di Saverio d’Eredità e Carlo Piovan
Mattutino
Capita sempre più spesso ultimamente. Partire e tornare di notte, con le stesse luci alogene, a semafori spenti. Con la città che ti guarda stupita passare, per strade che ti sembra di non riconoscere. Il via vai sporadico di turnisti, panettieri e buttafuori. Un auto dubbia accostata ad un parcheggio di periferia e qualche volante che segue sbronzi tardivi.
Tu sei lì che sfili, uno ad uno gli incroci che erano nervi e clacson e ora sono frontiere dismesse. Scappare e tornare dalla città di notte, a semafori spenti, come seguaci di Ulisse alla presa di Troia.
A sera fari ancora illumineranno incroci deserti e fogli volanti di carta straccia, di giornali le cui notizie sono già invecchiate e noi – tutto sommato – siamo riusciti a viverne senza. E con la sensazione, inebriante, di essere riusciti a sottrarsi al tempo.
Stamattina ho commesso l’errore di riappoggiare la testa sul cuscino e questo mi costringe a saltare dal letto all’auto in dieci minuti. È tardi, sono le 3.48 del mattino o della notte e Federico aspetta all’ingresso autostrada. I semafori spenti mi salutano lampeggiando gialli mentre supero paesi e campagne e il giorno sembra una promessa impossibile.
Persino il bosco di Fusine sembra disturbato da questo nostro incedere rapido nell’alba. Ma stamattina la foresta è un torace in affanno che respira e trasuda. Un rospo di sotterra ci passa davanti, la salamandra sguscia nel poco fango rimasto. Il caldo ti strizza i polmoni e inchioda le gambe, c’è qualcosa di innaturale e l’aria ferma non ha nulla delle albe frizzanti che motivano e chiudono lo stomaco. Continua a leggere →