La Pecora Nera

Di Saverio D’Eredità

Il Direttore arrivò con cinque minuti di anticipo e una scatola di cartone che poggiò pesantemente sul tavolo della riunione.

“Avete già un calendario per l’ anno nuovo?” disse mentre levava lo scotch che chiudeva la scatola. Mancavano pochi giorni a Natale, tempo di auguri, agendine ed omaggi. Di riunioni, in se piuttosto inutili e prevalentemente formali. Un modo come un altro per darsi una parvenza di efficienza (di chi ha “lavorato fino a Natale”) ed in ogni caso rimandare tutto “a dopo Natale”. Verrebbe da chiedersi il perché di tutta questa fretta, quest’ansia di imbastire attività, progetti, proposte quando la coltre delle feste è destinata a seppellire tutto sotto l’inerzia e la malavoglia. Proprio come dovrebbe fare la neve che come ogni anno tarda sempre più ad arrivare, lasciandomi in questa specie di parentesi aperta, in attesa di una fiammella che possa accendere certe micce pronte ad esplodere.

“Bè, in realtà ancora no” dissi un po’distrattamente. Sarebbe forse stato il primo della serie che – di lì a qualche giorno – avrei raccolto nel giro delle famose riunioni pre-natalizie.

“E allora ecco qua” – disse il Direttore lanciandomi il calendario dall’altra parte del tavolo – “sono sicuro che ti piacerà”. Per un istante rimasi disorientato, come quando una mattina affacciandosi alla finestra di casa si nota qualcosa di diverso dal solito panorama.

E fu in quell’istante che capii quale tarlo mi avrebbe roso nell’inverno che stava per iniziare.

Le forme potenti di una cresta gonfia di neve riempivano per intero la prima pagina del calendario. Ne riconoscevo i tratti salienti, senza però riuscire ad incasellarli nella mia geografia mentale. Possibile? Eppure queste proporzioni, questi profili possenti  sebbene non necessariamente eleganti, non potevano che appartenere alle creste resiane del Canin.Qualche volta ci imbattiamo in bellezze folgoranti, che ti bruciano, ti lasciano senza fiato. Ma ci sono bellezze che ti scivolano dentro piano piano, che ti appartengono da sempre ma che scopri solo quando una luce diversa le illumina.

La bastionata del Canin è la cornice naturale di tutti i giorni, la stella polare della pianura friulana. Da qualunque parte si guardi in direzione nord le sue vette tozze e lunghe occupano lo sguardo, lo orientano, definendone coordinate e relazioni. Come ogni fortezza che si rispetti le sue forme non cedono all’estetica, ma si mantengono nude ed essenziali. Nulla fanno per ingraziare lo sguardo. Crinali tappezzati d’erba, salti improvvisi, pareti come muri di calcestruzzo. Amarle vuol dire andare oltre le apparenze.

E se d’estate i suoi altipiani battuti dal sole cocente, le creste tartassate dai temporali ed ogni cosa sembra essere lì, abbandonata e solitaria, è solo d’inverno che questa montagna ottiene il suo riscatto. Quando essa si dona completamente alla neve in un corteggiamento che si rinnova ogni anno vestendola di una inattesa bellezza.

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Canin – parete Ovest

Percepii il passaggio dalla fase dei convenevoli alla riunione principalmente dal cambio di tono e dall’uso – ritrito – di una certa terminologia. Strategia, territorio, opportunità, coordinamento ricominciavano a girare nel cestello di una lotteria della vacuità e dell’indeterminatezza, alla quale fortunatamente sfuggivo per un frangente, assorbito dalle forme ora morbide, ora irsute della potente cresta svelata.

“Ed ora lascerei la parola al collega che senz’altro potrà illustrarci meglio il percorso sin qui svolto…” – le parole del capo sfumarono nel silenzio della sala riunioni e della mia disattenzione. Fu come essere preso di peso dal letto e scaraventato per terra. Tuttavia non feci una piega e lasciai che una parte di me continuasse il suo sogno ad occhi aperti, mentre l’altra cercò di sbrigare il compito imprevisto.

Utilizzando ordinatamente le parole strategia, opportunità e territorio riuscii persino a risultare credibile. O almeno questa era la mia impressione mentre, pronunciando certe frasi vuote, potevo osservare come da dietro uno specchio non visto i volti dei partecipanti che annuivano compiti.

“Quindi per quanto mi riguarda, una piena disponibilità ad operare nel quadro di un percorso condiviso”.

La chiosa suggellò la mia presenza non solo fisica ma anche morale al tavolo e mi permise di proseguire l’analisi, ben più importante, della faccenda del crestone.

Alba sulla Forcella Infrababa
Alba sulla Forcella Infrababa

Ci si sente un po’come pecore nere. Non tanto per il tipico “disadattamento dell’alpinista”, che in realtà talvolta nasconde un inconscio senso di superiorità, quanto piuttosto per questa strana sensazione di vivere universi separati, con un piede nel mondo reale e uno in quello immaginato. Consegnati ad una diversità che talvolta si tramuta in un sottile disagio.

A cosa pensiamo noi nei ritagli di tempo? Cosa avremo mai da fare che ci impedisce di dedicarci totalmente al lavoro, cosa provoca questa ansia, questo soffocamento che prende talvolta il sopravvento? E per quanto ciò possa apparire romantico, questo stato mentale crea in realtà un sacco di problemi. Di relazioni, di concentrazione, persino a livello sociale. Tuttavia, volendone vedere il lato positivo, si mantiene sempre un campo piuttosto ampio di evasione e comunque qualcosa su cui elucubrare mentre si aspetta il treno o durante qualche buffet a cui bisogna presenziare.

Aprii l’agenda per l’anno a venire e cominciai a fissare le date: una riunione qua, una conferenza qui, una scadenza là ancora. Gennaio, febbraio, marzo…ogni mese mi rimanda una luce, un colore, una sensazione diversa. La mia scansione del tempo segue canoni poco comprensibili. I tempi delle “pellatine” al Lussari sotto una bella nevicata e quelli delle scialpinistiche più impegnative. Le giornate buone per salire un bel canale e quelle per non farsi prendere dalla fretta.

“Possiamo fissare il 13 marzo?”. Rimango dubbioso. È un venerdì, chissà se potrò finire presto. Magari qualche bella salita sarà in condizione. Come fare a dirlo adesso? Cancello, scrivo a matita. Magari potrò prendere una giornata di permesso. Rimando. Confido nel futuro. Speriamo che quest’anno le condizioni siano buone…

Tre mesi dopo

È un  venerdì di fine inverno, aspetto nervosamente il capo per una riunione già più volte rimandata. Osservo l’orologio, batto freneticamente una matita sul dorso. Il progetto della cresta è andato via via prendendo forma in testa e nuovamente si fa avanti il complesso della pecora nera.

“Cosa avrai mai da fare?” è la domanda che chiunque mi farebbe, guardandomi così ansioso di dover scappare di corsa. Cosa mi impedisce di dedicare un’ora in più al lavoro, ad una telefonata, ad una mail?Dire che sto partendo per la grande cresta del Canin, ne sono consapevole, non reggerebbe mai come giustificazione. Una montagna, secondo gli altri, è sempre uguale, sempre un informe ammasso di pietre.

“ E perché devi andarci proprio oggi”?

La domanda come sempre, sarebbe rimasta inevasa. Avrei potuto parlare d’inverno e condizioni.  Che non potevo lasciare che la stagione sfumasse in questa dissolvenza e che, seppur magra, meritava una chiusura degna. Per non consegnare questo ennesimo sogno a certi faldoni dove li archiviamo, in attesa di poterli ritrovare nei corridoi polverosi dell’anima. Perché non un solo giorno vada perduto.

Traverso sotto lo Slebe
Traverso sotto lo Slebe

Partiamo ai margini nella luce del giorno che s’attenua, risalendo la corrente del canalone dell’Infrababa come salmoni alla sorgente mentre la valle sprofonda ai nostri piedi. Le Giulie non nascono dai grandi passi, non hanno valli ampie ad accoglierle, come tutte le altre catene alpine. Le Giulie affondano le radici al cuore stesso della terra.

La neve non ancora rassodata dal gelo ci rallenta. Ma oramai andiamo incontro al buio sereni, mollando lentamente gli ormeggi.

Le porte del Canin

La grande cresta che si innalza dalla val Resia assomiglia al dorso di un animale antico, un dinosauro forse, le cui gobbe movimentano i profili lunghi e regolari della bastionata del Canin. La cavalchiamo nella luce promettente e limpida del primo mattino che ci vede già alti sopra le ombre profonde della Val di Resia. Le condizioni sono buone come speravamo. Le rocce sono riemerse dalla neve, i canali segnano come rughe profonde la superficie un tempo liscia dei pendii. La cresta stessa presenta poche cornici e ci permette di seguirne il filo. Un lieve compiacimento mi accompagna mentre gli eleganti passaggi tra Lasca Plagna e Cerni Vogu. Indovinare le condizioni è uno dei più sottili piaceri dell’alpinismo invernale e per un attimo mi illudo di poter attraversare rapidamente il passaggio del “Porton”, punto chiave della salita.

Ma le porte del Canin sono varchi pieni di insidie e di misteri. Ora danno luogo a segreti passaggi, ora sono illusioni, vicoli ciechi aperti su baratri. Valicarle non è mai scontato. A differenza delle classiche forcelle che mettono in comunicazioni versanti e valli, quelle del Canin assomigliano più ai merli di un castello diroccato, che riportano tra le feritoie i segni degli assalti e delle battaglie che vi si sono infrante.

Le nebbie salgono a truppe dalle retrovie dell’altipiano e si contendono il crinale, dove una fuga di gendarmi sembra serrarsi a sbarrare il cammino. Dobbiamo passare di là, sospesi tra il salto netto del lato resiano, aperto come il cratere di un vulcano fumante e il più breve, ma ripidissimo pendio che contorna l’altipiano.

Alta via resiana - cresta tra Lasca Plagna e Cerni Vogu
Alta via resiana – cresta tra Lasca Plagna e Cerni Vogu

Appena oltre il Cerni Vogu la faccenda si fa seria, come temevo. Prima che le nubi ci ricoprano cerchiamo di registrare i passaggi che ci attendono, catalogandoli a seconda dei tratti salienti. La cresta affilata, il gendarme tozzo, il traverso “della morte” e la “cengetta ridicola”. Una serie di nomignoli che cerchiamo di utilizzare come riferimento e confidando sempre nella illusione prospettica una volta arrivati a certi esili traversi sull’orlo dell’abisso. Si spera sempre nel passaggio segreto dentro il castello.

Una prima doppia ovviamente si incastra, giusto per metterci in guardia sulla laboriosità dell’attraversamento del Porton sotto Canin. Non una vera forcella, ma una larga depressione aperta nel cuore della cresta, orlata di torrette e affilata come un rasoio che dobbiamo in qualche maniera interpretare. Sembra il frutto di un ciclopico collasso o l’effetto di bombardamenti geologici. Seguiamo, a tratti, delle tracce. Se inizialmente l’idea di esser stati preceduti mi disturbava, ora quella sequenza incerta infonde un po’di fiducia. Certo che il tipo deve esser stato un equilibrista penso, dato che per lunghi tratti le orme seguono perfettamente il filo nevoso, non più largo di un piede e altrove scompaiono nel nulla. Possibile? Mentre mi interrogo su altezza peso e qualità del misterioso predecessore, appare in lontananza un puntino nero e cornuto. Uno stambecco solitario passa indifferente sul bordo dei salti. Ecco chi può averci preceduto! Il caprone non sarà alpinista, ma di sicuro è più abile di noi sul filo delle creste.

Sul filo di cresta
Sul filo di cresta

In un tempo che improvvisamente perde riferimenti ci portiamo passo passo al di là della segreta soglia, tra sicure aleatorie e macabre considerazioni sul “dove è meglio saltare giù”, che poi è solo un modo per esorcizzare la paura. In ogni caso l’altipiano ci da maggiori garanzie quantomeno di ritrovare i resti, quindi votiamo decisamente per questa soluzione.

La cresta si stringe ulteriormente, costringe ad afferrarne i bordi o cavalcarne il dorso. L’animale preistorico sembra ancora assopito e si lascia solleticare dalle punte dei nostri ramponi. Sopra un salto dobbiamo attrezzare una doppia lasciando un chiodino il cui occhiello dondola sollecitato dal nostro peso. Sempre meglio del traverso della morte che in questa maniera evitiamo e quindi con più serenità ci avviamo verso la “passerella”, una specie di ponte di roccia nel punto più basso della cresta che sembra tanto uscire da un film di Indiana Jones.

La cresta davanti scompare, inghiottita dalle nebbie che si asserragliano tutt’attorno. Il “Porton” si chiude così alle nostre spalle, dividendoci dal resto del mondo. Ne percepiamo il distacco che si traduce in un silenzio affannoso. La nebbia impedisce distrazioni e costringe a fissarci sul pensiero ossessivo della salita. Una fessura verticale, salti rocciosi, ancora il filo sottile della cresta. Accarezziamo la testa del dinosauro smarrita nelle nuvole. Le tracce del caprone si esauriscono sul Canin Basso, come le nostre parole ormai spentesi da un po’. Avanti, più nulla. Procediamo ondeggiando sul filo di cresta, ora primigenio.

Siamo rimasti solo noi tre, tre pecore nere ad aggiungere orma ad orma, incerti come quando si cammina per stanze buie la notte. L’effetto della nebbia sembra farci fluttuare leggeri, mentre mi guardo attorno cercando un qualunque particolare che mi riconduca alla posizione esatta. Per un istante ho il timore di non trovare la cima e di cominciare a scendere verso lo scivolo irrecuperabile della ovest. Poi il vento d’improvviso cambia e prima ancora di vederla, percepisco la cima.

Il resto della croce di legno, superstite, appare come una boa alla deriva. Non si vede nulla. È il panorama più bello che potessi desiderare.

Exit

Da quasi due ore vaghiamo come ombre sulla linea più alta dell’altipiano. Siamo tre figure sfocate e astigmatiche, ora confuse contro qualche roccia affiorante, ora tanto vicine da poterci parlare. Richiami si rifrangono nella nebbia. Vorrei dire a Nicola che ci precede di dare sempre un occhio sopra la testa. La forcella non deve essere lontana. La forcella non ci deve sfuggire.

Uno dei miei peggiori incubi è quello di perdermi nell’altipiano del Canin, tra le anse delle sue depressioni profonde come crateri lunari, nei corridoi di certe forre che nascondono abissi. Non è strano, qui, ripensare alle leggende delle valli che immaginavano negli altipiani del Canin il luogo di espiazione dei dannati, osservati dall’occhio sadico del Diavolo attraverso i fori delle creste.

La nostra condanna pare essere quella di procedere in questa neve cedevole, che tenta di trattenerci come sabbie mobili. Nel bianco totale ci inseguiamo come fantasmi, seguendo la fila di buchetti neri delle nostre impronte, mentre piccoli rivoli di neve si scrollano dal pendio. La forcella non ci deve sfuggire, penso ossessivamente, dobbiamo stare alti, mi ripeto. Abbassarsi troppo vorrebbe dire infilarsi nelle valli disperanti di questo deserto bianco, in quest’ora che approssima le ombre.

Alcune tracce si confondono, sdoppiandosi. Già comincio a calcolare le possibili ore di luce, reperendo nella mappa mentale il percorso più veloce qualora fallissimo “l’uscita” della  Forcella Tedesca. Osservo sotto di me l’altipiano della disperazione, penso ai dannati e al sorriso sadico del Maligno quando un soffio solleva per un istante le nebbie, come a scoperchiare un pentolone. Quel tanto di visibilità che basta per ritrovare pochi ma decisivi riferimenti. Nicola è già oltre. “Nicola, sopra di te!!!” urliamo. Si ferma, si volta, guarda dubbioso. “Forse c’è un passaggio” ci dice calmo. Non sono mai scontate le porte del Canin.

Epilogo

Il cavo del verricello oscilla pericolosamente davanti ai nostri occhi. Strisciamo rasenti al muro di neve, cercando di aggirare l’ultima insidia della giornata, ovvero la discesa della pista fuori orario. Non c’è posto per le pecore nere, penso, se siamo quasi costretti a nasconderci. Colpevoli di venire da valli dimenticate, di aver svalicato forcelle da nomi impronunciabili, abbiamo occhi pieni e gambe svuotate. Non c’è posto per noi, per le queste fatiche gratuite e senza gloria. In definitiva non siamo catalogabili. Portiamo con noi ancora molte domande e nessuna soluzione.

Una sirena rompe l’aria calma dell’imbrunire. Un faro punta diritto su di noi accecandoci. Spalle al muro come degli evasi, alziamo le braccia in segno di resa. Una voce, calma e ferma, ci intima – “Scendete. E veloci”. Qualcuno di noi risponde con un sommesso grazie mentre ci avviamo testa bassa per la pista, inedita.

Giungiamo a Sella Nevea al buio. Le sue strade, svuotate, sono preda solo della notte.

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