A piccoli passi

di Saverio D’Eredità

La prima volta sono tornato a casa senza cima (peggio ancora, fermandomi sull’anticima: respinto da un ingorgo stile A4 domenica di agosto), dopo esser stato sveglio 30h (storia lunga) e con la carrozzeria dell’auto aperta come una scatoletta (storia ancora più lunga).

La seconda tutto bene, cima e sciata inclusa, ma il ricordo preponderante è la sete devastante causata da un errato calcolo tra la balla della sera prima e la scarsità di liquidi per il giorno dopo (ideale per i 1900 metri di dislivello previsti, no?). Sete parzialmente spenta con un gesto che non posso raccontare.
Questo per dire che con il Grossglockner il rapporto è un pochino problematico. Peccato: perché a parte essere una montagna famosa e importante, ha una indiscutibile eleganza, delle vie di un certo rilievo, una discreta altezza ed è pure decisamente vicina per chi abita a nordest. Non manchiamo mai di additarlo da una qualunque cima tra Dolomiti e Giulie perché si vede quasi sempre e ci fa fare sempre bella figura.
Però, alla fine, nonostante tutto ci si va poco. E questo perché, in fin dei conti, siamo(sono, io) dei fottuti snob. Questa Studlgrat, ad esempio, è rimasta lì tra le cose da fare “prima o poi” ma quel “prima o poi”era sempre poi. Perché nel frattempo eravamo impegnati a cambiare la storia dell’alpinismo (nella nostra testa) e quindi dato che dobbiamo fare un pilastro qualsiasi del Bianco (non vi dico quale) non è che ci bruciamo il weekend sulla Studlgrat. Quella la facciamo in invernale, in solitaria, anzi! Solitaria invernale per allenarsi. Oppure: car-to-car e ritorno per cena. Tutte cose fatte (o meglio, pensate) per complicarsi la vita e ignorare la bellezza. E invece, diciamolo! Che sta Studlgrat è bella, elegante, ideale come linea. E non farla, un po’, è da stronzi.
Si respira l’alpinismo d’altri tempi, ma proprio tempi antichi, di baffoni, alpenstock e lardo in tasca (belli, eh, quei tempi! Niente cronometri, niente gradi, niente curriculum: diciamo che se tornavi vivo era già un’impresa). Quell’alpinismo che era fatto, essenzialmente, di passi. Si misurava, in passi. Il Garmin oggi me ne dava 24 mila e fischia, ma quella volta era il singolo passo a contare. L’accortezza, la cura, di dove mettere un piede, l’importanza del camminare, del salire, della scelta da fare. Che è poi il motivo (uno dei, non facciamo troppo gli opinion leader) per cui pratichiamo questa cosa tra sport e arte e psicoterapia che è l’alpinismo. Avere una possibilità di scelta. Vagliare opzioni. Quindi decidere. Esporsi.
E in ogni passo aggiornare il catalogo dei timori, le tempeste emozionali, i pensieri che vanno e vengono.
Ritrovare, infine, i movimenti collaudati, le posture apprese, che quella cosa te la facevano cercare di continuo. Scoprire che rimangono, come i compagni di cordata che fanno cordata anche quando la corda non c’è.
Abbiamo fatto bene, a far la Studlgrat: chi vi fa spallucce o la declassa (perché ha i cavi, e la gente e ma vanno tutti etc etc – ovvero io) forse non ci è mai stato e non ha mai dato valore ai passi. Che poi, banalmente, è il principio di base per scalare ogni montagna. E, in generale, ogni cosa nella vita.


Gross Glockner, 3798 mt – Alti Tauri

Cresta Sud/Ovest “Studlgrat”

Difficoltà: complessivamente AD (II,III / A0, ghiacciaio facile in salita e discesa)

Dislivello: 700 mt dall’attacco (1900 totali dal parcheggio)
La montagna non chiede presentazioni (cima più alta dell’Austria, icona delle Alpi Orientali e dell’alpinismo classico) e nemmeno questa cresta, dedicata al magnate praghese Johan Studl (fondatore, tra le altre, del club alpino tedesco, una specie di Quintino Sella), ma salita da Joseph Keherer e Peter Groder il 10/09/1864 seppure con l’aiuto dall’alto dei fratelli Groder. La via doveva servire alle guide di Kals per fare concorrenza a quelle di Heilingenblut tanto da costruirvi una “proto-ferrata”, poi rimossa. Oggi la cresta si presenta con numerose attrezzature (soprattutto golfari) e qualche cavo metallico e fittoni che agevolano passi altrimenti “fuori scala” per una via che generalmente si mantiene sul II/III grado. Nel complesso è un itinerario d’alta montagna di un certo impegno per esposizione, lunghezza ed ambiente da non sottovalutare. Così come la discesa per la normale, più facile, ma da fare con attenzione anche per l’intenso via vai di cordate. In ogni caso, un itinerario storico, che non lascia indifferenti e che ripaga di sensazioni degne dei rarefatti ambienti d’alta quota.

Una buona relazione, in italiano, è disponibile sul sito degli amici SassBaloss.https://www.sassbaloss.com/pagine/uscite/grossglockner/grossglockner.htm

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La via che non c’è più

di Saverio D’Eredità

Sto salendo in auto i tornanti che mi portano nella parte alta di Belluno e sono ovviamente in ritardo. La riunione inizia tra cinque minuti e non ho la minima idea di dove si trovi. Tengo il navigatore acceso – non lo faccio mai – solo per avere la certezza del mio ritardo. “Via Attilio Tissi” – dice il collega a fianco a me guardando fuori dal finestrino – “…senatore…”. Inchiodo. “Come scusa?” chiedo al collega. “Via Attilio Tissi…conosci? Mai sentito”. Guardo il cartello: riporta la data di nascita e morte. “Se è quello che penso, credo proprio di sì” dissi.

Perchè è un po’così, con gli alpinisti. Ripercorrendo le loro salite, immedesimandosi nelle paure o sensazioni provate da loro stessi nel toccare quelle pietre, pare quasi di finire per conoscerli davvero. Anche se ormai quelle tracce sono antichissime e tutto – indumenti, materiali, parole, valori – sembrano appartenere quasi ad un’altra specie. Ogni via è un viaggio nel tempo e nell’animo di qualcuno che ci ha preceduto. Continua a leggere

Estasi e tormento

di Saverio D’Eredità

Ci sono strade che ti portano giù senza che tu te ne accorga. Lo capisci davvero quando avverti che le gambe non spingono più e l’aria si fa più leggera sul viso. Quando la mente si sgombra e il cuore rallenta. E tutto è in qualche maniera come dovrebbe essere. Semplicemente perfetto. Quell’istante è la ricompensa del sacrificio. La spiegazione plausibile ad ogni tua rinuncia. È la ragione per cui. È tutto quello che serve.

Eravamo dunque giunti alla fine delle montagne. Profili indistinti di valli e di dorsali emergono, nel chiarore del giorno che si espande. Sprofondi di valli delle quali più non ci curiamo di dare un nome. Ci sovrasta, ovunque, il Sassolungo. Ultimo frammento della regione dolomitica, faraglione arenato nei docili altipiani dell’Alpe di Siusi.
Eravamo giunti alla fine delle montagne e forse non solo. Pure in questa mattina leggera e luminosa grava la sensazione che qualcosa volga alla fine. È un pensiero che cerchi di scacciare come mosche e invece ritorna. È una maglietta appiccicosa di sudore. Un rumore bianco.
Finiscono le montagne, come pare stia già finendo quest’estate. In questi ultimi giorni lo potevo sentire dentro ogni mattina andando a lavoro, nell’odore di terra che pareva marcire, di campi schiantati dal caldo o da qualche temporale abbattuto senza pietà su alberi innocenti. Continua a leggere

Il gioiello del “Vecio” – una linea a goccia d’acqua sulla Cima Piccola di Lavaredo

di Saverio D’Eredità

Nell’immaginario degli alpinisti dell’epoca cosiddetta del “sesto grado” la linea “a goccia d’acqua” ha rappresentato un simbolo cui ambire. Riuscire ad individuare la linea perfetta dalla base alla vetta, che superasse una parete senza aggiramenti o deviazioni, era di fatto il “Non plus ultra” di ogni apritore. Di certo un teorico di questa “estetica del verticale” fu Emilio Comici, il quale cercò sempre nelle sue vie di seguire la linea più diretta possibile, anche in nome di uno stile che anteponeva il gesto al mero superamento (anche forzoso) del problema alpinistico. Se la “goccia d’acqua” è un marchio di fabbrica di Comici, bisogna riconoscere che i suoi epigoni intrepretarono bene il concetto.

Proprio accanto al celeberrimo Spigolo Giallo, l’esempio (quasi) perfetto dell’etica di Comici, nel primo dopoguerra e quasi in silenzio due rappresentanti della grande scuola triestina dei “Bruti di Val Rosandra”, va a tracciare la linea perfetta della parete. Guglielmo Del Vecchio è stato uno dei membri più importanti di quel gruppo, ma vuoi il duro periodo post bellico, vuoi la ricerca di pareti minori (e spesso, guarda caso, proprio laddove Comici aveva lasciato una firma) il suo nome è per lo più sconosciuto. La sua attività esplorativa però è notevole:dal Montasio al Popera, dalla Cima Undici alla Cima d’Auronzo, il “vecio” Del Vecchio è attivissimo in nuove aperture come anche in ripetizioni. Da ricordare che già nel 1946 ripete la nord della Cima Grande (affrontando al secondo tiro quello che è oggi il passaggio attuale, dopo la frana che ha cancellato l’originale) ed è sua la seconda ripetizione della Comici-Casara al “Salame” del Sassolungo. Accanto a queste salite, il suo nome è ricordato “in Valle” (la Rosandra,appunto) per numerose salite che hanno costituito un bel banco di prova per aspiranti alpinisti.

Se si guarda la sud est della Cima Piccola, però, quella linea a goccia cadente che incide la parete giallastra e repulsiva negli ultimi 150 metri richiama immediatamene l’occhio dell’alpinista: è senza dubbio “la” linea! Oggi la Del Vecchio-Zadeo inizia ad essere rivalutata e a ricevere una giusta fama. Esposizione “da Lavaredo”, arrampicata elegante e sostenuta, senza contare la minore usura dello Spigolo ne fanno un’alternativa molto consigliabile per riassaporare, in quei tiri, un po’dell’alpinismo dei “veci”.

 

Anticima della Cima Piccola di Lavaredo mt. 2780

Parete S/E

Via Del Vecchio-Zadeo

Scalata molto interessante, di grande logica ed estetica: la linea perfettamente verticale sfrutta un’evidente fessura giallastra aperta nel cuore della strapiombante parete S/E della Cima Piccola. Un vero esempio di tracciato a “goccia d’acqua”. Nonostante ciò è molto meno frequentata dell’adiacente e classicissimo Spigolo Giallo, rispetto al quale è leggermente meno impegnativo nel complesso e meno chiodato (a parte il tiro chiave, ben protetto), ma anche meno consumato. La roccia è quasi ovunque solida, o comunque ben ripulita. L’esposizione solare e la non eccessiva lunghezza la rendono percorribile fino a stagione inoltrata.

Dislivello: 380 mt

Difficoltà: V, VI, VI+(A0)

Tempi: 4/5 h

Prima salita: G. Del Vecchio e A.Zadeo, 5/08/1946

Cima Piccola_Tracciato Del Vecchio Zadeo
Il tracciato della Del Vecchio-Zadeo sulla sud est della Cima Piccola di Lavaredo

Avvicinamento: dal rif. Auronzo seguire la strada in direzione del Rif.Lavaredo. Prima di questo, in corrispondenza della chiesetta alpina Madonna della Croda, si abbandona la strada per salire su tracce lungo il ghiaione verso la base della gialla parete sud della Cima Piccola. L’attacco si trova in corrispondenza della più bassa delle due cenge che incidono la parte basale della parete. Si segue la cengia pochi metri verso dx portandosi sotto una parete giallo nera. Si attacca in corrispondenza di 1 ch. alla base di una fessurina (0’45)

L1: salire la fessurina con un primo innalzamento non banale (V), e seguendo la fessura verso sx (1ch.) portarsi sotto un tetto giallastro. Traversare su esile cornice a dx (all’inizio scaglie friabili) e, dove il tetto si interrompe, salire in verticale per rocce scure all’ampia cengia soprastante sostando a dx di un diedro e sotto una parete nera. (n.b: possibile arrivare qui dall’attacco dello Spigolo Giallo, traversando facilmente lungo la cengia con breve tratto esposto). 40 mt, V, IV, 1 ch. 3 CF.

L2: salire in corrispondenza del diedro su parete verticale ben appigliata (1FR inc. nel diedro, IV+), quindi piegare a sx verso rocce grigie più facili che adducono ad una vasta zona a gradoni. Salire senza via obbligata obliquando legg. a sx in direzione dello Spigolo Giallo. Sosta su spuntoni. 60 mt, IV+ poi IV, III.

L3: verso sx portarsi sotto un salto verticale di rocce articolate. Salire direttamente sfruttando alcune fessure quindi piegare a dx verso il bordo del catino sottostante la parete gialla verticale. Sosta su 1 CL o da attrezzare. 60 mt, III, IV.

L4: salire nel catino e rimontarlo mirando alla radice della fessura che incide la parte alta della via. Qui si è molto vicini alla linea dello Spigolo Giallo e il percorso non è obbligato. Si sosta su 2 ch. su una cengetta sotto una parete grigia verticale un po’a sx rispetto alla verticale della fessura giallastra. 60 mt, II, III 2 CF.

L5: Superare lungo una fessura regolare (IV+, 2 ch.)la parete soprastante e, guadagnata una sottile cornice (a sx si nota la sosta dello Spigolo Giallo che precede il traverso) spostarsi verso dx dove si rinviene una sosta intermedia (3ch con cordoni). È possibile sostare qui o proseguire verticalmente su difficoltà crescenti, ma con bella arrampicata su ottime prese verso la base della fessura (V, V+, 2ch) che oppone un primo strapiombo (2ch con cordini). Lo si aggira a sx (1ch) per poi rientrare sulla linea principale a dx (VI-) e sostare su un piccolo terrazzino alla base di un pilastrino staccato. 45 mt, dal IV al VI-, 6 ch. + 1 sosta intermedua, 2 CF.

L6: Senza possibilità di errore rimontare interamente la fessura con arrampicata sostenuta su roccia ben ripulita (fare comunque attenzione ad alcuni blocchi precari sulla dx) e vincendo direttamente un paio di strapiombi. Giunti sotto un tetto fessurato che chiude la fessura si esce a dx sostando scomodamente appesi. 30 mt, VI, ppVI+/A0 numerosi ch. 2 CF.

L7: Superare il tetto a sx lungo la fessura (nessun ch. ma ben proteggibile a friend, VI) che si segue alcuni metri in verticale per poi traversare pochi mt a sx su roccia nuovamente grigia. Da 1ch. salire in verticale mirando ad un pilastrino staccato dall’aspetto precario che si rimonta (1ch.) fino alla comoda su cengia. 30 mt, VI, poi V,V+, 2ch. 2CF.

L8: un po’a sx si imbocca una fessura grigia verticale (1ch subito) che si segue interamente con arrampicata divertente. Si sosta su uno spuntone staccato pochi mt sopra una cornice. 25 mt, 2 ch, 2 CF.

L9: invece di andare a sx per una larga fessura di roccia non molto buona si sale verticalmente su parete grigia in direzione di un diedro aperto che si segue fino al suo termine. Un salto verticale si aggira a sx per poi rientrare a dx su una larga cengia alla base del camino terminale. 40 mt, V, poi IV, 2 CF.

L10: risalire il camino (profondo e largo) fino alla spalla di uscita (45 mt, III, IV), dove si sosta su spuntone.

Discesa: andare in direzione N verso la Cima Piccola dapprima scendendo ad un piccolo intaglio per poi risalire (II) all’Anticima della Cima Piccola. Seguendo gli ometti ci si porta sopra un salto esposto che si supera o con breve doppia (ancoraggio in loco) o disarrampicando (10 mt, II/III). Seguire una cengetta esposta sul lato Ovest (esposto!) fino all’ampia spalla sottostante la torre finale della Cima Piccola (raggiungibile con 2 tiri di corda lungo il “Camino Zsigmondy: III,IV, IV+). Sulla parete della Cima Piccola in corrispondenza di una nicchietta si rinviene un primo anello di calata. Conviene scendere (anche assicurati) per circa 10 mt ad un sottostante anello da cui inizia una pista a doppia (30 o 60 mt, tutte attrezzate ad anelli resinati, bolli rossi per un più agevole rinvenimento). Con 3 doppie da 50/55 mt si arriva alla forcella che separa Cima Grande e Cima Piccola. Si scende il canale sud (ripido e con neve: possibile una calata da un terrazzino a sx circa 50 mt sotto la forcella) fino a ritrovare le tracce di sentiero che riportano al Rif. Auronzo (ore 1.30/2 dall’uscita).

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L6: parete giallo grigia verticale

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L7: quasi al termine del tiro chiave

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L8: bella roccia grigia

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Sosta con vista sulla Croda dei Toni

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Uscita della via

Ruggine

di Saverio D’Eredità

Quel chiodo, io, l’ho sempre passato.
Alla faccia dei soloni della falesia, dei benpensanti e dei custodi dell’etica. Se c’è un chiodo si passa, anche se non serve. Anzi, magari è pure peggio perché fa scorrere malamente la corda e sarà una facile scusa per fallire il passaggio. Ma il chiodo si passa. Io passo sempre tutti i chiodi, a prescindere. Per educazione, diciamo. Come salutare le persone che incontri al mattino. Si saluta, sempre. Anche se questo poi qualche volta finisce per creare problemi, come con i vecchi chiodi. Continua a leggere

Guido Rossa, un uomo

di Saverio D’Eredità

“Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa, il quale fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utli non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini.

Non rinunciare alla montagna. E perchè? No. Ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l’avventura e per stare in allegria insieme agli amici.

Io lo so e l’ho sempre saputo; ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi ha sempre affascinato per la sua intelligenza e per la sensibilità artistica che scopri nel suo sguardo.”

(Gian Piero Motti – I Falliti)

C’è una foto, una foto che mi ha sempre colpito, che ritrae Guido Rossa con la figlia Sabina in braccio. Quella foto che ritrae Rossa in un frammento di normalità – un frammento che acuisce la tragicità della sua fine e la disumanità dell’atto terroristico – ci restituisce l’uomo nella sua totalità. Di padre, lavoratore e, in ultimo, alpinista. Quel frammento che riprende un interno familiare dell’Italia dei primi anni ’60 (lo sfondo di una casa, gli abiti comuni, le grandi mani che sorreggono la figlia) è un’immagine al tempo stesso tenera e fortissima. Un’immagine che per anni ho portato dentro, quasi come un esempio. Perchè da quel giorno, da quella foto, ho sempre pensato che Guido Rossa rappresentasse una figura esemplare. Nel suo essere un “giusto” nel senso più profondo del termine (di una profondità ed una intransigenza che forse oggi risulta incomprensibile), fedele ai propri ideali nella maniera più assoluta e definitiva. Una fedeltà che gli sarebbe costata la vita, fino a quel 24 gennaio del 1979, in cui cadde sotto i colpi delle BR proprio davanti alla porta di casa.

Con la sua opera Rossa dimostrava di poter essere un buon padre, un lavoratore e un sindacalista, impegnato nella lotta per i diritti dei lavoratori ed anche un grande alpinista, senza che le diverse dimensioni della sua esistenza dovessero per forza di cose essere separate in comparti stagni. Ma al contrario contribuissero ciascuna al proprio percorso esistenziale.
Egli dunque è esempio anche di alpinista che vive nella società e per la società. In Guido Rossa avviene infatti, fatto raro, la saldatura tra la dimensione umana e quella alpinistica. Raro ancorchè non esibito, ma professato, nella vita quotidiana, nella radicalità delle sue azioni, nella lucidità del suo pensiero.

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Quella foto, semplice e struggente, restituisce la sua cifra umana (e alpinistica) molto più di altre che avrebbero potuto ritrarlo in azione tra i monti. Perchè Guido Rossa fu alpinista di grande profilo: talentuoso, dotato, ma anche a suo modo anarchico e contestatore (si ricorda una sua scalata della famosa Gervasutti alla Sbarua in abiti da cerimonia). Un “essere alpinista” che realizzò anche nella vita quotidiana. Fino ad arrivare a conseguenze estreme.

In una lettera ad un amico alpinista scrisse:

Da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile (e non nascondiamocelo, forse, anche a noi stessi) dell’andar sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi ed ingiustizie, di un mondo dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica, due su tre sono sottoalimentati e dove su sessanta milioni di morti all’anno, quaranta milioni muoiono di fame!
Per questo penso, anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro […]. Ma probabilmente queste prediche le rivolgo soprattutto a me stesso, perchè, anche se fin dall’età della ragione l’amore per la giustizia sociale e per i diritti dell’uomo sono stati in me il motivo dominante, sino ad ora ho speso pochissime delle mie forze per attuare qualcosa di buono in questo senso […].

Guido Rossa arrivò dunque ad una conclusione radicale, forse definitiva, non tanto sull’attività alpinistica in sè, quanto nel senso da darvi e nel come questa stessa passione dovesse essere mezzo e non fine di una piena realizzazione di sè stessi e nella società in cui si vive. Pochi altri, nella storia dell’alpinismo, possono dire di aver completato questo percorso umano ed esistenziale. Uno tra tutti, Ettore Castiglioni. Ed è per questo, forse, che la sua figura può stare sullo stesso piano di tanti altri, ben più noti, personaggi che pur avendo compiuto eccezionali imprese non hanno saputo esprimere come lui il significato profondo dell’essere alpinista.

Wurstel e spaghetti in salsa bordolese.

di Carlo Piovan

Piaciuta la via?

Si bella, più dura del dichiarato

Immaginavo ma il Brix non ha sgradato?

No anzi..

Quindi VI?

Un sei un po’ incazzoso

6a? 6b?

Sti gradi francesi! In idioma italico orami dimenticato e vilipeso da questo tempo senza cultura si direbbe “sesto sostenuto”

I gradi francesi sono il riferimento europeo, se non mondiale, per l’arrampicata

Insomma la classica fessura un po’ stronza dai

Vuoi parlare ancora il volgare o è il caso di imparare l’inglese

Bah riduttivo e fuorviante

Va a dire a uno 6a e si butta su quella fessure pensando ad un tiro di falesia

C’è un problema di preparazione prima che di lingua

Aspetta, innanzitutto i gradi UIAA sono di scuola teutonica ma soprattutto stai mescolando la traduzione con la grammatica

Da questo mattiniero scambio di opinioni, ho pensato sia il caso di fare un po’ di chiarezza sull’annosa questione della valutazione delle difficoltà che spesso si riscontra nelle relazioni.

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La biblioteca di Alessandria

“Secondo me ci siamo troppo imborghesiti
Abbiamo perso il desiderio
Di sporcarci un po’ i vestiti”

Brunori Sas – “Secondo me”

di Saverio D’Eredità

Se provate a cercare “Comici Vano Nero” su Google vi viene fuori poco o niente.
Per affinare la ricerca potete provare varie opzioni, ad esempio scambiando l’ordine delle parole o aggiungendo a seconda Vano+Riofreddo e togliendo Comici (visto che di vie Comici su quella montagna ce ne sono due). Tutto quello che troverete è la scansione di “Google Books” della Buscaini, note biografiche su Comici stesso e una discussione su un noto Forum che è molto rappresentativa dei nostri tempi: si discute tanto ma sul niente, ovvero senza sapere esattamente di cosa si stia parlando.

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Il Diedro Infinito

di Saverio D’Eredità

Prologo

Come il pane o la poesia

Che silenzio che c’è qui. Che silenzio tra queste rocce, ultime a difendere la luce di un giorno che man mano svapora. Il buio risale dal profondo del terra. Procedo piano. Una pietra, smossa, precipita senza far rumore quasi fosse senza peso. Mi sento leggero anch’io, o forse sono solo svuotato e quella che sento è semplicemente fame. C’è un piacere sottile a percorrere con lentezza questi ultimi tiri, come a voler conservare un ricordo più a lungo di altri.
D’improvviso l’aria si riempie di una luce riflessa. “Guarda”, dico ad Andrea che sta rollando una meritata cicca di fine via. È l’ora in cui il sole giunge a riscattare l’altra faccia del diedro dall’ombra millenaria cui sembra condannata. Pochi istanti prima del tramonto a dar vita a queste pietre senza significato, se non per i nostri occhi e le nostre mani che oggi le sfiorano e le osservano. Lo spigolo del diedro, illuminato, si staglia come una prua nel vuoto e forse solo ora prendiamo coscienza di dove ci troviamo. Il Cozzolino, il diedro infinito, è ormai dietro di noi. Continua a leggere

60 anni di chele in parete

di Carlo Piovan

Mi dicono che sessant’anni per un uomo è l’età della profonda maturazione, l’età in cui non ha più paura o remore di dire quello che pensa, l’età in cui può nuovamente stringere tra le braccia una nuova vita, con la leggerezza d’animo di chi ci è già passato.
Ma cosa sono sessant’anni per un gruppo di persone che dal 1957 hanno deciso di condividere, nello spazio della montagna e nel tempo di molte generazioni, la passione per l’arrampicata? Continua a leggere