Il fuoco e la neve

di Saverio D’Eredità

Avevo salito il canalone nord del Siera esattamente dieci anni fa, al termine del mese di febbraio più memorabile che si ricordi e poco dopo aver saputo che aspettavamo Francesca. Questo canale, lineare e ben visibile in tutta la sua traiettoria quando si scollina a Cima Sappada, è senza dubbio tra quelli esteticamente più belli in Carniche, immancabile nel carnet dello scialpinista. Non troppo difficile, nemmeno banale, imbattibile dal punto di vista ambientale ed estetico: aperto perfettamente tra il corpo principale del Siera e del suo fratello “Piccolo”, mostra una forma regolare che dal conoide finale man mano si stringe fino all’acuta e spesso invalicabile forcella. Aggiungeteci il fatto che, quando si sbuca dal canale, si plana letteralmente sulle piste di Sappada e gli ingredienti di una sciata ideale ci sono tutti.

L’avevo percorso 10 anni fa, dicevo, ed in un certo senso è stato come tornare a chiudere la linea di un cerchio. Venti anni prima, infatti, mettevo per la prima volta gli sci sui campetti di Cima Sappada e poi sulle piste del Siera e quel canale ce l’avevo sempre davanti agli occhi: nei momenti in seggiovia – spesso da solo – che erano rilassanti solo in parte perché le partenze e gli arrivi mettevano a dura prova la mia goffaggine. Era davanti agli occhi – spesso distratti – mentre aspettavo di eseguire gli esercizi impartiti dal Maestro – il “baffone” con gli occhiali a specchio sempre con la battuta tagliente e vagamente razzista sulla bocca (ah, cosa si direbbe oggi!). Era sempre lì. E io ero sempre a terra. A maledire tutto, ma non lo sci. Sentivo, nello sci, qualcosa di implacabile ma onesto. Che non potevo che rispettare, pur subendolo.

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Dopo la discesa del canale scrissi qualcosa che voleva essere un po’ l’epilogo di una storia di riscatto, in un certo senso Tre Storie – di neve, di sci e di quella strana, insolita, grazia Uno schema classico: il brutto anatroccolo insegna. Fatto il canale, tradotte in parole le sensazioni, come immaginavo non ci sono più tornato. Coincidenze, scelte, piccole ritualità. Quando chiudiamo i conti con qualcosa, mettiamo tutto in una scatola che ficchiamo da qualche parte senza sapere dove ritrovarla. Sappiamo che c’è ma non si sa dove. Chiudiamo i conti, talvolta, semplicemente per non pensarci più.

Risalgo la pista, indurita dal rigelo notturno, mentre man mano il cielo schiarisce e lascia intuire meglio la spolverata notturna. Il Siera ha dalla sua una certa eleganza, non bilanciata però da altre peculiarità che ne farebbero una montagna di prestigio. Le pareti rotte da canali, colatoi, inframmezzati da cenge e pulpiti la rendono disomogenea e poco attraente. Ma quando si spolvera anche solo leggermente diventa d’improvviso seriosa e al tempo stesso conturbante. Transito vicino al Rifugio Siera e costeggio lo skilift, forse in cerca di quei ricordi di ormai trent’anni fa. Certo che la pista è davvero poco pendente, rifletto, poco più di un campetto. Eppure quella volta mi pareva ripidissima. Dove è finito tutto questo? Quella volta che caddi poco prima della fine dello skilift sotto gli occhi divertiti e sarcastici dei compagni, la solita invettiva del Maestro contro la mia incapacità, il piumino verde, gli occhiali appannati, tutto quel mondo ostile, dove si trovano tutte queste immagini adesso? Sono in quella scatola chiusa e messa da qualche parte?

Svolto e punto verso il conoide, sorpreso o forse deluso che di tutte queste sensazioni non rimanga più nulla. Si devono chiudere i conti per arrivare a questo? A questa specie di stasi, di annullamento delle emozioni? Probabilmente è questo quello cui tendiamo. Stare sereni. Stare in pace con il mondo. Deporre le armi e lasciarsi trascinare dalla corrente. È tutto così normale, ora. No alarm/No surprises.

Dove è finito l’occhiale a specchio del Maestro, dove sono le risate di scherno, quel sentirsi soli, esclusi, inadeguati? “E cosa ci fa uno di Palermo sulla neve?”. Quanto hanno pesato queste cose nello sviluppo di una mia identità, quanto nelle mie scelte, quanto nei miei errori? Immagino tutti questi frammenti inabissarsi in un fondale indistinto e opaco, perdere forma e sostanza, non essere che immagini e poi nemmeno quelle. Come i ricordi di Riley in Inside-Out e il suo elefante rosa. Dove saranno ora?

Arriva un punto, risalendo un canalone di neve, in cui tutti sanno che bisogna fermarsi, staccare gli sci e caricarseli in spalla. Comincia il battere traccia. È uno dei momenti che preferisco, anche se non dovrei dirlo che se no la prossima volta mandano avanti me – anche se ci andrei lo stesso. C’è un che di meditativo e al tempo stesso devoto, nell’atto di aprirsi la traccia nella neve. Nel percepire la diversa consistenza della neve, nello scegliere la traiettoria, nel suono cavo del cuore che batte. Il tempo si contrae e dilata a seconda dell’incidere dei passi. Si penetra una dimensione mentale fluttuante per il tramite di una fatica fisica orrenda. Qualcosa che avvicina alle pratiche del misticismo orientale. Io ho invece solo la sensazione di meritarmi davvero qualcosa di questo mondo. Aprendo traccia nella neve. Ansimando in un canale buio alle prime ore del mattino. Devozione e riconoscenza.

Dentro il canalone del Siera – foto S.D’Eredità

Dopo un tratto incassato, in cui i piccoli scaricamenti ci passano sulla testa senza toccarci, il canale si apre leggermente, là dove si intravvede la fine. La differente consistenza del mio passo ci arresta. Ci guardiamo un secondo e senza che si debba dire altro ci fermiamo, scaviamo un piccolo ripiano, poggiamo gli zaini e ci prepariamo a scendere. È bastato un minimo dubbio, il passo diverso, lo sfarinamento della neve che cambia suono, per farci invertire la rotta. Da cosa viene tutto questo? Da quale coscienza collettiva, da quale substrato di esperienze? Lo abbiamo attinto da quel fondale dove si sono sedimentati i ricordi, le paure, le emozioni? La rinuncia non pesa. È un atto dovuto. Riconciliazione. Sarebbe stato così anche dieci anni fa?

Le procedure prendono più tempo del solito, non sono tra i più abili nei cambi assetto e vedo i compagni già pronti. Sarà una bella sciata, questo 30 centimetri di polvere ce li siamo guadagnati. E’ sempre stato così o lo siamo diventati? Qualche volta penso che accumuliamo esperienze per farne sempre meno. Praticamente miglioriamo non per andare avanti, ma per tornare indietro. La cosa strana è che non è stata la paura. Nessuno di noi ha avuto veramente paura. Era solo ciò che andava fatto. Conservazione della specie. Forse è questo che in definitiva orienta i nostri gesti, i nostri pensieri. Andare avanti, per tornare indietro. Riportare indietro qualcosa. Il fuoco.

Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

(La Strada – di Cormac McCarthy)

Risalita a Forcella Rinsen – foto C.Betetto

Alcuni giorni fa ho sciato una mattinata in pista con Francesca e Graziella. Era la prima volta che sciavo insieme a mia figlia per davvero e non sui tappetini dei campi scuola. È stata in una di quelle mattine serene di sole e di pace, che possono accadere anche in uno normale comprensorio sciistico e senza per forza cercare l’intensità della fatica o il piacere del tracciare pendii. Si prende la seggiovia, si guarda attorno, si scia lenti ad aspettarsi. Qualche consiglio normalmente inutile o inascoltato, le brevi soste per decidere quale bivio prendere. Il panino a fine giornata. Quelle giornate in cui ti rimetti in linea, in cui non cerchi niente più che un paio d’ore di sole e di leggerezza e mi rendo conto che difficilmente ci accontentiamo di questo. Ma sappiamo anche che non esisterebbe l’una senza l’altra.

Abbiamo fatto tutte le piste blu anche più volte – del resto, lo Zoncolan non è che offra chilometri di piste ma almeno sono facili e la mattina c’è il sole – qualche stradina, un paio di saltini. Verso la fine delle ore di skipass, dondolando in seggiovia verso il “cubo” in cima ho notato come la “2” fosse pressoché deserta. “Potremmo fare questa, Franci, cosa dici” le ho chiesto già sapendo che avrebbe detto di no. Non insistere. Non imporre. Non proiettare la tua immagine sui tuoi figli. Non fare realizzare a loro i tuoi desideri. Esegui. Conduci. Non voltarti indietro. Ho sempre cercato di ripetermi questi comandamenti, che non credo si trovino in nessun decalogo per padri o in corsi di genitorialità. Io devo andare avanti. Devo solo aprire la strada. Saranno loro a percorrerla, se vorranno.

“E’ una rossa?”

“Sì, ma è larga, non è difficile. È come una blu solo più lunga”

Francesca guarda sotto, mentre da un pilone all’altro fuggiamo verso il cielo.

“Va bene, facciamo questa”

Quindi inizia tutto di nuovo così? Nuovamente una seggiovia, una linea, una traccia lasciata nella neve?Silenzio. Alzo la sbarra, una spinta, scendiamo.

Dopo alcune curve facili, arriva il primo muretto. Mi volto a guardarla mentre punta i bastoncini, si abbassa, imposta la curva sulla base del suo piccolo bagaglio di esperienze. Acquisisce una postura. Interagisce con il mondo. Capisco che non posso fare nulla. Non devo fare più nulla.

Posso solo andare avanti. La neve di mezzogiorno è pesante, piccoli mucchietti costellano la pista come i buchi delle talpe. La sciata diventa faticosa.

“Segui la mia traccia, Franci: scia dove passo io così porto via un po’di neve ed è più facile”.

Non posso insegnare. Non devo insegnare. Io posso solo aprire una strada. Educare. E-ducere: trarre fuori. Allevare. Questo è il mio ruolo. Questa la mia missione. Il fuoco. Devo tenere acceso il fuoco. Dopo altre tre curve mi fermo. Non segue le mie tracce, ma percorre una sua linea. Si ferma, fa fatica. Ogni tanto spazzaneve. Non cade. Persiste. Mi sembra di intravvedere, nella sua cocciuta ostinazione (nel fallire, nel riuscire, nel provare) un piccolo filamento del mio DNA. Ero anche io così? Per questo sono ancora qui? Origine della specie.

Procediamo di muretto in muretto, ora fermandoci. Ogni tanto affiorano i nervi e la stanchezza. Ma siamo due mondi, due universi separati. Io non posso entrare nel suo, posso solo assecondarne la forza. Lo sci è solitudine. Mi allontano appena in tempo da un piccolo pianto, proseguo sulla mia linea, ogni tre curve mi fermo. Dove finirà questo momento in lei? Dove finiranno questi ricordi, si faranno opachi, un giorno forse non le diranno più niente. Sarò ai suoi occhi quello che fu per me il baffuto e sarcastico maestro sappadino? O un padre egoista che pretende dai figli ciò che lui non è riuscito a fare? Che compensa su di essi le proprie mancanze? Evoluzione della specie.

Ci sono giorni in cui – più di altri – realizzi cosa vuol dire essere padre. Questo è uno di quei giorni. La guardo scendere ora sulla mia traccia, ora aprendo la sua e penso solo che siamo qui perché mi ha chiesto lei di portarla a sciare. Perché è voluta scendere per la 2, anche se era rossa. Perché è iniziato tutto di nuovo.

Sciando il conoide alla fine del canalone – foto C.Betetto

Qualche giorno fa ho trovato un commento di Francesca alla “Pasqua” di Guido Gozzano “se c’è la vita, c’è l’impossibile”. Questa strana frase mi è risuonata in testa per giorni, e ad ogni passo mentre salivamo il canalone. E’ questo dunque, il senso del fuoco, il senso della neve?

Si arriva ad un certo punto – a quel punto, quello in cui ti fermi guardi il compagno e semplicemente scendi – proprio perché lo scopo in noi è un altro. È mettere a frutto tutto quello che siamo stati. Issarci su quel fondale nebuloso dove sono precipitati i ricordi senza che questi ci portino in giù. Abbiamo sperimentato il limite. Siamo le nostre esperienze. Siamo il fuoco che deve passare attraverso di noi. Siamo il desiderio di aprire quella traccia di nuovo. Siamo l’impossibile.

Salendo il canalone del Siera, inverno 2014

Pompelmo

di Saverio D’Eredità

Get what you give dei New Radicals è quel genere di canzone che appena parte ti viene subito da alzare il volume. E’il pezzo perfetto per ogni genere di compilation, in qualunque punto tu la piazzi ti fa svoltare. Una canzone pop-rock pulita ed onesta, ottimista anche se un po’ ruffiana con un tocco di sfrontatezza. Get what you give era il brano di apertura della prima compilation che avevo fatto per Graziella ai tempi. Già. Ai tempi.

Non so perché mi viene in mente questa canzone adesso, fermo sugli sci che guardo Luca accingersi a far la prima curva e – ne sono abbastanza certo – prossimo a farla piuttosto male. Tanto io farò uguale se non peggio e almeno stavolta la colpa non è solo nostra, ma di questa neve orrenda, un po’crosta e un po’pappa che devi essere bravo, ma bravo bravo, a sciarci in modo che non si veda quanto fa schifo. E non è il nostro caso.

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Un autunno estivo

di Saverio D’Eredità

L’autunno è quella stagione dei boschi che cambiano colore, del foliage, delle giornate più corte ma non proprio cortissime, che fa fresco la mattina ma poi a mezzogiorno si sta da dio. L’autunno è quella stagione che, in montagna, è bellissima, si sa. Quella che se “potessi le ferie le farei solo in autunno” e si fanno le cime panoramiche che l’aria è più secca e si arrampica al sole su quelle vie non tanto lunghe, anzi corte, però non cortissime insomma quelle che vie che normalmente quando sei nel trip nemmeno consideri, ma sono pure belline.

L’autunno è quella stagione che forse meglio dire era. Perchè sto sudando come una capra (non so se le capre sudino, ma puzzo, si, di capra o sarà che sto salendo lungo le palline di escrementi caprini) e mi faccio largo tra erbe che saranno alte fino al ginocchio e dopo un po’di reticenza ho capito che o mi ci ficcavo dentro o sta parete ce la potevamo scordare.

Stefano Salvador sul primo tiro di Stelle Filanti – foto S.D’Eredità

L’autunno è quella stagione che era, perché un po’sarà che siamo arrugginiti noi, sarà che di vie ne abbiamo fatte un po’ – mica tutte – e quindi iniziano a scarseggiare le idee e ci muoviamo confusi, ma oggi pare estate – che dico – agosto pieno e ‘sta placca pare uno specchio incandescente. L’autunno c’erano i colori, un po’ci sono eh, ma non quelli che ricordavo. L’erba che tappezza anche le rigole di pietra, prospera nei terrazzini, avanza ovunque è verde e non risente di alcun cambio di stagione. Nell’aria fluttua la foschia che appartiene ad altri mesi e la bocca è secca ed impastata, ma non per le difficoltà che in fondo oggi abbiamo accuratamente evitato. Sento bisogno di una birra grande.

Insomma l’autunno c’era una volta e con esso anche un momento dell’anno che ritengo essenziale per sistemare le idee, assorbire esperienze e guardare al futuro. Dall’alto della sosta posta sull’unica fascia verticale della placconata osservo le venature scolpite nella pietra che danno il nome alla via “Stelle Filanti”. Eppure oggi – sarà ‘sta sete, sarà questa specie di ansia climatica che mi sta salendo – mi paiono più ruscelli di pietra, memorie di tempi che presto dimenticheremo. Se osservo da vicino la pietra (cosa che oggi posso anche permettermi mentre faccio finta di piazzare un friend) posso quasi sentire il movimento dell’acqua nel calcare, percepirne il gorgoglìo, il movimento verso il basso in obbedienza all’unica legge inevitabile, quella della gravità.

C’era l’autunno e quella stagione lì, oggi non so nemmeno se ci sarà ancora. Scaliamo in autunno estivo, confusi e spiazzati, eppure incantati da questa scultura di roccia che vorrei non finisse mai e continuasse altri 10 tiri almeno e verso non so dove, cercando di dimenticare qualcosa che non c’è.

Sul tiro “chiave” di Stelle Filanti

Placche del Coston di Stella (gruppo del Coglians)

Stelle Filanti (Pezzolato-Gojak,2005)

Difficoltà: prevalentemente IV, 1 p.V+, 1 p.VI

Lunghezza: 200 mt

Itinerario 175 della Guida Alpi Carniche Occ.li (D’Eredità-Zorzi)

Un luogo minore e appartato nel vasto ed articolato versante sud del Coglians, dove vaste fasce rocciose si alternano a conche pensili e boschi abbarbicati, sotto la muta presenza del “Tetto del Friuli”. Secondarie rispetto all’esplorazione alpinistica, son state “evidenziate” da De Rovere prima, da Paolo Pezzolato e Sara Gojak poi, infine ancora frequentate da locali quale Alex Corrò in tempi recenti. Qui nessuna vetta particolare (se si eccettua la policroma sagoma della Torre di Coston Stella), ma un ambiente che si direbbe arcadico. La grande placconata è unica nel suo genere, solcata da una miriade di rigole che hanno creato intarsi particolarissimi e caratteristici: lungo queste l’arrampicata scorre fluida (un solo salto, leggermente strapiombante, impone impegno) ma tecnica e in pura aderenza. Ideale per le cosidette “mezze stagioni” o comunque quando non si cerca particolare ingaggio e una comoda logistica. Via comunque alpinistica nonostante la rassicurante presenza di spit sui passi impegnativi.

Sciogliere i nodi

di Saverio D’Eredità

Non ho mai fatto un errore del genere. Nemmeno i primi tempi. Nemmeno per sbaglio. Nemmeno quando ero stanco. Ritiro la corda ad ampie bracciate, mentre dall’alto inizia a correre acqua giù dalla parete infilandosi nelle maniche, scorrendo tra i pantaloni e l’imbrago fin dentro le mutande. Ritiro ancora più veloce, nel frastuono di tuoni che rimbalzano tra i versanti. Ad ogni occhiata in su vedo lampi attraversare il cielo e mille pensieri che si riversano in testa. Che non si sta fuori durante i temporali. Che sei vicino ad un albero – ma vabbè dai, non è proprio un albero-albero, è un alberello – che sei pieno di robe metalliche e chi la racconta poi sta storia e con che faccia “imbecille rimane ustionato durante temporale” – no no no per carità  – che vai a spiegarlo, poi, che eri soltanto in falesia. Che ti ricordi, poi, come è finita a Lomasti?

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Quattro chiacchiere e un po’di “jamming” con Samuel Straulino

di Saverio D’Eredità

Quando si parla di Carnia, in fatto di scalata, di solito vengono in mente le placche e rigole di Avostanis, o gli esigenti monotiri della Scogliera in Pal Piccolo. Gli alpinisti che masticano vie classiche avranno sicuramente passato momenti “riflessivi” sugli spalmi e altri meno riflessivi, ma piuttosto avventurosi, cercando di venire a capo delle ostiche fessure, ora esaltanti ora disperanti, specie quando – succede sempre- la roccia presenta i bordi svasi che sembrano non andare d’accordo né con le mani né con le protezioni. Insomma, la fessura carnica è una categoria a sé stante, sicuramente un bel banco di prova per quanti li affrontano e che, una volta superatolo, non temeranno di misurarsi con i luoghi di elezione di questo tipo di scalata come il Piemonte, la Val Di Mello, il Bianco o perchè no, la mitica Yosemite.

Ho incontrato per la prima volta Samuel alla base del Salto, struttura rocciosa strapiombante nell’area del Pal Piccolo. Notammo questo ragazzo intento a scalare con calma e determinazione, una fessura dall’apparenza ostile. I sassetti che cadevano ci fecero capire che non stava salendo qualcosa di molto ripetuto. Margherita, che lo assicurava alla base, ci disse infatti che stavano aprendo dei tiri in stile trad (http://quartogrado.com/cargiul/relazioni%20montecroce/Pal%20Piccolo_Falesia%20del%20Salto.htm)e ci invitò a provare una fessura che poteva fungere da variante d’attacco alla via del Sandwich che nelle nostre intenzioni più “plaisir” ci accingevamo a salire quel giorno. I 3 friends appesi al nostro imbrago sarebbero stati sufficienti per quei 15 metri. E in effetti lo furono, dato che potemmo piazzarli in maniera ottimale sul fondo della fessura. Meno sufficiente fu la mia tecnica, di colpo costretta a misurarsi con quel tipo di scalata per noi inusuale, pregiudicando un po’ la resa sui tiri successivi. Non siamo certo specialisti! Rimasi quindi colpito dallo stile di Samuel che, scoprii dopo, con Margherita Della Pietra si stava dedicando ad aperture in stile “yosemitico” sulla difficile roccia di Carnia. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere in stile “jamming”, quella particolare tecnica che si applica sulle vie di fessura, parlando del suo percorso, le sue aperture, scoprendo come anche in Carnia ci si può confrontare con questa scalata “occidentale” immaginando quella “valley uprising” che popola i sogni di tanti di noi.

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Straulino su Ain’t no easy way out, sulla Creta di Collina – 340 mt, VIII

Quando si parla di Carnia non si pensa di certo alle fessure: eppure tu sei uno specialista di questo tipo di strutture, con un bel carnet di itinerari aperti con questo stile di scalata su queste montagne. La domanda che sorge spontanea è: come hai capito il potenziale dell’arrampicata in fessura in Carnia? E cosa ti ha spinto a specializzarti?

Quando ho cominciato a scalare il pane quotidiano per me erano i video di master of stone e tutti i video riguardanti lo Yosemite e le mitiche imprese di Tommy Caldwell e Dean Potter: quindi per me la scalata era scalare in fessura! Da qui poi ho cominciato a ripetere tutte le grandi classiche delle Carniche, scoprendo come le vie in montagna di stampo classico differiscano dalla falesia proprio per la ricerca dei punti più deboli delle pareti. Sfruttando prevalentemente fessure, camini e diedri ho iniziato a comprenderne la logica e a quel punto mi si è aperto un mondo: avevo “trovato” la mia Yosemite in Carnia! Più esperienza facevo e più cercavo di ripetere vie di maggiore difficoltà. Avendo poi scalato tanto con Roberto Mazzilis e quindi imparato moltissime cose da lui e dallo stile con cui apre le sue vie in montagna, ho cominciato a fantasticare e a cercare nuovi itinerari nello stile che mi piace di più. Così ho scoperto che le nostre pareti carniche hanno ancora delle linee che non sono state scalate con fessure strepitose!

In cosa differisce questo tipo di scalata sulle pareti carniche da quella più classica che si può trovare altrove, tanto su granito quanto su dolomia? Come ti muovi per affrontarle? Tecnica, protezioni, materiali…

Certamente c’è una gran differenza tra le fessure granitiche rispetto a quelle calcaree e dolomitiche. Innanzitutto per le caratteristiche della roccia: il granito presenta fessure regolari che corrono su pareti generalmente lisce (a seconda della grana più o meno grossa), quindi per scalarle si ricorre a tutti i tipi d incastri, da quello di mano alle tecniche di incastro su fessure “offwidth”, mentre nei calcari le fessure sono irregolari e per loro caratteristica offrono appoggi e tacche in parete, quindi non sarà sempre necessario incastrare mani e piedi. Per quanto riguarda la proteggibilità, il fatto che su granito le fessure sono più regolari fa si che sia più facile e immediato usare protezioni veloci, mentre su calcare e dolomia serve maestria nel piazzarle, spesso in fessure che risultano molto “svase”. Io cerco sempre di usare il più possibile friend e dadi per proteggermi, dove non è possibile ovviamente uso martello e chiodi.

E ora una domanda classica e scontata: dicci il tiro più bello e la via più bella (sempre parlando di fessure) che hai scalato!

Come tiro direi “Separate reality”(*) in Yosemite , mentre parlando di via direi Astroman (**)sempre in Yosemite.

(*) Separate Reality: celebre monotiro scalato da Ron Kauk nel 78 (diff. originaria 5.12, 7a+), immortalato in numerose foto che hanno fatto la storia dell’arrampicata americana. Mitica la prima free solo di Gullich nel 1986.

(**) Sulla Washington Coloumn, Astroman è una delle vie più importanti dello Yosemite, aperta nel 1959 da Warren Harding, Glenn Denny e Chuck Pratt, valutata 5.11 c (corrisponde all’incirca a un 6c+ in scala francese, ma su una scalata molto specifica)

Parlaci di te, del tuo percorso e delle tue esperienze: hai viaggiato molto per andare a provare le scalate “iconiche” in fessura, ad esempio. Quali sono i luoghi da non perdere per questo tipo di scalata?

Fin da bambino ho iniziato a frequentare la montagna sia con escursioni estive che d’inverno sugli sci assieme ai miei zii. Ho cominciato a scalare a vent’anni da autodidatta e divorando tutti i video che trovavo sullo Yosemite e tutte le più famose bigwall al mondo, quindi per me la scalata era…scalare in fessura! Dopo pochi mesi ero già pronto per andare a ripetere vie classiche in montagna, la falesia era solo allenamento per riuscire ad alzare il grado sulle vie. Durante i primi anni di scalate ho avuto la fortuna di conoscere il fuoriclasse Roby (Roberto Mazzilis) e da li è cominciata una vera e propria saga di vie nuove aperte insieme a lui. Scalando con Roberto ho imparato tante cose e sopratutto ho avuto la fortuna salire dove nessuno era stato prima. Quella sensazione di novità, avventura e di mettersi totalmente in gioco che si prova soltanto in montagna mi ha rapito fin da subito. Quindi ho cercato di far più esperienza possibile per poi trovare le mie nuove linee, cercando le fessure ancora inviolate sulle pareti vicino casa. E appena ho potuto sono volato oltre oceano per visitare la mitica valle che ho sempre sognato: lo Yosemite. Qui ho ripetuto tante vie classiche e anche monotiri che hanno fatto la storia, come Separate Reality. Una grande avventura è stata la via “Astroman”, sia per la via in sé, una bellissima scalata tra diedri infiniti ed incastri in fessure di ogni larghezza, sia per il fatto che avevamo portato pochissima acqua con noi per non avere tanto peso con la conseguenza che arrivammo in cima disidratati e sfiniti. Un altro posto molto bello per le vie lunghe è il Zion National Park, dove consiglierei Moonlight Buttres e Tatooine. Il viaggio è finito con le fessure più perfette che si possano desiderare, in un ambiente magico quale il deserto a Indian creek, dove ho scalato veramente tantissimo ripetendo un sacco di vie dalle classiche “iconiche” a quelle meno conosciute. Sicuramente ci tornerò, secondo me sono posti magici!

Poi però sei tornato a casa, dove hai continuato una incessante opera di individuazione ed apertura di vie di stampo tradizionale, prediligendo lo stile “americano”, quindi arrampicata tendenzialmente “clean” e ricerca di fessure. Domanda d’obbligo: quale tra le vie da te aperte consideri la migliore?

Tra quelle che ho fatto, direi proprio l’ultima sulla parete sud della Creta di Collina, un luogo speciale per me (qui Samuel ha aperto Ain’t no easy way out e Hotshots, nonché raddrizzato la classica Viaggio ad Oxford – ndr) dove ho aperto “Be the Change”, 230 mt difficoltà massima di VIII+. Qui ho trovato dei tiri in fessura davvero spettacolari, ma anche passi in placca non da meno. Peccato solo che la parete di per sé non sia molto alta, se vogliamo è l’unico difetto che posso trovarle. Però ci tengo a ricordare anche un’altra via, che ho soltanto ripetuto, ma che ha rappresentato molto per me. Si tratta di “Laura”, sulla sud del Gamspitz (via storica, aperta da Mazzilis e Di Gallo nel 1984 dove per la prima volta su queste montagne si è sfiorato l’ottavo grado: la via infatti presenta un passo di VIII- e conta pochissime ripetizioni tutt’ora -ndr): non la più dura che ho salito, ma la più desiderata sicuramente. Ripeterla con l’autore, Roberto Mazzilis, è stata un’emozione particolare.

L’arrampicata cosiddetta “trad” sta avendo un grande interesse negli ultimi anni: secondo te come mai?

Io penso che l arrampicata “trad” possa darti molto di più a livello di “avventura” e quindi di coinvolgimento mentale, dove oltre al gesto tecnico sei tu a decidere dove e quanto proteggere un tiro. Oltre al fatto di riuscire a farti crescere mentalmente e stimolarti a ripetere vie sempre più dure.

Come vedi l’evoluzione di questo stile applicato alle falesie come ad esempio fanno da sempre in Uk, ma anche tu hai aperto dei tiri trad in Pal Piccolo. Secondo te avrà futuro o sarà sempre una nicchia?

Certamente in Uk c’è una lunga tradizione sul fatto di scalare “clean”, ma c’è anche una roccia diversa dalla nostra, quindi forse più “portata” a questo stile. Non va dimenticato comunque che anche da noi negli anni ottanta, assieme alla nascita delle falesie attrezzate a spit in Pal Piccolo sopravvivevano parecchie fessure protette solo con nut ed exentrics. Successivamente – purtroppo secondo me – anche da noi si è un po’abusato di questo strumento: su placche altrimenti impossibili da proteggere va benissimo, ma su moltissime fessure non li avrei usati. Questo perché oltre a sminuirle nell’impegno, tolgono anche la possibilità a molti di imparare ad usare le protezioni veloci e a conoscere un modo diverso di scalare. Infatti qua da noi in Friuli poca gente ha una serie di friend nella propria attrezzatura, quindi almeno qui da noi il “trad” farà molta fatica ad avere successo, se non tra i pochi appassionati.

Tu sei anche guida alpina: se un cliente volesse iniziare a provare a scalare tiri in fessura, cosa consiglieresti? come lo guideresti?

Le fessure carniche non sono certo come le fessure che si possono trovare in granito, dove si ha una scalata in fessura più completa, però secondo me si potrebbe tranquillamente cominciare con le nostre pareti, magari proprio in Pal Piccolo zona “Scogliera” per poi passare alla mia falesia trad e finire con l arrivare a ripetere qualche multipitch zona Salto (vedi https://rampegoni.wordpress.com/2020/12/06/ritorno-al-futuro-arrampicata-trad-sulle-pareti-del-pal-piccolo/). Se invece si cerca il granito, la”Mecca” qui in Italia è il Piemonte con la valle dell Orco, dove ci sono sopratutto multipitch, oppure le falesie di Cadarese e Yosesigo con i suoi monotiri e le fessure perfette!

Insomma, non resta che fasciarvi le mani, appendere i friends all’imbrago e lanciarsi in quell’avventura intensa e leale che questa arrampicata sa regalare. Immaginando per un momento di trovarsi in una nostra piccola Yosemite a nordest.

Samuel in apertura sulla falesia del Salto

Questione di stile – per un’estetica delle classiche

di Saverio D’Eredità

A cosa pensiamo, esattamente, quando pensiamo a un “classico”? É una domanda che mi pongo spesso e che mi è tornata in mente una mattina ascoltando alla radio gli accordi di uno dei riff di chitarra più famosi della storia, ovvero l’attacco di “I can’t get no (satisfaction)” dei Rolling Stones. Quante volte avrò ascoltato questo pezzo? Se avessimo un contatore personale delle riproduzioni sicuramente supererebbe quota mille. Eppure anche quella mattina, alla radio, non ho girato stazione. Perché il riff di Keith Richards, nonostante le migliaia di riproduzioni è ancora qualcosa che alla radio si impone e ti dice “ehi, amico, non cambiare, senti un po’ qua”. Per dio, sta canzone ha 56 anni e ancora la ascoltiamo dicendoci “bè, non c’è che dire, proprio un bel pezzo”! Ecco, forse, un buon modo per definire un “classico”: qualcosa che nonostante il tempo, l’usura, la ripetizione riesce a risultare ancora “fresco”. Come se fosse fatto di una qualche materia inossidabile e resistente. Destinato ad essere sempre attuale.

Quando si parla di “classiche” nello scialpinismo, talvolta c’è la tendenza a snobbarle o darle per scontate: quasi che una salita (e discesa) perdesse di interesse per il solo fatto di rispondere a canoni di bellezza universali o di esser stata percorsa migliaia di volte. In altre parole, quasi sapesse “di vecchio”. Eppure la linearità di un percorso, l’esposizione, la morfologia e il contesto sono tutti ingredienti che fanno dell’esperienza dello sci qualcosa di diverso da una semplice gita. A ciò si unisce anche l’appartenenza ad una sorta di patrimonio collettivo di esperienze ed emozioni in cui tutti ci riconosciamo. Sulle classiche è normale non essere da soli, è vero, ma è raro che questo possa veramente rovinarne la bellezza. Un classico è qualcosa che va al di là dell’essere “primi” o essere “di moda”, perché ciò che conta è più l’esperienza complessiva della montagna che la competizione con qualcosa o qualcuno. Insomma, anche se classico in senso stretto è ciò che riguarda la “parte migliore” di una certa categoria, finisce per diventare qualcosa di molto democratico nella realtà.

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Le nevi del Giappone

di Saverio D’Eredità

Decise di fermarsi ai piedi di una roccia che riparava dal vento, appena oltre il limite del bosco. Non saprei il motivo. Forse perché era ormai tardi o perché gli piaceva quel punto, un’isola di luce accerchiata dalle ombre. Poi prese a parlare d’un tratto, come se stesse riprendendo un dialogo con qualcuno che non c’era. Era così, mio padre. I suoi pensieri erano un fiume carsico, scorrevano sotterranei per poi riemergere d’improvviso. Dovevi essere bravo a trovarli, seguirli e riconoscerli. Perché poi si inabissavamo di nuovo in quel suo sguardo lontano.

“Se rifletti bene, è tutta una questione di immaginazione. Amare una persona, mettere al mondo dei figli, costruire città e raccontare storie, ha tutto a che fare con l’immaginazione. Per lo stesso motivo scaliamo le montagne. Perché sappiamo immaginarle. Se ti fermassi solo a ciò che vedi, senza immaginare qualcosa di diverso, ne rimarresti schiacciato. La realtà così com’è, senza immaginazione, è una cosa terribile, persino spietata. Se come esseri umani non avessimo saputo immaginare qualcosa di diverso da ciò che vediamo, probabilmente non ci saremmo mai evoluti.”

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Requiem per un vecchio paio di sci

di Saverio D’Eredità

E’ l’alba del primo giorno dell’anno ed io c’ho pensato tutta la notte. No, non ai buoni propositi e nemmeno alle sorti dell’umanità. Ho lasciato l’anno passato semi addormentato nel frullato televisivo alternando uno stucchevole ottimismo (“sarà sicuramente un anno fantastico!“) ad inquietanti previsioni. Credo abbiano rispolverato una quartina di Nostradamus che profetizza altri cento anni di pandemia, mentre nei talk show noti intellettuali liquidavano la democrazia liberale (“bisogna aggiornare il concetto di libertà individuale del XXI secolo”) e altre proiezioni davano l’economia mondiale in forte regressione (“livelli pari a quelli che seguirono la peste del 1348!”). In questo quadro ho trovato più saggio disinteressarmi e concentrarmi su problemi imminenti e assolutamente rilevanti per la mia persona. Insomma, domattina vado o non vado? E se vado, porto i vecchi sci?

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Ritorno al Futuro – arrampicata “trad” sulle pareti del Pal Piccolo

di Saverio D’Eredità

Trad, tred…o cosa?

Si chiama “Trad” si legge “Tred”, ma gli alpinisti di un tempo mi direbbero “alla vecchia”! Sono poi così importanti le definizioni e le etichette quando si fa qualcosa, soprattutto quando lo si fa per passione e un pizzico d’amore? Del resto, un vecchio trucco del marketing è proprio quello di cambiare nomi alle cose per farle sembrare nuove. Ma noi, che esercitiamo sempre e comunque il libero pensiero, non ci faremo trarre in inganno. Parlare di arrampicata “trad” sulle pareti del Pal Piccolo come fosse qualcosa di nuovo, in effetti, è solo una mezza verità. Perché tutto sommato qui la storia era iniziata proprio così. Con un pugno di dadi (all’epoca si trattava soprattutto dei mitici “eccentrici” oggi quasi del tutto scomparsi dall’argenteria alpinistica, anche se le fessure carniche li apprezzerebbero ancora…), un po’di sana follia e tanto pelo sullo stomaco. Oggi lo chiamiamo “trad”, ci siamo anche dati delle regole (è un po’un vizio dei nostri tempi), ma dovremmo sempre guardare le cose più per come sono che non per come vogliono apparire. E scoprire che in ogni storia nuova c’è un seme antico.

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The Blue Zone – nuova via in Creta di Mimoias

di Alberto Giassi

Qualche anno fa mi trovavo sulla parete della Creta di Mimoias per ripetere “Affinità e divergenze”, una delle linee più belle di questa poco nota parete carnica. Poco nota, ma senza dubbio tra quelle che riserva la roccia migliore, in un angolo particolarmente pittoresco e nascosto, ma di una bellezza che ti rapisce. Nei momenti di sosta lungo la via mi guardavo attorno chiedendomi se su una parete così bella ci fosse ancora spazio per una piccola avventura in apertura.

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Il tracciato della via

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Spesso disegno linee immaginare, ma poi nel concreto le lascio li dove sono, forse per paura di rimanere deluso. Quest’estate siamo tornati a scalare in creta di Mimoias con Andrea Polo e “Pierin” Piero Surace e rivedendo la parete mi sono deciso. Appena una settimana dopo ero nuovamente alla base con macchina fotografica e binocolo, per vedere se potesse essere una buona idea oppure no. In un giorno di meteo – come spesso quest’estate – “ballerino”, complice l’entusiasmo irrefrenabile di Pierin siamo saliti con armi e bagagli e abbiamo cominciato. Neanche a dirlo, la parete ci ha salutato con una lavata ciclopica….

“eh bon toccherà tornar!”

Ormai la giostra era partita. Lasciamo nascosta la ferramenta e scendiamo. Due settimane dopo, grazie ad un allineamento astrale stravagante torniamo su, questa volta in tre: il sottoscritto, Pierin e Lorenzo Michelini. E, come da tradizione, con il meteo sempre incerto…

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Alberto Giassi in sosta

Salgo fino al punto raggiunto la volta prima e faccio salire i compagni. Tocca a Pierin dare sfoggio della sua arte arrampicatoria utilizzando i suoi chiodi fatti in casa e posizionando gli spit. In sosta gli amici se la ridono… il colore della roccia è azzurro come il cielo terso. Ma solo per il momento.
Infatti, quando tocca a me salire l’ultimo tiro devo muovermi il più veloce possibile: ovviamente il bel cielo blu che ci accompagnava ora è coperto e comincia gocciolare. I miei compagni di cordata mi raggiungono: giusto il tempo di organizzarci per la doppia che comincia a piovere. Per ironia è proprio la maledetta pioggia che ci ha perseguitato in quest’avventura a suggerirci il nome da dare alla via. Calandoci, infatti, ci accorgiamo che la roccia, bagnandosi, rivela un fantastico colore bluastro che come un alone si espande nella parete. Una magia che solo la pioggia ha potuto svelare, in fondo un piccolo premio alla nostra costanza. Battezziamo quindi con “Blue Zone” questa porzione di parete che ci ha lasciato la possibilità di disegnare la nostra linea.

Creta di Mimoias – Avancoropo N/E mt.2066

The Blue Zone

Primi salitori: Alberto Giassi, Piero Surace, Lorenzo Michelini – estate 2019

Lunghezza: 110 mt

Difficoltà: 6b (gradi da confermare) /S2

Note: la via attacca 50 mt a dx di “Affinità e Divergenze” e risulta attrezzata con spit da 10mm. Tutte le soste sono attrezzate con 2 spit e cordone, anche per calata.

Per accessi, schizzo della via e discese: vedi guida cartacea E. Zorzi, S. D’Eredità, Alpi Carniche Occidentali, 2018, ed. Alpinestudio, pag. 50.

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