tre metri. La guardo sconsolato e felice. Anche oggi ne aggiungerò un’altra, alle mie paure.

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Il Sass dla Crusc nell’ora del tramonto – foto S.D’Eredità

La fessura finale è splendida. Una linea serpeggiante nella disperazione delle placche compattissime del muro terminale. Nicola la supera con eleganza e determinazione; a me resta la penitenza delle braccia gonfie e di un smorfia per la foto d’uscita. Scavalchiamo il bordo del Grande Muro nella luce temperata di un primissimo pomeriggio. Il bello di questa parete è che quando essa termina si spalancano spazi interminabili e viste lunghissime. Tutto l’altipiano di Fanes si distende nel sole radente. Niente roccette, ghiaie o pinnacoli instabili da salire o contornare. Verticale ed orizzontale si sostituiscono in un singolo movimento. Sediamo uno accanto all’altro, la schiena appoggiata ad un masso cubitale sul bordo della parete. Manca solo una cosa a questa giornata, che entrambi sappiamo, tacendone.

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Discesa pomeridiana sotto la parete – foto S.D’Eredità

La grande parete del Sass dla Crusc si solleva sui morbidi prati della Val Badia come uno scoglio arenato nel mezzo di una baia. Il verde dei pascoli e delle foreste di conifere si infrange contro le ghiaie precipiti del suo zoccolo basale. E proprio come uno scoglio pare emergere, gradualmente, drizzandosi con le sue pareti ora compatte, ora fragili e pennellate da colori intensi. Ocra, rosso, giallo, grigio, bianco. Ma una maledizione e un incanto grava su questa montagna. Essa vive due vite nell’arco della stessa giornata. Cupa ed informe nelle albe che si levano alle spalle, prende vita solo quando la luce del pomeriggio le sorride davanti.
In questi momenti il grande scoglio si tramuta in una muraglia d’oro. Potresti davvero pensare che siano questi i confini del leggendario regno di Fanes e che un tesoro vi sia nascosto, inviolabile.
Ottobre è un mese dolce e crudele. L’intensità delle sue luci è tanto forte quanto fuggevole. Ottobre è memoria del Tempo.
Scendiamo traversando lungo la parete, nel pieno di un incendio di luce che divampa dagli ultimi larici fino all’orlo del Grande Muro. Ed una grande calma pervade, come prima nell’ultimo passo alla fine della lama. Non dovremmo preoccuparci di questo tempo che passa. Non dovremmo preoccuparci dei regni che furono o che in futuro cadranno. Quello di Fanes attende ancora di risorgere.
Prima di imboccare l’arco scuro del bosco, attendiamo un istante. E con un ultimo crepitio, la luce sulla parete si spegne del tutto.

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