Un passo più avanti
Per un inquadramento storico della Hasse-Brandler alla Cima Grande di Lavaredo
di Saverio D’Eredità
La bellezza delle opere della Natura può generare nell’animo umano due tipi di sentimenti ugualmente forti e contrastanti. C’è chi di fronte ad uno spettacolo naturale prova timore, un ancestrale timore che fu quello dei nostri avi, e quasi cerca di rifuggire la Natura “orrida” che lo minaccia. E chi quel timore, quella paura, riesce a trasformarla in desiderio di scoperta. Curiosità. Avventura.
La nord della Cima Grande di Lavaredo appartiene alla categoria dei “monumenti” naturali. Una spettacolare lavagna gialla e grigia di dolomia stratificata, quasi sfacciata nella sua spropositata verticalità che ha saputo e sa anche provocare le più diverse reazioni agli occhi degli alpinisti. Certo, ci sarà ancora chi – vedendola – non potrà nemmeno comprendere le ragioni che possano spingere un uomo a scalarla – lei, l’oltraggio alla gravità, lei che ridicolizza la misera struttura fisica dell’essere umano.
Ma c’è e ci sarà ancora chi in quel muro giallo vedrà dei colori ammalianti, una sequenza di movimenti via via più intensi, esposti coinvolgenti. E saprà andare oltre la paura.

Quando nel 1958 la cordata di Dieter Hasse, Lothar Brandler, Jorg Lehne e Sigi Low attaccò la via sembrava fosse tutto già scritto, sulle Nord. Scemato il polverone della corsa alla prima, nessun ancora sapeva guardare il futuro. Forse, una volta scaricato il fardello di una “prima assoluta” i tempi erano di nuovo maturi per dare spazio alla creazione. Così Hasse seppe cogliere di nuovo la sfida di quella lavagna. Andando nel suo cuore giallo, là dove si annida la paura.
La storia della salita è avvincente, ne emerge il carattere forte e determinato di Hasse vero trascinatore della salita e forse lo scalpore che genera questa scalata è troppo calamitato dall’apparente forzatura della linea, dall’uso del chiodo a pressione, dal concetto di profanazione. Ma in realtà la via dei 4 tedeschi è tutt’altro che forzata: essa segue i punti deboli, concatenati tramite traversi in massima esposizione per agganciare quella “scala rovescia”, sogno ed ossessione di generazioni di alpinisti, simbolo della realtà “contraria” delle Lavaredo. Ne scaturisce un vero capolavoro, che segna i tempi, aprendo e chiudendo al tempo stesso un’epoca. Un po’di dati: 180 chiodi usati, 14 a pressione – non tanti se si pensa a dove i tedeschi sono saliti! – chiodatura a tratti precaria tra i cubetti e le scaglie malferme delle Lavaredo. Le difficoltà, in libera, sarebbero poi state valutate di VIII+ (da Kurt Albert, il primo a scalarla in libera), mentre all’epoca ci si ferma al VI/A3. Ma già con le prime ripetizioni il valore dell’impresa emerge in tutta la sua evidenza. Dopo la ripetizione di Maestri, pochi giorni dopo la prima, sono Couzy e Desmaison a scomodare – per la prima volta! – il numero “VII” per la classificazione di questa salita. L’impressione, al di là delle polemiche, è che i 4 tedeschi abbiano spostato effettivamente il limite un passo avanti. La storia successiva è nota: la Hasse-Brandler viene considerata erroneamente l’antesignana delle “direttissime” che sarebbero poi diventate l’obiettivo della “créme” alpinistica degli anni’60. Una storia intensa, ma breve. Ma con gli anni’90 e 2000 il valore di questa salita torna alla ribalta, prima con Albert e poi con l’allucinante prestazione di Alex Huber. In free solo. Al di là di ogni opinione, questa salita rimane impressa e segna, ancora una volta, un passaggio. Ancora una volta là, sulle Tre Cime.
A voi il racconto del nostro amico Nicola Narduzzi, che ha saputo trovare, sotto quella parete, la motivazione che sta nella paura. E che rende l’alpinismo ogni giorno una storia nuova. Continua a leggere →