Alpi Giulie e Carniche Orientali

di Saverio D’Eredità ed Emiliano Zorzi

(dall’introduzione alla guida “Alpi Giulie e Carniche Orientali – Alpine Studio, 2019)

Quando abbiamo dato alle stampe, appena tre anni fa, la guida “Alpi Carniche e Giulie” pensavamo di aver fatto del nostro meglio per rendere omaggio a queste montagne e invitare ad una loro scoperta. Non sospettavamo, però, che ci sarebbe stata data una nuova possibilità di perfezionare e ripensare quel lavoro dopo così poco tempo. Se la prima esigenza era quella di ristampare la guida, andata esaurita già nel primo anno, man mano abbiamo tuttavia maturato la convinzione di poter reimpostare completamente questo lavoro e cogliere l’occasione per offrire ai lettori non tanto una ristampa, quanto una nuova edizione. Come già preannunciato nel 2017 con la parte dedicata alle Carniche Occidentali, si è deciso di riequilibrare la partizione dell’arco alpino friulano (escluse le Prealpi) dividendo la parte di Carnia occidentale (dalla valle del But a Ovest) da quella orientale che confluisce, in questa trattazione, con la parte italiana delle Alpi Giulie. Seppur non rigorosa dal punto di vista geografico tale suddivisione consente un miglior bilanciamento complessivo. Da considerare inoltre che, sebbene Aip-Cavallo appartengano morfologicamente e geograficamente alle Carniche, il gruppo Sernio-Grauziaria può già considerarsi una piccola eccezione, dove ritrovare caratteristiche tipiche delle Giulie.
In questa nuova edizione abbiamo portato avanti l’idea di una guida che si avvicinasse quanto più possibile alla monografia, in qualche modo sulla scia della collana Monti d’Italia. Se quel livello di completezza è oggi pressoché irraggiungibile dato il numero davvero notevole di itinerari che si sarebbero dovuti inserire, nel nostro caso abbiamo cercato di mantenere l’approccio originario (ovvero una cernita, per quanto ampia, delle possibilità alpinistiche) integrandolo con un numero maggiore di dettagli ed informazioni.
Già con la guida “Alpi Carniche Occidentali” si era deciso di rimettere in primo piano le montagne rispetto alle vie su esse tracciate. Da ciò l’inclusione delle vie normali nel senso di salita, ad esempio, nonché di numerosi itinerari che – seppur non relazionati o ripetuti in prima persona – ritenevamo giusto segnalare per dovere di completezza. Con questo volume ci siamo spinti ancora più avanti.
Oltre alle normali, infatti, vengono segnalati anche percorsi non strettamente alpinistici (quali ferrate di una certa importanza o itinerari a cavallo tra escursionismo impegnativo e alpinismo); ci è parso più corretto, sia per ampliare gli orizzonti degli alpinisti invitando ad una conoscenza non limitata alla mera scalata, sia al fine di facilitare la lettura e fruizione della guida stessa. A ciò si aggiunge la grande quantità di informazioni relative ad itinerari presenti su una certa parete o versante dei quali si è dato puntuale riferimento bibliografico.
Ecco come, allora, questo volume tenda a differenziarsi ulteriormente da quelli precedenti con il tentativo di avvicinarsi al concetto di monografia. Queste note, che potranno apparire dettagli, possono diventare valore aggiunto nel momento in cui da un lato orientano meglio lo scalatore dentro la parete, e dall’altro lo stimolano ad intraprendere un percorso di ricerca anche all’infuori di essa. Chi non ha passato giorni (se non anni) a sognare di scalare una via o una parete divorando tutte le informazioni in suo possesso, stimolando la fantasia e l’immaginazione, componente essenziale dell’alpinismo? Siamo infatti convinti che proprio nella fase di studio e ricerca inizi la vera conoscenza della montagna: in questo senso l’aggiunta di queste informazioni vuole essere un invito all’esplorazione, anche personale, senza che la scelta – per quanta ampia, sempre arbitraria – degli autori finisca per condizionare l’esperienza alpinistica.
Rimangono invece i tratti distintivi che per noi, come autori, rimangono imprescindibili. La raccolta delle informazioni è sempre avvenuta direttamente sul campo (con le nostre ripetizioni) o attraverso compagni di cordata, amici o semplici conoscenti che ci hanno fornito relazioni e suggerito correzioni, ma sempre basate sull’osservazione diretta e il più possibile recente. La cura dei disegni, delle foto e delle descrizioni tecniche che vanno a comporre un unicum e che come tale invitiamo a leggere. Infine la ricerca di una certa uniformità di giudizio, cercando di contemperare il rispetto della storia, l’evoluzione delle tecniche e la percezione dell’alpinista con equilibrio, ma senza risultare asettici. Non si può infatti ignorare che negli anni le valutazioni e la sensibilità degli alpinisti sia cambiata di pari passo con il progresso tecnico, dei materiali e delle maggiori conoscenze. Al tempo stesso però si è cercato di mantenere un criterio di omogeneità, in linea con la storia, ma anche con l’evoluzione.

Il lettore troverà tra queste pagine molte possibilità. Dalle normali alle vie a spit moderne. Dalle grandi classiche alle vie di scoperta. Itinerari esplorativi dove mettere in pratica intuito e capacità alpinistiche ed eccezionali scalate dove misurarsi con le alte difficoltà e una concezione moderna dell’arrampicata. Non è stata solo una scelta, ma la fotografia esatta di queste montagne estremamente varie, per troppo tempo marginalizzate, ma che oggi sanno proporre all’alpinista una straordinaria diversità di esperienze ed approcci. Non solo nella tipologia di itinerari, ma anche e soprattutto negli ambienti e nelle peculiarità paesaggistiche che fanno di questo angolo nordorientale delle Alpi una perla di rara bellezza, forse oggi quasi introvabile nell’arco alpino.

Siamo tornati su queste pareti, con un entusiasmo e una voglia di conoscere e condividere per certi versi ancora maggiore del passato. I buoni riscontri degli altri volumi ci hanno stimolato a migliorare ogni aspetto di questo lavoro. Speriamo di ripagare sul campo i nostri lettori.
Avremmo voluto fare ancor di più, ma questo compito rischiava di diventare diabolico. Le Giulie nascondono ancora terreni di esplorazione che riportano al passato e offrono straordinari stimoli anche gli alpinisti di oggi e domani. Il nostro non è altro che un invito. Speriamo di vedervi ripercorrere queste montagne con passione e divertimento, e con la curiosità che dovrebbe essere sempre nello zaino di ogni alpinista.

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Oltre la paura – la raccolta di racconti di Nicola Narduzzi

di Saverio D’Eredità

Perché si scrive di alpinismo? Domanda ostica e scivolosa, la cui risposta è difficile tanto quanto quella che, logicamente, la precede. Ovvero, perché l’alpinismo?
Se le risposte ai “perché dell’alpinismo” sono tante almeno quanto i suoi praticanti ed appassionati, quella della scrittura dovrebbe (o almeno, potrebbe) percorrere strade più lineari. Invece così non è. Sembra anzi che le due domande siano complementari l’una all’altra, e la risposta (o tentativo) che vi si può dare ad una possa offrire un aiuto per approcciare la sua gemella.

Ne azzardiamo una. Si scrive di montagna anzitutto perché la montagna è essa stessa narrazione. Narrazione dell’ascendere e del tornare, di ostacoli e superamenti. Di un farsi Tempo e quindi Storia. Tutto lo svolgimento di un’ascensione ripercorre gli archetipi del “cammino dell’eroe” sul quale si fonda la struttura narrativa dell’epos. Il racconto della Montagna, o meglio sarebbe dire del dialogo tra Uomo e Montagna, richiama l’essenza stessa del narrare, in quanto ogni storia è di per sé movimento verso qualcosa, di un movimento innescato dal desiderio. Quindi scrivere di montagna sembra essere la naturale conseguenza dell’andare verso la montagna, la testimonianza di una presenza. Da qui la complementarietà tra il perché della scrittura e il perché dell’alpinismo.
Ma di cosa parla, oggi, il racconto di montagna?
Imprigionato nello schema consolidato del “récit“, questo genere non è stato capace nel tempo di evolversi e rinnovarsi, ripetendo invece moduli e linguaggi standardizzati. Ciò ha limitato fortemente l’espandersi della letteratura (e quindi la cultura) alpinistica alla stretta cerchia degli addetti ai lavori, chiudendosi in una desolante autoreferenzialità.
Se un tempo tutto ciò poteva ancora avere un senso, in quanto legato alla più vasta tradizione del racconto di avventura (le grandi esplorazioni dei “poli” della Terra, l’avvincente saga del sestogrado o delle spedizioni himalaiane), oggi par quasi che il semplice fatto dell’andare in montagna possa già di per sé un motivo per scriverne, senza tuttavia scavare in quella profondità interiore che la Natura ci suggerisce. Fatte poche eccezioni, anche gli esponenti di spicco del mondo alpinistico sembrano essere incapaci di trasmettere davvero le motivazioni, i sentimenti e il percorso umano e che muove l’intera esperienza alpinistica, limitandosi ad uno schema ripetitivo, spesso scontato e in fondo asettico.
Gli strumenti digitali e del web hanno spalancato le porte della narrazione ad una miriade di potenziali scrittori, ma ciò ha portato più ad un inflazione dello strumento che non ad una suo vero rinnovamento. Ci troviamo così oggi ad assistere al proliferare di memorie o biografie di “top climber” più o meno plasmate da esigenze di marketing da un lato (dove anche il reale valore di quelle che un tempo chiamavamo “imprese” risulta assai annacquato) e all’esplosione di bloggers, influencers e nuovi media che dispensano pensieri spesso di un livello di poco superiore a quello dei temi dell’elementari. Sempre però con un occhio all’autopromozione. Sconfortante.

Nicola Narduzzi appartiene alla schiera degli alpinisti della domenica, senza che questa definizione risulti spregiativa: parliamo di tutti coloro che frequentano la montagna per pura passione, senza scopi professionali o commerciali. E’quindi un buon rappresentante di una sorta di ceto medio (si passi la definizione) che oggi sembra essere evanescente, schiacciato tra il mondo dei “pro” e la miriade di narratori improvvisati che riversano su web poco più che il resoconto della gita. Ma con una differenza. Anzitutto perché Nicola è in possesso di una solida cultura alpinistica che gli permette di collocare i suoi racconti nella giusta prospettiva storica, omaggiandola e in qualche maniera interpretandola. In secondo luogo – dettaglio non scontato – sa “usare” le parole, scegliendole con quell’attenzione e cura che dovrebbe essere un pre-requisito prima di mettersi alla tastiera, non un optional.
E qui veniamo al punto. Nicola non parla “solo” di alpinismo. Ma parla dell’alpinismo (e della Montagna) come chiave di accesso ad un percorso introspettivo più complesso, in cui quella che superficialmente è una semplice, per quanto accesa passione diventa rappresentazione della vita stessa. Tenta quindi, Nicola, quella sintesi cui accennavamo all’inizio: ovvero di riportare la scrittura verso il senso stesso dell’alpinismo, cercando attraverso di essa di fornire le risposte alle domande che l’alpinismo pone. Nello scrivere, infatti, non solo si rivive la salita, ma si rielabora la persona stessa, le sue motivazioni, la sua proiezione nel mondo. Nella Montagna, Nicola non si “purifica” come una ormai logora visione di questa disciplina continua a trasmettere (Montagna=purezza versus Città=corruzione, Alpinismo=ideale versus Vita reale=compromessi e frustrazione), quanto piuttosto trasporta qui il proprio dissidio, la problematicità del crescere e del confrontarsi. E se non servisse a questo, l’alpinismo, a cos’altro? E lo scrivere, poi, non finirebbe per diventare puro esercizio retorico, o peggio autocelebrativo?

In bilico tra i due poli della spettacolarizzazione delle imprese o di un neo esistenzialismo di bassa lega, chi scrive di montagna troppo spesso ignora il proprio essere – semplicemente –  degli esseri umani: deboli, imperfetti, insicuri, incoerenti. In tutta la letteratura alpinistica vengono in mente pochissimi esempi di alpinisti/scrittori in grado di mettersi a nudo e mettere in discussione sé stessi, invece di celebrarsi. Giusto un paio, tra tutti: Steve House nel suo Beyond the Mountain e Andy Kirkpatrick con Psychovertical. Non a caso di scuola anglosassone. Quella italiana, ahimè, non riesce ad affrancarsi dal “bonattismo” come da un romanticismo rurale alla Corona.
“Oltre la paura” è un cammino. Dai primi innamoramenti alle illusioni e disillusioni. Momenti esaltanti. Paura. Tanta paura, che non viene né eroicamente vinta né sprezzantemente snobbata. Ma è presente, cammina accanto, sembra suggerire il percorso. E’ un omaggio alla storia alpinistica, magari ogni tanto un po’ troppo entusiasta, ma se ciò avviene è perché alle spalle c’è una passione davvero profonda e sincera.

Dai primi passi sulle pareti di casa al richiamo irresistibile delle grandi classiche, scorrono sotto le dita le ruvide rocce carniche e gli appigli dolomitici dove è stata scritta la storia. Marmolada, Civetta, Tofana, Bosconero, Mangart, Peralba: quello di Nicola è un pellegrinaggio devoto attraverso le “vie e vicende”, per citare una nota guida, che hanno costruito l’immaginario alpinistico di un ragazzo. In mezzo, quelle che all’apparenza sono digressioni “intime” fanno invece da collante all’intera struttura. Racconti, sì, ma con un “fil rouge” che non sarà difficile rintracciare.

Nicola ci offre una raccolta semplice, schietta, immediata. Il diario di uno come noi, uno come tanti, che ha cercato nell’alpinismo non tanto delle risposte – peraltro sempre sospese in una narrazione che coinvolge e cattura con empatia – quanto una visione di sé. Alpinismo come formazione del carattere, sebbene raramente compiuta. Nicola ci confessa che forse è ancora lontano dal realizzarsi. Che il cammino non è compiuto. Ma con l’alpinismo, forse, è un passo più vicino a saperlo.

 

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Il libro è disponibile al seguente link

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/biografia/477029/oltre-la-paura-2/

ALFABETO VERTICALE

ALFABETO VERTICALE:

l’alpinismo e il suo immaginario raccontato da Brevini

di Saverio D’Eredità

Ho sempre nutrito un po’di diffidenza nell’approcciarmi a titoli come questo, forse più per colpa di certi inappropriati sottotitoli. “Alfabeto verticale” (Il Mulino, 2015) di Franco Brevini riporta il fuorviante, per quanto accattivante sottotitolo “La montagna e l’alpinismo in dieci parole”. Normalmente diffido da tutto ciò che per sintesi, brevità o marketing riduce sistemi complessi e variegati in “dieci mosse”, il che fa il pari con le “100 migliori” delle guide o – in altri ambiti – estemporanee classifiche di quelle care a Nick Hornby, tipo i 50 dischi migliori di sempre. Tutti espedienti commerciali che appartengono alla grande famiglia delle “100 cose da fare prima di morire” per cui il mondo si riduce ad una lista (opinabile) dello scibile e possibile umano.

Pur essendo un libro che aspira ad essere divulgativo, l’autore riesce a divincolarsi agevolmente tra un registro lessicale comprensibile al grande pubblico senza per questo rinunciare alla terminologia tecnica e soprattutto evitando di cadere nella trappola della superficialità che spesso si associa al genere divulgativo:  questo del resto sembra essere spesso l’esito scontato quando si approccia la montagna e l’alpinismo con l’obiettivo di risultare accessibili, non facendo tuttavia che inflazionare l’immagine stereotipata di una montagna dai panorami “mozzafiato” immersa in una natura “incontaminata”.

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La spada del samurai

di Saverio D’Eredità

Scrisse una volta Dino Buzzati che se Walter Bonatti fosse vissuto ai tempi di Omero, le sue imprese ci sarebbero state consegnate oggi come un poema epico. Questa affermazione mi ha sempre colpito, forse perché più di altre riassumeva il senso dell’alpinismo di Bonatti ed in un certo senso conferiva ad esso una dimensione quasi mitica. Bonatti, del resto, stava al pari di altri miti d’infanzia come potevano essere Indiana Jones o l’Uomo Ragno, ma che a differenza degli altri poteva giocare una carta decisiva. Bonatti era vissuto realmente e le sue imprese sono pagine ancora oggi luminose della storia dell’alpinismo e delle montagne. Non solo. A differenza dell’Uomo Ragno potevo vantare la sua firma sulla mia copia de “Le mie montagne”, cosa che più che attribuire un particolare valore al libro, stabiliva soprattutto un indissolubile legame tra me e Walter. Credo sinceramente che i suoi racconti possano contribuire in maniera decisiva alla formazione del carattere, nella stessa misura di quelli di Conrad o della musica rock. Ecco diciamo che I “Giorni Grandi” stanno all’alpinismo allo stesso modo in cui  “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd sta alla musica degli anni settanta, un album che ad ogni ascolto sembra assumere ulteriore spessore, nuovi significati, altri echi, persino.    Il diedro sinuoso del Gran Capucin, la “candela” del Freney, il Pilastro Rosso, la Traversata degli Angeli sul Cervino o l’abside del Dru. Non so se fosse la sua abilità di scrittore o cos’altro, ma le montagne di Bonatti sembravano porsi in una regione sconosciuta e quasi fantastica, popolata di immagini talmente potenti da occupare totalmente l’ingenua fantasia del neofita. I “Giorni Grandi” segnarono così il passaggio della linea d’ombra, che dall’infanzia conduce alla vita adulta, svelandomi qualcosa che andava oltre la montagna verso il desiderio degli spazi, della ricerca, qualcosa di meno riduttivo e più intenso dell’alpinismo in sé. E che forse ne è l’essenza stessa. Sul fatto che fosse il più grande di tutti, credo ci sia poco da discutere. Era il più grande perché non serve l’elenco delle sue salite o l’accademico, ed in buona parte sterile, confronto sui gradi per restituire la cifra del suo alpinismo. Forse proprio perché alpinista, alla fine dei conti, non era: un viaggiatore, piuttosto. E prova ne è proprio quel “tradimento” che lo vide scendere dalla croce del Cervino per salpare verso diversi ma non per questo meno incogniti spazi. A differenza di altri, Bonatti è riuscito a sopravvivere al suo stesso mito ed è possibile che la cosa gli abbia provocato ancora più nemici, ma anche che una parte della sua grandezza risieda proprio nell’ammissione di aver trovato un proprio limite. E che lo ha reso, in fondo, un po’più umano. Continua a leggere