Tre Storie – di neve, di sci e di quella strana, insolita, grazia

di Saverio D’Eredità

1 . Del cadere. E del rialzarsi.

“E tu? E tu da dove vieni?”

Lo sguardo del maestro, mascherato dagli occhiali a specchio, era puntato proprio su di me. Anche se io in quel momento non stavo perfettamente seguendo le indicazioni su come impostare la curva a sci paralleli. Il mio sguardo, invece, era rapito da quel cupo canalone incassato tra le pareti del Siera, del quale non vedevo lo sbocco ma ne immaginavo avventurose strettoie, linee fragili, sfuriare di venti.

“Sì, parlo proprio a te, con quel piumino verde!” Continua a leggere

La pattuglia acrobatica/atto I: prima discesa con gli sci della Gola Nord della Veunza per Cecon, Limongi e Mosetti

di Saverio D’Eredità

“Impossibile non sia stata ancora sciata!”

Ogni qualvolta mi capita di passare dalle parti di Fusine ed osservare quella vena bianca che fila sinuosa nel ventre della Veunza, mi faccio sempre la stessa domanda. Per una generazione che si muove nel “post-tutto”, il rischio è che anche quell’immaginazione che un tempo doveva andare al potere possa inaridirsi. Eppure la domanda tornava costante “E se ancora non fosse stata sciata”?

Incassato tra le pareti della Strugova e della Veunza, questo canale noto come “Gola Nord della Veunza” (in realtà l’apice del canale è la Forca di Fusine, passaggio sulla grande cresta Ponze-Mangart) è pressoché invisibile nella sua interezza da qualunque angolazione lo si osservi. La vena, sinuosa, appare da lontano solo per un breve tratto della sezione superiore, salvo essere “inghiottita” alla vista dalle pareti che vi si ripiegano attorno. Nemmeno andandovi alla base, al culmine del bel conoide della Strugova, è chiaro esattamente se questo canale abbiamo o meno continuità: bisogna dunque entrarci per scoprire che un “muro” di circa trenta metri si pone a difesa di questa linea che ha tutto per essere “ideale” ma che nella migliore tradizione giuliana riserva sempre qualche sorpresa.

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Di oscurità e promesse

“Vedi cara è difficile spiegare,
è difficile parlare dei fantasmi della mente”
F. Guccini

di Nicola Narduzzi

La macchina scorre veloce sulla linea d’asfalto persa nel nulla della campagna, scuotendo pigramente al suo passaggio l’erba alta che delimita la carreggiata. Le piante di mais si stagliano fiere con i loro pennacchi verso il cielo, sopra di esse solo le montagne fanno capolino attraverso l’aria estiva carica di umidità. Nessun paese, nessun edifico, nessuna persona a turbare l’armonia di questo piccolo angolo di mondo. Mentre le loro ombre gradualmente si allungano, proiettate dal sole che cala verso l’orizzonte infiammando il cielo, mi rendo conto di esser rimasto solo al mondo.
Vorrei fermarmi.
Scendere dall’auto.
Sedermi su un muretto a secco.
Guardare la luce scomparire oltre quelle creste che laggiù, ad occidente, delimitano il mio angolo di mondo.
Assaporarla fino all’ultimo istante, vivere la profonda malinconia di non poterla inseguire.
Respirare la sottile brezza che soffia la sera tra le strade di campo, quando la terra sospira finalmente libera dall’opprimente battuta dei raggi del sole. Eppure non riesco a fermare l’auto, non posso. Continuo a guidare, intrappolato in una corsa inarrestabile verso oriente, verso l’oscurità che risale dalle profondità della terra, avvolgendo la campagna, avvolgendo me, finché ogni cosa non scompare. Il resto è silenzio. Continua a leggere

Il Diedro Infinito

di Saverio D’Eredità

Prologo

Come il pane o la poesia

Che silenzio che c’è qui. Che silenzio tra queste rocce, ultime a difendere la luce di un giorno che man mano svapora. Il buio risale dal profondo del terra. Procedo piano. Una pietra, smossa, precipita senza far rumore quasi fosse senza peso. Mi sento leggero anch’io, o forse sono solo svuotato e quella che sento è semplicemente fame. C’è un piacere sottile a percorrere con lentezza questi ultimi tiri, come a voler conservare un ricordo più a lungo di altri.
D’improvviso l’aria si riempie di una luce riflessa. “Guarda”, dico ad Andrea che sta rollando una meritata cicca di fine via. È l’ora in cui il sole giunge a riscattare l’altra faccia del diedro dall’ombra millenaria cui sembra condannata. Pochi istanti prima del tramonto a dar vita a queste pietre senza significato, se non per i nostri occhi e le nostre mani che oggi le sfiorano e le osservano. Lo spigolo del diedro, illuminato, si staglia come una prua nel vuoto e forse solo ora prendiamo coscienza di dove ci troviamo. Il Cozzolino, il diedro infinito, è ormai dietro di noi. Continua a leggere

In contemplazione del Mistero

di Nicola Narduzzi

“Sono parte di tutto ciò che ho incontrato;
eppure ancora tutta l’esperienza è un arco attraverso cui
brilla quel mondo inesplorato i cui confini sbiadiscono
per sempre e per sempre quando mi muovo.”
(A. Tennyson, Ulysses)

Chiudo gli occhi. Penso a una parete, penso a quella parete: il mio frutto proibito. La sogno, come si sogna il sole nell’ora buia che precede l’alba. La desidero, sapendo che il desiderio non verrà appagato. L’ho anche sfiorata, conservando però sempre la consapevolezza che non sarei mai arrivato al suo cuore. Continua a leggere

“Che ci faccio qui?”

Avventure sul Buconig

di Francesco Madama

Introduzione di Saverio D’Eredità

Quando ho ricevuto la mail di Francesco, devo dire, ho esitato qualche istante. Scrivendomi con naturalezza della salita al Monte Buconig – come se parlasse, che so, della passeggiata ai Piani del Montasio, ammetto di esser rimasto spiazzato. Un attimo, mi son detto, dov’è il Buconig?              Ci sono cime che stanno davanti agli occhi di tutti eppure per una strana deformazione dell’atto di vedere vengono letteralmente oscurate dal nostro occhio. Il Buconig, così come i confratelli della turrita e disordinata catena di vette che incornicia la misteriosa Val Romana, rientra senza dubbio in questa misconosciuta categoria. Eppure per arrivarvi si parte da quello che è probabilmente il più affollato parcheggio delle Giulie: quello dei laghi di Fusine. Tutti additano la grande vetta, il Mangart, questo patriarca colossale che veglia panciuto la conca dei laghi, semmai qualcuno ammira l’austera bellezza delle grandi pareti del Coritenza. Ma nessuno che volti la testa a destra, verso quelle vette neglette eppure a loro modo avvincenti. Intrichi di canaloni, mughete violente, denti rocciosi esili come schegge di vetro. Come se nella grande costruzione del tempio fossero rimasti degli scarti di lavorazione, ammassati lì per caso.  Ma c’è chi si prende cura di loro. Il racconto di Francesco è certamente pane per i degustatori del “ravanage” – vera e propria arte e severa disciplina dell’alpe! – ma anche per gli amanti di quelle avventure minime eppure intense che quanto più si allontanano dai sentieri consumati e dai libri di vetta lisi, tanto più sanno regalare sensazioni profonde ed intime. E forse quel piccolo monte dimenticato, arrossirà..

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Scarpe da gatto

di Nicola Narduzzi

“Il tempo passa, ma non tanto”: così scriveva esattamente cinquant’anni fa Gabriel Garcìa Màrquez nel suo libro-capolavoro “Cent’anni di solitudine”. Non potevo fare a meno di pensare a questa frase pensavo leggendo le storie inedite di Italo Massi, alpinista goriziano, trascritte dal nipote Roberto Galdiolo. Quasi un secolo ormai è passato dalle salite narrate nel libro. Un lasso di tempo breve, poco più di un istante di quel tempo profondo che scandisce i tempi geologici, nel quale tuttavia si sono susseguiti grandi cambiamenti sia nell’alpinismo, che nelle Alpi stesse.

Eppure, nonostante non posso fare a meno di pensare che certe cose in fondo resistono anche all’inesorabile azione del tempo. Uguali sono certe sensazioni, certi sentimenti che ancora oggi si possono provare circondati dalle nostre montagne: il senso di stupore di fronte alle pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo all’alba, lo sgomento alla base della monolitica parete del Piccolo Mangart di Coritenza oppure la bellezza del tramonto da Sella Carnizza, per citarne solo alcune. Uguali sono le montagne, le valli, i luoghi descritti in maniera asciutta ma arricchita di un tocco personale. Descrizioni nelle quali un attento conoscitore dei luoghi potrà riconoscersi a camminare fianco a fianco ai protagonisti di queste storie, pur percependo l’incessante scorrere del tempo. Seguiamo così Italo mentre attraversa il ghiacciaio della Kredarica, oppure nell’infinita camminata lungo la mulattiera che si addentra in Val Dogna. Continua a leggere

Il canale nascosto del Piccolo Mangart

di Saverio D’Eredità

È  innegabile che uno degli aspetti sociali più caratteristici dello scialpinsimo – almeno nella sua versione 2.0 – sia quello di vantare (per non dire ostentare) la scoperta dell’itinerario perfetto, possibilmente originale, con neve sempre e comunque di qualità eccezionale, ovviamente senza essere umano alcuno a parte i novelli esploratori. Il tutto sarebbe persino accettabile se ciò non fosse pervaso da una vaga supponenza per non dire un accenno di giudizio morale su quanti (al contrario) non fanno che ripercorrere banalmente e senza creatività i medesimi itinerari di sempre. Continua a leggere

Solo un giorno più lungo

di Saverio d’Eredità e Carlo Piovan

Mattutino

Capita sempre più spesso ultimamente. Partire e tornare di notte, con le stesse luci alogene, a semafori spenti. Con la città che ti guarda stupita passare, per strade che ti sembra di non riconoscere. Il via vai sporadico di turnisti, panettieri e buttafuori. Un auto dubbia accostata ad un parcheggio di periferia e qualche volante che segue sbronzi tardivi.

Tu sei lì che sfili, uno ad uno gli incroci che erano nervi e clacson e ora sono frontiere dismesse. Scappare e tornare dalla città di notte, a semafori spenti, come seguaci di Ulisse alla presa di Troia.

A sera fari ancora illumineranno incroci deserti e fogli volanti di carta straccia, di giornali le cui notizie sono già invecchiate e noi – tutto sommato – siamo riusciti a viverne senza. E con la sensazione, inebriante, di essere riusciti a sottrarsi al tempo.

Stamattina ho commesso l’errore di riappoggiare la testa sul cuscino e questo mi costringe a saltare dal letto all’auto in dieci minuti. È tardi, sono le 3.48 del mattino o della notte e Federico aspetta all’ingresso autostrada. I semafori spenti mi salutano lampeggiando gialli mentre supero paesi e campagne e il giorno sembra una promessa impossibile.

Persino il bosco di Fusine sembra disturbato da questo nostro incedere rapido nell’alba. Ma stamattina la foresta è un torace in affanno che respira e trasuda. Un rospo di sotterra ci passa davanti, la salamandra sguscia nel poco fango rimasto. Il caldo ti strizza i polmoni e inchioda le gambe, c’è qualcosa di innaturale e l’aria ferma non ha nulla delle albe frizzanti che motivano e chiudono lo stomaco. Continua a leggere