Mangart, nel giardino della luna

di Saverio D’Eredità

Occhio Sav che vado” – disse Andrea prima di allungarsi con una mano e sparire oltre il bordo del tetto.
Per qualche istante sia io che Stief credo ci fossimo sentiti come naufraghi abbandonati dalla nave dei pirati, non fosse stato per le corde che ancora ci univano, ondeggianti silenziose nell’aria lieve della sera. Proprio una strana ora, pensai, per trovarsi appesi ad un mazzo di chiodi dubbi dentro una fessura sempre più stretta e sottile. E vibrava tra noi quella sensazione inebriante e sconsiderata della bravata, come quando per la prima volta non torni a casa la sera senza un motivo particolare, ma solo per sapere che odore, che suono, che nome ha la notte.
La parete colava a picco nel buio, sprofondando lentamente. Solo le rocce ultime toccavano ancora il sole. Oltre quella cresta tra qualche istante sarebbe riapparsa la luna, a reclamare il posto che le spetta nel cuore del suo giardino. Dopodiché, lo sapevamo, la sua luce avrebbe coperto nuovamente la parete con una veste d’argento. Ed ogni cosa sarebbe tornata al suo posto. Ogni cosa avrebbe riacquistato senso.
E c’era un silenzio, sì, proprio un silenzio tondo e sereno. Nemmeno più i moschettoni tintinnavano, stanchi pure loro. Il bivacco sarebbe stata solo una conseguenza logica di quella giornata e dell’intera estate.
Da quante ora stavano scalando questa parete? O non era forse più corretto dire giorni, mesi se non anni?
Di sicuro da quell’alba, erano esattamente 28 giorni fa, in cui la parete ci apparve nuda qual’era, il giorno in cui una domanda rimase come sospesa, in bilico sul bordo della notte. Una domanda cui non avevamo ancora saputo dare una risposta.

***

Un passo fuori dal rifugio la notte era densa e profonda come un mare alto e nero. Procedevamo come una carovana spaurita di animali, guardinghi persino di noi stessi. Troppo spessa era la trama del bosco per poter procedere serenamente. Troppi fruscii, troppo silenzio. Troppi occhi che indagano e spiano dietro il buio. In silenzio, avanzavamo. Ma d’un silenzio tremante, quasi fosse lì per crollare come quadri di colpo nella notte. Solo il suono argentino della ferraglia appesa ai nostri imbraghi, intaccava il diamante perfetto della notte.
Schiariva. E si ritrovavano tra loro, alberi un momento prima fronteggiati come nemici, e i fili d’erba e certi piccoli insetti sospesi tra tele di ragni. Il giorno andava scoprendo le cose, una per una, così come esse erano in realtà. Senza vergogna.
Fu in quel momento che ai nostri occhi si mostrarono le due pareti. Una era fatta di luna, l’altra di sole. Come due immagini sovrapposte, l’una si dissolveva nell’altra: quale delle due era reale? Quale parete volevamo veramente scalare?
Solo poche ore dopo quella domanda si sarebbe riproposta, ossessiva, a noi quattro abbarbicati ad un terrazzino largo un piede ed appena un tiro di corda dalla base.

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Andrea Fusari impegnato sul quarto tiro del Pilastro Piussi, passaggio chiave della parte bassa della via – foto S.D’Eredità

Esistono molti tipi di rinunce. Ci sono rinunce dovute ad incapacità. Altre ancora a sfortuna. Alla mancanza di condizioni giuste. La lista potrebbe protrarsi all’infinito, ricondursi alle nostre scelte, il concatenarsi degli eventi e delle circostanze. Non c’è un’unica risposta. Più spesso ci accontentiamo di una sola, pur di evitare di cercarne altre, scavando dentro noi stessi.
Di certo sapevano che, quel giorno, non una delle giustificazioni poteva rispondere del tutto alle nostre domande. In un certo senso lo sapevamo già da quelle prime ore del mattino, dalla visone spiazzante della parete, da quella sensazione che erodeva da dentro ogni nostra certezza. Scoprendo che si può tornare indietro anche per qualcosa di diverso, che non sai spiegare. Una cosa che un tempo avrebbero chiamato incantesimo o maledizione e oggi noi vorremmo ridurre ad un dato tecnico ed oggettivamente verificabile. Ed invece quel giorno forse ci sentimmo di nuovo piccoli, piccoli come non ci sentivamo da tempo. Muti di fronte alla grande domanda di quella parete che, con il suo gioco di luci, si era resa ai nostri occhi invisibile.

***

È quasi giorno ormai. Il baluginio delle stelle s’è fatto meno vivido. L’aria stessa sta cambiando colore. Lentamente, come una macchia d’olio, si espande la nuova luce nel cielo, ridefinendo i contorni fedeli delle Ponze che ci hanno vegliato pazienti in questa notte.
Abbiamo culi di gomma, occhi di luna ed una sete infinita. Dall’altra parte del nostro misero spiazzo credo Stief mi stia osservando, sveglio anche lui, ma avvolto in questo silenzio che pare infinito.
La testa brucia come la brace di una sigaretta mille volte accesa e spenta nella notte. Quante ne avrà fumate Andrea? Ritto in piedi alle nostre spalle come una sentinella o un condannato, qua e là smuovendo un sasso per trovare una posizione stabile, un gradino orizzontale in questa colata di ghiaia che inesorabilmente centimetro dopo centimetro scivola giù sull’orlo dello strapiombo. Solo ora sembra aver trovato pace, Andrea, incartato nel telo termico che gli ho ceduto poco fa: il suo respiro profondo e regolare fa tornare anche a noi la voglia di dormire.
È quasi giorno ormai, ma che ore saranno? Forse le 5. Puntini luminosi si muovono ad intermittenza a poca distanza dal rifugio. Potrebbe essere la stessa identica scena di ieri, come di ventotto giorni fa, e come mille altre volte prima di noi. Una storia che si ripete, sempre uguale a se stessa e senza tempo. Qui dove il tempo è qualcosa che sfugge alle logiche usuali e pare esso stesso avere la forma dell’acqua.

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Federico Conta impegnato nella strapiombante sezionale sommitale – foto N. Narduzzi

Si respira un’aria strana, nel “giardino della Luna”. Questa pare essere l’arcaica origine del nome Mangart. Sarà per le foreste che lambiscono come un mare cupo le pareti verticali, chiuse ad anfiteatro attorno alla conca dei laghi di Fusine. Sarà per questo calcare d’argento, liscio e compatto, che acque millenarie hanno scolpito in muraglioni solcati da profonde fessure. Tutto è pervaso da un fascino magnetico e pregno di mistero, capace di attrarre e respingere al tempo stesso. Poche montagne riescono ad assorbire completamente i pensieri e l’azione come il Piccolo Mangart di Coritenza. Percepisci una vibrazione diversa, qualcosa che va oltre l’estetica della parete, dell’eleganza delle forme o dei colori. Non saprei dire se arrampicare qui sia più o meno bello o appagante. So solo che una volta toccata questa pietra le cose non saranno più come prima.

C’era qualcosa di più di una semplice via difficile o di un passaggio da trovare. Questa parete richiamava dal profondo le domande basilari che ci muovono verso gli altari della Natura. Ci aveva messo a nudo, come nuda essa si era mostrata in quelle ore dell’alba.
Siamo tornati, quindi, passando tiro su tiro senza quasi far rumore, ripercorrendo le tappe di un pellegrinaggio, attratti da quel magnete che ha stregato generazioni di alpinisti. Eppure anche oggi che ogni via è stata salita si respira ancora un’aria strana, nel giardino della Luna.
Siamo tornati. Perché si può ancora vivere una piccola avventura senza andare troppo lontano. Si può tornare ad essere come i primi salitori, anche se si tratta della centesima ripetizione. Le tracce lasciate, i chiodi arrugginiti dentro una fessura, un piccolo ometto. Sono tutti indizi di una grande storia che parte da lontano, passa attraverso di noi e prosegue oltre.
In questa lunga estate, in tutti questi anni in cui siamo tornati a guardarle una volta di più, abbiamo solo cercato di capirle più a fondo, per non fare spegnere quella fiammella che da generazioni spinge gli alpinisti ad uscire dalla porta di un rifugio, accendere la pila ed addentrarsi nella notte.
E per una forma di gratitudine. Verso tutti coloro che ci hanno preceduto, attraverso i quali abbiamo imparato a conoscerle, stupendoci forse più di quello che non era stato ancora scritto e che un giorno, ne sono convinto, si scriverà ancora.

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Parete Nord del Piccolo Mangart di Coritenza – foto S.D’Eredità

Pilastro Piussi – La via del ritorno

Arriva il momento, nella vita di un uomo, in cui si deve intraprendere la via del ritorno. Per quanto lungo e difficile e seducente sia stato il viaggio, per quanta fatica sia esso costato, la via del ritorno appare talvolta come l’unica possibile. Il suo effetto è taumaturgico. Ma intraprenderla può costare sacrificio. Impone di fare i conti con il proprio agire e le proprie scelte.
Chissà quali pensieri attraversavano la mente di Ignazio Piussi per le vie di Chamonix, una volta sceso dalla prima salita del fatale Pilone Centrale del Freney? E poi, si poteva parlare di prima salita? Di seconda? Era una cordata unica o due squadre rivali quelle che solo pochi giorni prima si contendevano gli esigui terrazzini della Chandelle? Per Ignazio, uomo poco incline alle sfumature e alle sottigliezze, ma schietto e diretto come tanti montanari di un tempo, questi discorsi sembravano senza senso. Certo, gli inglesi l’avevano giocata sporca. Ma tutto sommato a Ignazio non è che importasse poi tanto. Forse la cosa bruciava più a Desmaison, che a Chamonix era di casa. Ma a lui, il gigante buono delle Giulie, cosa importava? Piuttosto tutto quel chiasso, quel parlare, quel discutere e polemizzare. Quello sì, che gli stava facendo passare la voglia di tutto.
Partito da Tarvisio con un taxi pagato attraverso un’iniziativa che oggi chiameremmo “crowdfunding”, ma all’epoca era stata semplicemente una colletta per vedere il proprio eroe meritarsi la fama che gli spettava, Ignazio tornava all’altro capo delle Alpi con più domande che certezze. Certo, ora tutti riconoscevano la sua forza. Ora era una “star”. Il suo nome poteva stare accanto a quelli di Bonatti, Boninghton, Desmaison, Maestri…ma a lui importava davvero tutto ciò? Fama, successo, riconoscimento. Piussi non arrampicava certo per affermarsi. Lui che aveva iniziato ad arrampicare per istinto, su quelle pareti di casa così lontane da tutto, nel tempo di ozio dell’estati in malga, o durante battute di caccia che duravano giorni. Per lui, che considerava ogni scalata come un momento di condivisione tra amici, anche le più severe e difficili. In cui l’aspetto più importante era sempre e comunque quello umano, che si avvalorava nella Natura più selvaggia e misteriosa.

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Ignazio Piussi di ritorno dal Pilastro del Mangart, 13 agosto 1962

Il ritorno a casa era un ritorno al cuore delle cose. E sulle pareti del Mangart un pezzo di cuore ce l’aveva lasciato davvero. O forse sarebbe meglio dire che se un cuore avevano quelle muraglie fredde, ebbene, colui che aveva iniziato a farlo battere era stato proprio Ignazio.
Otto anni prima, nell’estate del 1954 in cui tutta Italia attende notizie dal Karakorum, una banda di ragazzi usciti dalle Miniere di Raibl si trova impegnata su una lavagna di calcare bianco e grigio che ancora non ha visto passare nessuno. Sono Ignazio Piussi, Lorenzino Bulfon e Alberto Perissutti. Il loro materiale è praticamente quello con cui andavano in giro gli alpinisti di 20 o 30 anni prima. Forse pure peggio. Di sicuro arrampicavano senza casco, una camicia e scarponi pesanti. Corda in vita e chiodi fabbricati artigianalmente. E vanno diretti al cuore della parete.

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D’inverno, in Alpe Vecchia – foto S.Salvador

All’epoca di vie, su quella parete squadrata ed enigmatica, ce n’erano appena due. Ma entrambe, come una forma di rispetto, molto lontane dal centro. A sinistra in prossimità dell’elegante spigolo che la chiude, erano saliti tre esponenti di spicco dell’alpinismo italiano. Gilberti, Castiglioni e Granzotto affrontarono per primi, nel 1931, quella roccia difficile, compatta, che permetteva un uso davvero esiguo dei chiodi e concedeva poca tregua a causa della sua conformazione. Niente a che vedere con la roccia articolata delle Dolomiti dove le linee di minor resistenza si offrivano con naturalezza all’occhio dello scalatore. Qui, al di fuori di profondi ed umidi camini tappezzati di muschio, bisognava intuire gli appigli tra placche biancastre intervallate da esili cengette. Un errore di valutazione poteva diventare un viaggio senza ritorno. Pochi metri in qua o in là e si potevano presentare difficoltà davvero eccezionali, per il livello dell’epoca. Nel 1931, ai bordi della grande parete, Celso Gilberti dà prova delle sue capacità fuori dal comune sfiorando il sesto grado, con una salita che poi sarebbe rimasta a lungo irripetuta. Ancora più a lungo sarà quella che apre con gli stessi compagni sulla repulsiva parete del Mangart “principale”, che avrebbe atteso più di 60 anni per esser toccata da mani umane. Ma torniamo al “Piccolo”.
Dopo Gilberti il silenzio viene rotto da un altro personaggio di rilievo dell’alpinismo friulano di quegli anni. Forse tra i primi a farsi notare al di fuori dei confini regionali e che – non a caso – entra nel gruppo del K2. È Cirillo Floreanini, carnico e padre spirituale dell’alpinismo friulano del dopoguerra, che nel 1949 sale sul margine destro della parete, dove un pilastro sottile ed incassato si incunea dentro la montagna stessa, in un angolo tanto remoto quanto repulsivo allo sguardo. La scalata è quasi opposta a quella di Gilberti e compagni. Dove i primi cercarono la linea estetica dello spigolo, Floreanini invece si “imbuca” in quel antro freddo e tetro, dove un colossale portale par quasi segnare il viatico per un mondo parallelo. La via della gola nord entra subito nella stretta cerchia delle più difficili e severe delle Giulie. Piena parete nord, assenza di sole, camini umidi e marci, roccia compatta, neve (sì, neve, anche se la cima sfiora i 2400 metri…). Immediatamente il metro di paragone diventa la Solleder-Lettembauer sulla Civetta. Rispetto a questa solo leggermente più facile, ma su roccia peggiore.

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Federico Conta sui primi tiri del Pilastro – foto N.Narduzzi

Ma stiamo girando attorno al problema. Floreanini stesso confesserà che la sua via è solo “esplorativa” per osservare da vicino l’essenza della questione. La parete e il Pilastro.
E proprio mentre Floreanini diligentemente fa spola tra i  campi dello Sperone Abruzzi, quelli che all’epoca erano noti come “i ragazzi di Cave” (che lo stesso Floreanini in qualche maniera aveva preso sotto la sua ala) si ritrovano in quella caratteristica banca inclinata a metà della parete nord del Piccolo Mangart. Erano arrivati al cuore del problema. E ci erano arrivati grazie ad un ragazzo la cui forza doveva ancora essere del tutto dimostrata. Quel ragazzo alto e muscoloso, mascella squadrata e animo gentile è Ignazio Piussi.
Proprio lui permette alla cordata di superare un ostico strapiombo con grande astuzia e capacità di lettura, dove già dimostra le sue eccezionali doti, non solo fisiche ma anche tecniche. Come chiodava Piussi, si usa ancora oggi dire in Giulie, nessuno mai. Quella salita diventa subito leggendaria e il nome di Piussi inizia a circolare nell’ambiente, ma a lui poco importa. La montagna è una via di fuga dal lavoro sfibrante ed alienante. L’alpinismo è ancora quella “cosa inutile” che si contrappone ad una vita dura, di montanari che hanno perso tutto e devono riadattarsi in un mondo che sembra non aver più spazio per una sapienza antica. Sembra paradossale eppure a ben vedere non lo è affatto. L’alpinismo di Ignazio è ancora un fatto del tutto personale, intimo quasi. Un dialogo tra lui e la montagna. Ed è un sentimento da “montanaro” prima ancora che da alpinista. La montagna è il suo ambiente naturale, vi si muove come un animale, d’istinto. Unito alla proverbiale forza e un carattere determinato ne farà uno dei più dotati alpinisti del tempo.
La parete nord del piccolo Mangart viene dunque superata per la prima volta “al cuore”, prima attraverso una fascia di strapiombi particolarmente repulsiva quindi lungo una fessura larga e spesso friabile dove da prova di agilità e leggerezza Lorenzo Bulfon. Con un bivacco sulle staffe i tre sono fuori da quella che, tempo dopo, sarebbe stata giudicata una delle scalate più difficili dell’epoca, almeno nelle Alpi Orientali. Otto anni dopo il Piussi che torna sotto quella parete è invece un uomo e un alpinista ormai maturo. Ma la salita del Pilone (come avrebbe avuto modo di confessare a Nereo Zeper nella bellissima biografia “Ladro di Montagne” scritta da quest’ultimo), è stata forse “la più brutta della sua vita”. Competizioni, strascichi, polemiche. Non fa per lui.
Lui che era nato sul fondo di valli silenziose, sotto quelle pareti che osservano come sfingi mute. Cosa vi era di più lontano da quel mondo dell’alta quota, esasperato e disumanizzante?
Ancora, torna l’incantesimo del Giardino della Luna. Perché l’alpinismo in Mangart riesce ad essere avvolto da questo misterioso fascino? Cosa riesce a renderlo unico nel suo genere? È vero, qui non ci sono i ghiacciai, la grandiosità delle seraccate, i missili di protogino che si stagliano nel cielo, il brivido rarefatto dell’alta quota. Eppure…

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Pilastro Piussi, in tutta la sua imponenza – foto E.Zorzi

Eppure al Mangart si torna. Si torna là dove le foreste di conifere difendono nel loro fitto le bianche pareti che stanno a guardia del silenzioso giardino. Dove il sole fa raramente visita con i suoi raggi, ma la Luna sa rendere ogni cosa irreale eppure viva. Bisogna andarci nelle ore che precedono l’alba, tra i prati dell’Alpe Vecchia e sentire quell’atmosfera sospesa, segreta, sintesi di una chimica del tutto particolare tra il mondo minerale ed il mondo vegetale. Quando entri nel cono d’ombra della parete, tutto assume un significato diverso.
Forse per questo Piussi si avvia sulla strada del ritorno, verso quella parete che l’ha allevato come alpinista. Come un atto di riconoscimento. E per risolvere uno degli ultimi “problemi” ancora aperti. Il Pilastro.

La parete del Piccolo Mangart può essere vista come un gigantesco trapezio delimitato a sinistra dallo spigolo Nord e a destra da una nervatura imponente. Questa si innalza direttamente dai ghiaioni con un pilastro dalla forma vagamente conica costituito da placche lisce e compatte e alto circa 200 metri. Questo pilastro non ha una vera sommità ma si “fonde” con il corpo della parete. Lo sguardo segue ora una linee di fessure sottili scolpite in quella lavagna di calcare: paiono indicare la strada verso la vetta, ma anch’esse si spengono sotto una fascia di tetti che formano una piccola scala rovescia. Riappare la sagoma del Pilastro, stavolta come ribaltato: la parte più stretta è quella inferiore, delimitata dai tetti. Verso l’alto questa struttura diventa più larga ed evidente, e va a sorreggere la larga cresta sommitale, segnandone il punto più alto. Settecentrocinquanta metri di parete, ora verticale, ora strapiombante, solcata da fessure profondissime intervallate a muri bianchi e slavati. Una delle strutture più impressionanti del gruppo del Mangart.

I ragazzi di Cave sono cresciuti, sono alpinisti esperti e hanno messo il “naso fuori”. Non solo Ignazio. Hanno preso le misure con le pareti delle Dolomiti e compreso il valore delle proprie scalate.
Solo pochi anni prima, sulla Scotoni, avevano scosso il mondo alpinistico con una ripetizione che da sola dava l’idea di quanto “margine” avesse Ignazio rispetto ai più grandi scalatori dell’epoca. Quella che al tempo rappresentava il riferimento delle difficoltà su roccia, almeno in Dolomiti, veniva quasi “divorata” da Piussi che “issa” (letteralmente!) Perissutti e conduce poi la cordata in cima. Il tutto senza trovare quelle difficoltà di ordine “eccezionale” che pure avevano dichiarato gli Scoiattoli. “E’ più dura in Mangart” sussurrò poi a denti stretti. All’epoca vigeva ancora un principio di “autorità” e tutto ciò che era marchiato dagli Scoiattoli (e in Dolomiti) era già di per sé considerato di un gradino superiore.
Ma torniamo al Pilastro.
Un tentativo era stato fatto già nel 1961, ma Piussi poi si ingaggiò nella “corsa al Pilone” e il progetto sfumò. Per Berto Perissutti in particolare questo rappresentava un punto d’onore. Di fatto la sua “carriera” sta volgendo al termine e sente il richiamo di un’ultima salita. A loro si unisce Vincenzo Bellini, presentato a Piussi da Carratù e che sarà poi compagno di Piussi in futuro.

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Andrea Fusari sulle placche della prima parte della via – foto S.D’Eredità

Il Pilastro basale è quello che da maggiori problemi di interpretazione. Come già detto, su questo tipo di struttura la questione è innanzitutto capire la linea giusta da seguire, individuando i punti di debolezza tra quelle lastronate verticali. Piussi in questo è maestro. La capacità di osservazione ed individuazione del percorso si accompagna ad una tecnica di chiodatura raffinata, sebbene non sovrabbondante. Un solo chiodo a pressione viene piantato da Piussi per risolvere il primo passo chiave: una placca quasi improteggibile e verticale, con appigli minimi. Tutto sommato, escluso questo unico “artificio” il resto è quasi tutto in libera e su difficoltà sostenute di sesto e forse qualcosa di più. I tre bivaccano alla fine del pilastro basale, ma nel recupero del sacco questo si incastra e si trovano a dover passare la notte senza viveri e sacchi da bivacco. E passare un’intera giornata per recuperarlo, scendendo e risalendo!
Dopodiché, Piussi innesta la sua marcia e la parete cede. L’arrampicata procede prevalentemente in libera lungo fessure ora larghe ora superficiali, fin sotto i tetti. L’ora si fa tarda, ormai al tramonto raggiungono il limitare dell’ultimo strapiombo che sbarra l’accesso alla sezione sommitale. Una nicchia che pareva da lontano offrire posto per un bivacco si rivela un misero buchetto e nulla più. Bisogna forzare l’uscita. Come un anno prima sul Pilone. Ma stavolta non ci sono cordate sopra la testa. Solo i tre amici, uniti dalla stessa corda, dagli stessi ricordi. Per Ignazio ed Berto è quasi un addio. Quest’ultimo non arrampicherà più dopo questa salita. Piussi supera l’ultimo tetto, sul far della sera. Questo tratto è superato quasi tutto in artificiale e i suoi chiodi sono ancora là. Una piccola conca di ghiaia offre il lungo ideale per l’ultimo bivacco. Il Pilastro ormai è sotto di loro.
Per molti anni questa rimarrà la salita più difficile delle Giulie. Le difficoltà originarie rientrano nell’ordine del VI/A2. Oggi possiamo dire che almeno un paio di passi solo di sesto superiore e l’ultimo tetto, se in libera, sfiora il settimo. Il tutto considerando la difficile proteggibilità del calcare del Mangart.
All’epoca le uniche salite comparabili in Giulie sono quelle di Ales Kunaver sulla Sfinge o sul pilastro della Site. Entrambe però di lunghezza inferiore. Buscaini, sulla guida Alpi Giulie, la mette in linea con la Scotoni e la Soldà in Marmolada. Ma, come abbiamo detto, sono i paragoni usati all’epoca in quanto la differenza nella tipologia di scalata è netta.
Passeranno 8 anni, numero ricorrente su questa parete come osserva Rudi Vittori in un bell’articolo di molti anni fa (8 tra la Parete e il Pilastro, 8 tra questo e il Gran Diedro, altri 8 prima di Lomasti….) prima che la storia del Piccolo Mangart venga riscritta. Ovvero quando Cozzolino sale il Diedro, l’oggetto del desiderio di una generazione, Piussi compreso. La salita di Cozzolino oscurerà in parte il valore della salita di Piussi sul Pilastro: i tempi stanno cambiando. Quella del Pilastro viene, in parte erroneamente, considerata una scalata di artificiale. Semplicemente appartiene ad uno stile che lentamente sta scomparendo dalle scene. Eppure bisognerà attendere 11 anni per la prima ripetizione di una cordata slovena. E la prima invernale sarà compiuta da nomi non casuali: Roman Benet, Nives Meroi e Alberto Busettini nel 1987 resteranno ben 5 giorni in parete, un’invernale d’altri tempi che dà l’idea delle difficoltà di questa via la quale, tutt’oggi, riceve ben poche visite. È vero: il Diedro ha dalla sua l’eccezionale estetica. Ma è il Pilastrola spina dorsale della parete.

La salita di Piussi esprime tuttavia qualcosa che oggi non è forse più comprensibile. E’ la via di un montanaro sulle sue montagne, dove si gioca una partita ad armi pari. Onesta. Diretta. Senza fronzoli. Dove un chiodo in più o in meno fanno la differenza tra un uomo vivo e un uomo morto, tra la razionalità e il rischio fine a sé stesso. Un alpinismo che rispettava talmente tanto la montagna nel suo profondo, che non aveva bisogno di codici, regole o etiche imposte.
Dopo questa salita, Piussi si rivolgerà nuovamente alle Dolomiti. Lo attendono quelle memorabili scalate che faranno di lui uno delle figure più importanti dell’alpinismo di quegli anni. Saluta dunque le Giulie. Le rivedrà molto tempo dopo, per un altro ritorno, quello che definitivamente lo riporterà a casa.

 

Bibliografia:

N. Zeper  “Ladro di Montagne”, Ed. Muzzio, 1997

Peter Podgornik, “Mangart”, Sidarta 2008

Gino Buscaini, Alpi Giulie, CAI-TCI,1974

S. D’Eredità, C.Piovan, E.Zorzi, Alpi Carniche e Giulie, Alpine Studio 2016

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