LILLUPUZIANI AL MONT-BLANC – Capitolo I

di Saverio D’Eredità

Prologo

“I viaggi di Gulliver” oltre ad esser il titolo della famosa opera parodistica di Swift, è anche il nome di una nota ed ambita via di arrampicata sul Grand Capucin. Ora, non è della via di arrampicata che voglio parlarvi, anche se già posso immaginare il sorrisetto bavoso del lettore morbosamente a caccia  di informazioni, foto, corpi atletici tesi nello sforzo di tirare una bella fessura di protogino o leggiadramente adagiati come farfalle su placche dall’aspetto impraticabile.

Diciamocelo, c’è una buona dose di voyeurismo in tutto ciò. E il sottoscritto non intende certo sottrarsi a questo peccatuccio veniale. Tutto sommato, ci è andata bene: potevamo essere dei depravati navigatori notturni di sito porno e invece siamo dei semi-ossessivi navigatori (indifferentemente diurni o notturni) di gallerie fotografiche di arrampicata. Niente di illegale, sebbene ugualmente tossico e generatore di dipendenza mentale.

Ora, tornando ai viaggi di Gulliver devo dire che, allontanandosi dalla stretta esegesi del testo, a me personalmente ha sempre affascinato maggiormente quel simpatico e bizzarro popolo di Lilliput protagonista della prima parte del libro. La figura relativamente gigante di Gulliver non era poi chissà che sbalorditiva proprio perché – relativamente parlando – non era la sua altezza ad essere eccezionale, quanto la minuscola dimensione dei lillipuziani e allo stesso modo una loro certa sfacciata insolenza. Gran personaggi, questi lillipuziani: non si scompongono davanti al fenomeno Gulliver, ma subito iniziano a ragionare sul come sfruttarlo.

Andando in giro per i monti, l’allegoria dei lillipuziani mi è frequentemente tornata in mente: siamo del resto, noi tutti, dei degni rappresentanti di quel popolo. Sfrontati, arroganti, cocciuti ed ambiziosi. Eppure minuscoli, infinitesimali rispetto alla grandezza della natura. Piccoli esemplari che si sforzano di pareggiare se non superare l’immensità dei monti o che traggono da questa stessa grandezza la misura del proprio ego. E per raggiungere questo bieco obiettivo si ingegnano si attrezzano discutono tutto per incatenare il gigante domarlo e usarlo contro fantomatici nemici.

L’importante – nella vita come nell’alpinismo – è non fossilizzarsi. Ragion per cui, colte alcune notevoli e demoralizzanti batoste da inizio stagione in casa nostra (principalmente in Carnia, terra già ostile ai tempi dei Romani, del resto), abbiamo deciso che fosse proprio l’anno giusto per dedicare una visita all’agognato Ovest delle Alpi. La decisione, in realtà, è stata frutto di alcune tragiche coincidenze, per di più perversamente forzate da noi stessi. Inconsapevoli di andare incontro ad una probabile “Caporetto” alpinistica avremmo potuto cogliere qualunque segnale o pretesto per modificare i nostri piani. Il meteo, ad esempio, non certamente stabile. O forse il fatto che l’ipotetico incontro con gli amici aspiranti guida di fatto fosse irrealizzabile. Invece, con quella diabolica pervicacia che ci spinge agli errori in maniera tanto fatale quanto prevedibile, sia io che Stief siamo riusciti a metter in campo di tutto pur di non smentire ancora una volta noi stessi e arrenderci all’evidenza di essere solo dei gran proclamatori di spedizioni alpinistiche.

Arti diplomatiche, sotterfugi a lavoro, qualche promessa di troppo ed un sostanziale, imperdonabile, eccessivo ottimismo sono la miscela adoperata per poter condurre non solo noi stessi, ma anche le rispettive compagne in quel di Chamonix, capitale mondiale dell’alpinismo o come diceva il buon Twight, le cui letture hanno fatalmente influenzato la scelta delle vacanze estive “capitale mondiale degli sport letali”.

Letali, anzitutto, per la nostra psiche e l’equilibrio delle relazioni sentimentali. Infine letali per l’autostima ed in ultima istanza potenzialmente letali anche dal punto di vista fisico.

Perché, ripeto, l’importante è comunque non fossilizzarsi. Che senso avrebbe provare e riprovare lo stesso tiro nella stessa falesia di sempre? E quale soddisfazione nel toccare sempre lo stesso calcare, dolomia o ghiaione verticale? Tutto sommato, l’alpinismo è curiosità. Una curiosità un po’malsana e un po’romantica, comunque senza scopo o secondi fini. E per questo più pura.

Ecco perciò che dopo anni di allusioni e ammiccamenti, di progetti non svelati e confessioni a metà, il dado è stato tratto. A costo di andare solo a far due passi in centro, andremo a Chamonix! Andiamo ad accarezzare questo “protogino più bello del mondo”, meravigliandoci della sua aderenza, nonché del sicuro contrasto estetico generato dalle sue tinte rossastre con i nostri abiti turchesi e canarino.

Andiamo, quindi, ad incastrare i nostri friends nelle fessure da Dio create per la loro perfetta efficacia. E con lieve, veniale autocompiacimento, indugeremo su un passo atletico per la bellezza della foto già pensando che ashtag darle al rientro a valle. E poi giù tutti con l’ultima funivia a goderci lo struscio della rue Paccard o buttare un occhio a luccicanti vetrine. Indovinare i progetti del gruppetto a fianco a noi al bar mentre la birra scende rendendo più immeritata questa nostra presunzione.

Cresta Midi Plan - sullo sfondo le Jorasses (Foto S. D'Eredità)
Cresta Midi Plan – sullo sfondo le Jorasses (Foto S. D’Eredità)

Chamonix, pomeriggio, fine giugno e la pioggia.

Sto cercando l’indirizzo in mezzo ad una folla disordinata ma immancabilmente griffata lungo la Rue Payot. Payot, Paccard, Balmat…E poi ancora Argentiere, Verte, Drus, Montenevers. Tutti nomi che rimandano alle pagine ormai consunte della guida. Ma che qui, ora non servono proprio a nulla.

Chamonix…bah”, dico tra me e me con sufficienza.

Mi piace fare il misantropo, supponente ed asociale in situazioni come queste. Mi consente di consolidare una posizione che non potrei altrimenti ambire. Ma guardatevi, stretti in costosissimi polartec ma in bermuda per essere alternativi, guardatevi miseri pseudo alpinisti sembrate di ritorno dai Drus invece al più avrete fatto il biglietto di andata e ritorno con il trenino di Montenvers!

Ah, Chamonix. Da noi, nell’angolo nord-orientale delle Alpi, queste cose sarebbero ridicolizzate. Ma sì, vantatevi pure del vostro guscio Millet appena riscattato a strisciate di carte di credito. A cosa vi servirà mai, qui, nel centro cittadino? Per passare dalla brasserie alla creperie?

Ecco, trovato…numero 8. Corte interna. Mi riparo sotto una tettoia mentre l’occhio allenato sempre ad identificare il capo tecnico in qualsiasi vetrina già mi suggerisce di voltarmi per cercar cartellino e prezzo. Tanto so che non comprerò nulla qua. Però, mi dico, un bel paio di pantaloni. Già. I miei sono un po’strappati. Poi quella toppa. 150 euro. Lasciamo stare.

Guardo meglio. Non è l’unica vetrina. A destra, a sinistra, in fondo alla strada e all’angolo della piazza. Millet, Montura, North face, Salewa, Patagonia. Ufficio delle guide. Libreria specializzata. Negozi di scarpe. Escursioni guidate. Trova l’errore: manca un panificio, forse anche una banca. O un supermercato!

Non ci sono dubbi. Siamo arrivati a Disneyland. Siamo nel paese dei balocchi e io sono pronto a recitare la parte di Pinocchio.

“E quindi? Dove sta la fregatura?”

 Dovremo pure ammazzare il tempo prima che la “Premiere benne” parta. Siamo qui da un’ora e mezza ed ogni minuto che passa frantuma i diversi progetti alpinistici. Del resto, già ieri sera usciti dalla paninoteca in mezzo ad una pioggia senza speranze, avevamo capito che la giornata successiva sarebbe stata, ben che fosse andata, “introduttiva”.

Ma sì, prendiamo un po’ le misure, diamo un occhio alle condizioni e poi decidiamo”. Con questa considerazione molto “leggera” e piena di ottimismo ci eravamo lasciati dandoci appuntamento alle 7 davanti alla biglietteria. E poi “dare un occhio alle condizioni” fa molto alpinista navigato e noi qui stiamo cerando di entrare nella parte.

Certo, per essere a Chamonix (quindi già in montagna, senza ore di macchina davanti a noi) e per giunta in procinto di prendere una funivia la sveglia non è che sia stata molto comoda. E già la situazione puzza di fregatura. Ci rigiriamo per le mani il biglietto che ci consente 3 salite in 7 giorni chiedendoci quale accurata strategia di marketing consenta ai gestori delle funivie di Chamonix di regalarci una salita e mezza. L’ora e mezza passa come una mattina di lavoro senza troppe scadenze, tra caffè, un occhio alla guida e un orecchio ai discorsi degli altri pretendenti alle altezze purissime. Nel frattempo “il listone” si era ridotto all’osso ed ad ogni quarto d’ora mancato saltavano nell’ordine la cresta Midi – Plan, la Contamine-Grisolle, la Rebuffat “quella facile”, lasciando in piedi la Goulotte Chéré e la cresta del Cosmiques. Quest’ultima poi, da me particolarmente svalutata. L’avrò vista centinaia di volte in foto di blog, siti, face book e volantini, trovandola decisamente insignificante. Una cresta che parte in discesa e finisce al punto di partenza. Che cresta è? Un giro col cane piuttosto!

Si vede che veniamo dall’est. Senza un’ora e mezza di avvicinamento e 1000 di dislivello non è neanche montagna. “Roba da mezza giornata” si direbbe. Quindi neanche degna di nota. Non sono mica così scemo da farmi 600 km per una crestina di terzo grado! Infine, la funivia parte forando le nubi, sollevandoci sopra agghiaccianti rigole di ghiaccio. Come bambini davanti alla vetrina dei dolci non facciamo che girarci, affollando di nomi la cabina pressata fino all’ultimo posto.

Bon journee!” urla il manovratore mentre una onda endogena ci spinge fuori all’aria e al sole dei 3800 più famosi del mondo. Un piede fuori dal cancelletto e il mondo di souvenir, cartoline, e giapponesi è alle nostre spalle. Qualche turista ci scatta delle foto. Tra poche settimane saremo su qualche salvaschermo in un ufficio di Seoul. Ma noi ora siamo qui,un piede ancora nel mondo dell’ipotizzabile, un altro sulla “Midi-Plan”. I Lillipuziani sono arrivati!

100_6240
Sul pendio della Pointe Lachenal – foto S.D’Eredità

Superiamo baldanzosi alcune cordate già impacciate con asole e cordini e ci precipitiamo nel grande pianoro del Col du Midi. Ci guardiamo attorno come fossimo arrivati all’Eldorado, o forse nella via principale di un quartiere a luci rosse. Bionda o mora?Cresta di misto o parete di roccia? Nel dubbio potremmo andare su e giù per questa piazza del mercato tutta la giornata, bloccati nell’imbarazzo della scelta. Dopo un rapido consulto (oggi, del resto, siamo qui per “vedere le condizioni”) decidiamo di lanciarci in un concatenamento dal sicuro effetto allenante: Punte Lachenal e – visto che oggi stiamo giusto gustando l’aperitivo – cresta del Cosmiques. Ovvero l’unica maniera ragionevole per calcare quella minuscola porzione di M.Bianco.

Ci inoltriamo quindi in oltre 30 cm di polvere che chiamano un paio di sci mentre noi stiamo già cominciando la lista delle cose “che avremmo dovuto fare”. Ad esempio portare le tavole e scivolare per la Valleè Blanche. Certo, la nostra auto è già una polisportiva, potevamo ben aggiungere anche l’attrezzatura per due curve! Intanto che ci lambicchiamo con le possibilità sci alpinistiche sorpassiamo pachidermiche cordate di cinquantenni franco-germanici che puntano alla scontata cresta del Cosmiques. Ci dirigiamo sicuri attraverso il pianoro del Col du Midi verso l’altrettanto piccola e lillipuziana anch’essa cresta delle punte Lachenal. Un giocattolo per qualche ora di svago e “provare i ramponi” diciamo, con il vantaggio di essere un po’più staccata dalla calca della Midi e almeno di raggiungere una pseudo cima e non una ringhiera!

Snobbiamo l’attacco di sinistra per andare al sodo: un temibile pendio di 50° alto penso 80 metri. Arrivati alla base comincio a salire a passo svelto e sicuro del fatto mio: che sarà mai questo scivoletto da garage, assomiglia al canaletto dell’Ursic o decine di altri pendii delle nostre Giulie. Sfigati occidentalisti: bardati come astronauti per 100 metri che da noi si farebbero fare al principiante. Dopo 30 metri rallento il passo che il pendio si impenna un po’. Dopo altri 20 appoggio la picca e faccio finta di rifiatare. Altri tre passi e Stief da sotto osserva che anche tirar fuori la seconda picca non farebbe schifo…

Il modesto pendio presenta uno strato insidioso di neve fresca appoggiata ad una lastra dura come marmo e ci costringe ad essere meno distratti e più concentrati. Nondimeno, per cercare di mantenere il contegno tengo comunque un passo sostenuto che mi fa arrivare in forcella con le pulsazioni al cervello già abbastanza accelerate. Non male come inizio! L’ambiente si fa subito molto “Mont-Blanc”: i seracchi del Tacul penzolano sopra canaloni tetri e minacciosi. Tra le nebbie spunta il “grande cappuccio” che da qui avvalora il suo nome, rendendolo fascinoso, austero ed intrigante. Che montagna superlativa. Do invece un distratto sguardo al nostro “crux”, ovvero un camino di misto alto una cinquantina di metri che ci separa dall’agognata vetta.

Nella guida si parla di un camino di 4a “sostenuto”. Che vorrà mai dire 4a sostenuto ci chiediamo, piuttosto sbruffoni? Si sa, i lillipuziani difettano in modestia, ragion per cui visionato con sufficienza il nostro tiro chiave (in realtà l’unico tiro!), ci portiamo alla base dove, con grande orgoglio ho modo di allestire in 10 secondi una sosta a dadi che mi fa urlare di piacere.

Guarda Stief, che roba! Guarda come entrano i dadi qui!”.

“Eh-eh, caro mio, Mont-Blanc!” sogghigna Stief.

Sembriamo due uomini del medioevo eccitati di fronte alle conquiste della modernità. Esaltato da cotanta abilità tecnica decido unilateralmente che il tiro sarà mio e con piglio esperto, appoggiate le picche sulla spalla e faccia da navigato scalatore di misto mi accingo ad affrontare il “camino sostenuto”.

Il camino sostenuto della Pointe Lachenal  (foto S.Salvador)
Il camino sostenuto della Pointe Lachenal (foto S.Salvador)

Svariati quarti d’ora dopo la mia posizione non è mutata sensibilmente: dopo aver indagato come approcciare il camino sulla destra (“mi pare verglas…eviterei”) quindi al centro (“ma qui mi pare strapiombi, meglio non cercar rogne”) infine un po’a sinistra dove una fessurina più profonda sebbene sporca di neve corrisponde maggiormente al mio criterio di scalabilità. Questo misto è proprio una rogna. Sembra tutto facile e tutto difficile al tempo stesso. Da noi quando vedi la neve che si appoggia capisci che la parete è poco inclinata e quindi facilmente salibile. Qui la neve quando si appoggia rende tutto indecifrabile. La realtà – durissima da accettare – è che mi trovo pochi metri sopra la testa del compagno, ma avendo già sfilato una decina di metri di corda in aggiramenti e tentennamenti vari e soprattutto alla mia cintura sono rimaste ben poche munizioni. Partito con un sufficiente “dammi un tre rinvii, due friend e due dadi…ma sì anche tre” mi ritrovo ad aver quasi esaurito le mie scorte di protezioni tutte ingegnosamente posizionate a far angoli e attriti già ingestibili.

Quanto corda ho?” – chiedo a Stief, sperando in un ribaltamento delle leggi della fisica e della geometria e di sentire un rassicurante “poca corda, fai sosta!” che mi toglierebbe da impacci ed imbarazzi. Invece sto appena adesso esplorando le viscere del camino dove nel frattempo mi sono accucciato come un cucciolo impaurito e mi sembra di aver già meritato la birra.

Ma vediamo la situazione da un punto di vista oggettivo. Il camino si presenta verticale e vagamente a diedro. I bordi sono lisci, ma ben fessurati. Conto le munizioni. I due friend sono ancora alla mia cintola. Posso contare su dei moschettoni sciolti e dei cordini. Ce la posso fare. Mi volto verso Stief e gli comunico la mia risolutezza, convinto che sicuramente su una classica del genere troverò file di chiodi come i segnali luminosi nei corridoi degli aeroplani.

Affronto il camino, picca sulla spalla, ramponi che grattano, mano a pulire ogni anfratto sotto il quale si celano grosse e rassicuranti lame. A tratti la picca viene usata quale primitivo arpione di un ipotetico dry tooling. Di più, mi sento come Joseph Knubel e George Mummery sulla fessura del Grépon. Funziona. Potrei usarne due. Piazzo un friend “tanto su trovo la sosta” mi dico consolandomi. L’ultimo rinvio è giocato.

Entro nel trip. Penso a Mark Twight impegnato sulle Pelerins che spacca piccozze al ritmo di due salita, ma senza colpo ferire sanguinante e allucinato scala fino alle ultime forze, al rigetto fisico, sputando sangue e catarro a colpi di “Fuck!”. Da un momento all’altro dovrei vomitare e poi spremermi un gel in gola. Invece no, esco nella maniera più inelegante possibile dal fottuto camino (5 metri appena) sul terrazzino della sosta che non c’è.

Lo scenario cambia ancora. Non chiedo a Stief quanta corda manca. Non guardo quanti colpi ho in canna. Un friend, altri 30 metri di camino e un cordino lungo. Sopra il terrazzino la fessura riprende chiusa tra blocchi un poco aggettanti.

Il camino oppone un’ultima difficoltà” mi dico, quasi recitando la parte di me stesso. Erano anni che volevo scrivere qualcosa del genere. Quindi, ormai nel pieno del ruolo che ho deciso di recitare mi do da fare, pensando che in un luogo del genere almeno un qualche spuntone, fuori da questa strozzatura, dovrei pur trovarlo! Mi alzo, con una certa involontaria tecnica, su piccole tacche per i ramponi. L’ultimo friend entra tra due lastre malsicure, suonando come uno straziante addio. Mi rovescio oltre la strozzatura un po’di gomiti un po’di ginocchio quindi alzo gli occhi sperando di trovare la soluzione che a questo punto credo fermamente di meritare.

Invece davanti a me si palesa una realtà ben diversa (erano anni che volevo scrivere “davanti a me si palesa” penso). Il camino si trasforma in ripido canale di neve fresca senza spuntoni, senza chiodi e io sono…senza niente. La lingua è di pezza, la gola riarsa dopo questi 40 minuti di strenua lotta. Stief, sotto di me, sembra un omino del lego, tanto fissa è la sua posa nell’atto di darmi corda. Sono ufficialmente fottuto.

Eh sì, perché il me che non sono a questo punto scriverebbe: “Ecco quindi che un’unica soluzione si offre quale via d’uscita da una situazione delicatissima. Decido di tirare dritto fino alla fine della corda e del camino. Sono senza protezioni. Un lungo run-out su terreno misto ripido e difficile mi impegna al massimo della concentrazione. È un viaggio in cui esploro le potenzialità della mente” e bla bla bla.

Il me reale, il me “fottuto”, “fuck”, “putain” e “scheisse” che dir si voglia invece si guarda attorno a metà tra l’incredulo e l’incrodato. No, dai, penso. Non può essere. Siamo in vacanza, siamo a Chamonix, siamo su una vietta. I dadi entrano che è un piacere e tra un po’allegre cordate di guide e clienti ci supereranno facendosi dei selfie. Non può finire male, mi dico. Ok, fine dello scherzo ragazzi, tirate giù le luci di scena, entrino i macchinisti, i truccatori e i runner. Smontate il palco, il numero è finito. Spogliatemi, toglietemi gli abiti di scena. Voglio andare a casa.

“Come va?” sale la voce di Stief dalla sosta, psicologicamente anni luce dalla mia posizione di merda.

Ho chiamato a raccolta tutti. Mi sono sentito come Giampiero Grassi all’attacco che scrutava linee effimere. Ero Mummery con sobrio humor nel camino delle bestemmie. C’era Twight con sguardo da pazzo bavoso e tirarmi sulle piccozze. E ora? Ora, dalle mie letture, dai miei libri ordinatamente allineati per nome, per epoca, per genere, chi, chi mai potrà sbucare? Quale Gulliver salverà il lillipuziano sperduto?

La montagna ha il valore dell’uomo che vi si misura…” la voce arriva da lontano. Mi sento pervaso da una sicurezza crescente.

“L’alpinismo è una scuola durissima, ma schietta e onesta”…ecco,sì. So chi mi sta parlando. Un uomo, il volto segnato dalle rughe di una vita, i capelli candidi e folti, gli occhi mobili e curiosi mentre muove le mani sembrando che le legga, mi guarda e mi biasima. No, forse ancora no. Vuole solo darmi dei consigli. È walter, è lui! Come non averlo ricordato prima!

Se sono qui lo devo a lui. E sono ancora qui lo devo nuovamente a lui.

Walter mi osserva e scuote la testa. “La montagna mi ha insegnato a non barare, ad essere onesto con me stesso..” continua  a ripetere. Ok, Walter, sono d’accordo con te però mi potresti per favore dire come ne esco di qua?

“Ma se lo sai benissimo!” mi dice severo. “Pensa al Dru!”

Il Dru! Cribbio! Come non averci pensato prima. Walter si volta verso l’alto e scompare oltre uno spigolo controluce. Ma certo, al lazo!

Il mio lungo cordino giallo, di una misura odiata da tutti i miei compagni di cordata, avrà il suo momento di gloria. Guardo a sinistra oltre il bordo del canale dove una sorta di lama sembra foggiarsi a mo’di spuntone. In goffo equilibrio sui bordi del canale prendo il cordino e inizio i tentativi di lancio del lazo. Due, tre, falliscono. Eppure so che quella sarà prima o poi la mia sosta. Al quarto tentativo la lama abbocca all’amo. Il pesce è mio e non lo mollo. Un’ultima mossa è rischiosa: ora mi trazionerò al cordino, sbandierando. Sono fiducioso. L’ha fatto Bonatti al Dru!
Sbandiero e mi ristabilisco con una ginocchiata. È fatta! La mia stupenda sosta appesa nel camino di quarto è allestita. E posso invitare Stief a raggiungere la mia invidiabile posizione.

Toccherà a lui l’uscita scenografica in vetta e già lo invidio per due cose. Uno perché lui sicuramente avrà un tiro più bello e viaggerà verso il sole. Due perché prudentemente si è preso tutti i rinvii e la ferraglia possibile. Ciononostante avrà il suo bel daffare. Prima salendo nella neve fresca semiverticale, dopo per superare un masso incastrato piuttosto strapiombante dal quale pioveranno prima una gragnola di ghiaccio quindi un po’di imprecazioni. Infine la corda sfila rapida, e la sua voce scompare nel vento. Siamo in punta!

La cosa bella del Bianco è che anche la più insignificante delle vette riesce ad essere in qualche modo “di soddisfazione”: sarà per l’incombente sagoma dei seracchi del Tacul. Sarà per il cielo blu cobalto che contrasta con i fili bianchi delle creste o per i grandi macigni di protogino che aggiungono tocchi di colore. Così questa inutile cima ci riesce persino gratificante. L’ora lo sarebbe stata meno. Tanto più che la cresta dei Cosmiques comunque stazionava in fondo alla mia lista e quindi senza troppi rimorsi avremmo preso la via del ritorno, non senza prima aver dimostrato al mondo degli alpinisti salutisti che avremmo ben potuto pure rollare una cicca in cima alla schiena spacca polmoni della risalita della Midi.

Siamo nel pieno delle forze e con un notevole margine. Fate entrare le portate principali!

100_6245
Pointe Lachenal – foto S.D’Eredità

Una risposta a "LILLUPUZIANI AL MONT-BLANC – Capitolo I"

Lascia un commento