L’uomo che fissa le nubi – alla cieca sulla Cima Fanton

di Saverio D’Eredità

Il Batti ronfa alla mia destra già da un paio di chilometri, mentre Raffaello sul sedile posteriore non dice nulla, sprofondato tra zaini e sci. In silenzio ci addentriamo con l’auto in Val d’Oten mentre osservo a metà tra l’incredulo e il depresso la spolverata bianca sui rami degli alberi sopra i 1500 metri. Non posso crederci. Ancora una volta l’imprevista nevicata notturna rischia di stravolgere i piani, proprio nel giorno – l’ultimo – che mi ero concesso per tentare disperatamente di dare un senso alla stagione sci alpinistica. Cerchiamo qualcosa, ma non lo sappiamo spiegare.

Da circa un mese il copione si ripete regolarmente e nonostante tutte le nostre congetture, calcoli e considerazioni non siamo ancora riusciti a tirare fuori una gita che sia una e – soprattutto – a terminarla da qualche parte. Mezze rinunce, tentativi abbozzati, solenni scornate si sono alternate in questa finestra di inverno aperta d’improvviso nella primavera. Ognuno dei rientri dalle ultime uscite, naufragate ora sotto nevicate fresche ed impreviste, ora per errati calcoli o mancanza di quel pizzico di cattiveria che ci vorrebbe ogni tanto, si sono trasformati in malmostosi silenzi gravidi di livore e recriminazioni. Con quel senso di inappagamento che è tanto più forte quanto più inutile e gratuito è il nostro impegno. Fatto sta che gli interminabili chilometri di ritorno vedevano sempre maggiori tappe birra “per farsela passare” e rimuginamenti vari, conditi di osservazioni piccate sulle scelte dell’uno o dell’altro socio e mesti calcoli sui giorni di ferie ancora sfruttabili. Pare proprio che lo scialpinismo sia un’attività solo infrasettimanale.

La verità è che lo scialpinismo primaverile si fonda su una forma di finzione, un autoinganno che si alimenta di volta in volta in maniera esponenziale. Ovvero sull’irripetibilità delle occasioni che vogliamo cogliere, occasioni che – crediamo – non si ripresenteranno mai una seconda volta. Che non ci sarà quindi un’altra stagione.           Tutto ciò sembra assumere sempre più una connotazione prettamente esistenzialista, fondata sul “hic et nunc”. Sarà forse colpa dei contrasti che ora si fanno più vivi: il verde intenso delle foglie, il fragore dei torrenti di scioglimento, il ritrarsi ogni giorno più rapido della neve. O forse quel senso malinconico che accompagna da sempre certe primavere dove invece di rinascere sembra quasi di morire un po’di più. Vivendo su questa contraddizione, nella dissonanza, cerchiamo una forma di armonia.  O sarà che abbiamo semplicemente paura di invecchiare.

Mentre rimesto ancora una volta sul fatto che abbiamo sbagliato qualcosa e deve essere anche stavolta colpa di qualcuno (ma non so di chi) mi convinco che è tutta una questione di approccio mentale. Forse dobbiamo semplicemente crederci di più, mi dico. Anche perché nel frattempo posso notare come oltre alla spolveratina scenografica le cime stesse stiano ancora ribollendo di nuvoloni grassocci e vaporosi, la cui compattezza non fa ben sperare, nonostante le previsioni – per le quali avevamo cambiato di 180° la nostra meta, ovvero dal Tricorno all’Antelao – promettessero “cielo terso e ben soleggiato”.

Quindi come l’irripetibile George Clooney in “L’Uomo che fissa le Capre” tento anche io di sgomberare il cielo dalle nubi fissandole intensamente, addentrandomi per un disagevole sterrato in Val d’Oten. Mentre tento queste tecniche da Jedi, proprio come il Clooney del film un colpo sordo nella scocca dell’auto mi avverte che il viaggio motorizzato ha termine e dobbiamo sostituire il mezzo meccanico con le nostre gambe. Sconsolati o forse rassegnati guardiamo l’auto mezza di traverso su una rampa ghiaiosa: un parcheggio forse non da manuale, ma non credo ci sarà tanto traffico oggi.

Alle 6.30 quindi il già denso programma si arricchisce di 4km in piano, che cerchiamo di alleviare con ironiche considerazioni sull’ottimo riscaldamento da cui trarremo giovamento e commenti compassati del tipo “oggi è freddo, strano per maggio” o banali come “però, una volta qui c’era più neve”.

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Approccio in val d’Oten

In ogni caso dopo solo un’ora di ritardo poggiamo gli sci sulla lingua di neve che scende tra due macchie di mughi, come una bianca corsia pronta a condurci verso le zone alte cui ambiamo. Il momento in cui si scaricano gli sci per farli scorrere sulla neve dovrebbe essere accompagnato da un certo entusiasmo, invece per noi inizia una marcia silenziosa e densa di pensieri tanto quante le nubi che si arruffano in cielo. Ancora convinto di poter sviluppare dei poteri Jedi fisso con intensità i cumulo nembi cercando di dimenticare buoni proverbi e credenze popolari. È vero, le nubi si attaccano alle pareti. In effetti sono anche piuttosto compatte. E altre ancora  salgono dal fondovalle. Insomma, non un indizio mi porta a concludere che stia arrivando il bel tempo, ma ci credo ugualmente. Cerco alleati tra le vette limitrofe. In fondo la Tofana di Rozes si abbronza già al sole e la stessa Croda Marcoira si permette qualche fascio di luce tra le pieghe. La fiction prosegue e noi anche, tra le dolci gobbe che precedono il ghiacciaio inferiore dell’Antelao, sempre più distanti tra noi, come a voler evitare ogni commento che possa incrinare la fiducia nel miglioramento.

La verità, acclarata alla Forcella del Ghiacciaio, è che non si vede un ficosecco ma noi facciamo finta di niente. Probabilmente in questo inverno di ombre abbiamo sviluppato doti superiori per procedere nel white-out. Carta ed altimetro alla mano (credo di non aver utilizzato i due strumenti insieme almeno dai tempi dell’Alpinismo Giovanile) lascio credere a Raffaello e al Batti di aver la situazione del tutto in pugno. Basterà contornare il ghiacciaio superiore sulla destra, paralleli al bordo delle pareti e quindi lasciarci guidare dalla morfologia del terreno verso il canale. Come fossimo a casa nostra! Seguiamo le pareti come un corrimano in una notte oscura, le cui forme ripiegate dal modellamento dell’antico ghiacciaio sembrano stringersi su di noi come il palmo d’una mano che si chiude. Sulla sinistra ogni tanto emerge la sagoma della piccola seraccata del ghiacciaio, come il dorso di un mostro marino che sbuca tra i flutti per poi inabissarsi.

L’atmosfera nel catino superiore è lugubre e so benissimo che il primo ad aprir bocca di fatto sancirà la fine della gita. Forse per questo procediamo a debita distanza. Raffaello ogni tanto si gira ma non parla, il Batti chiude la fila e non osa fiatare. Io faccio da ponte tra i due sperando in un minimo sollevamento delle nubi.

Arrivano invece delle voci. “Saranno sicuramente dei local, vedrai che sanno sicuramente dove andare” mi dico confidente.  Il local c’è in effetti. Ma è solo. E soprattutto pensa che stiamo andando verso il canalone Menini e per questo ci sorpassa schernendoci sul fatto che dovevamo girare prima. “Desistere, desistere!”  esclama incrociandoci e continuando a parlottare da solo svanisce nella nebbia. Il teatrale ingresso del satiro ampezzano nella scena acuisce il senso irreale della nostra salita, ostinatamente orientata verso la vetta e l’aspettativa di mondi superiori. Boccheggiamo, non so se per la fatica o per l’aria pregna di umido e gelo. E so già cosa accadrà tra poco: qualcuno dirà che tutto questo non ha senso, che si viene per divertirsi (e infatti stiamo già salendo da  5 ore, tanto è il divertimento), toglieremo le pelli commenteremo il tempo e spererò che nessuno dica che la montagna resta là.

Forse è vero. Forse è così che si comincia ad invecchiare. Si tira la gamba indietro, ci si abbatte alle prime asperità e si filosofeggia sull’avvenire per glorificare il passato. Il pendio si impenna, qualche piccola slavina scivola sulle nostre tracce. Il momento è carico di aspettativa. Decido di togliere gli sci contro ogni suggerimento e tentare la vecchia tecnica dell’apripista. Il primo passo è sconfortante. La neve pare quasi sabbia mobile e più mi muovo più sprofondo. Mi do venti passi, mi dico. Venti passi e poi torniamo indietro, stavolta decido io.

Testa bassa e bastoni  perpendicolari al pendio inizio a traversare lentamente. Ogni tanto qualche strato compatto risolleva peso e umore. Passo oltre Raffaello e non lo guardo. Se lui dice di tornare non ci sono santi. Invece dopo qualche secondo con la coda dell’occhio vedo che appoggia lo zaino e toglie gli sci. Mi segue! Il potere Jedi da i suoi effetti. Se siamo in due a crederci nulla potrà fermarci. La nebbia è solo una condizione mentale, mi ripeto, solo occhi che non sanno vedere. Dieci tenaci minuti ci portano nel canale, che per noi ha in serbo un premio cui tanto speravo: una neve leggermente compattata sui bordi che permette qualche passo più leggero e veloce. Adoro i canali da risalire. È forse il momento che apprezzo di più in queste salite, un momento fatto di una fatica onesta e paritaria, in cui ogni passo è veramente guadagnato. Da troppo tempo avevamo dimenticato questa sublime arte della sofferenza, una sofferenza schietta in cui non c’è materiale o tecnica che tenga, ma solo gambe cuore e polmoni. Un gioco pulito con la montagna, senza sconti, dove il premio è senz’altro superiore alla puntata.

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Sprazzi di sereno sulla cresta

Anche il satiro crede in noi e ci raggiunge. Visto il suo entusiasmo lascio volentieri che apra la traccia nell’ampio pendio che sovrasta il canale e aspetto il Batti. Un alito di vento più forte preannuncia la cresta. Ormai non penso più alle nuvole, anzi, quasi apprezzo il fatto che questa cima la cui forma mi era ignota rimanga ancora avvolta dal mistero. La quota dell’altimetro ci dice che non abbiamo altro da cercare per oggi: sostiamo al margine di una cornice sospesa sull’opposto versante. Anche stavolta non abbiamo raggiunto che un punto.

Come sospettavo le nubi si sarebbero giusto sollevate appena planati nel catino superiore, lasciandoci navigare a piacimento tra le onde del ghiacciaio. Il ventre carico di nubi ci risputa fuori, lasciandoci rincorrerere curve vecchie e nuove, ora aspettandoci ora allontanandoci. Semplicemente sciando, come ci viene meglio. Cercavamo questo? È primavera ma sembra inverno, dicono e ancora non so se ci sarà davvero un’altra stagione. Se il miracolo si ripeterà nuovamente a e forse è proprio vero che tutta questa fretta, quest’ansia è solo una dannata paura di invecchiare.

Non abbiamo trovato nulla oggi, la cima è solo un puntino come tanti perso nelle nuvole. O forse quello che cercavamo, l’avevamo già.

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Ghiacciaio Superiore dell’Antelao, fuori dalle nubi

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