Quattro chiacchiere e un po’di “jamming” con Samuel Straulino

di Saverio D’Eredità

Quando si parla di Carnia, in fatto di scalata, di solito vengono in mente le placche e rigole di Avostanis, o gli esigenti monotiri della Scogliera in Pal Piccolo. Gli alpinisti che masticano vie classiche avranno sicuramente passato momenti “riflessivi” sugli spalmi e altri meno riflessivi, ma piuttosto avventurosi, cercando di venire a capo delle ostiche fessure, ora esaltanti ora disperanti, specie quando – succede sempre- la roccia presenta i bordi svasi che sembrano non andare d’accordo né con le mani né con le protezioni. Insomma, la fessura carnica è una categoria a sé stante, sicuramente un bel banco di prova per quanti li affrontano e che, una volta superatolo, non temeranno di misurarsi con i luoghi di elezione di questo tipo di scalata come il Piemonte, la Val Di Mello, il Bianco o perchè no, la mitica Yosemite.

Ho incontrato per la prima volta Samuel alla base del Salto, struttura rocciosa strapiombante nell’area del Pal Piccolo. Notammo questo ragazzo intento a scalare con calma e determinazione, una fessura dall’apparenza ostile. I sassetti che cadevano ci fecero capire che non stava salendo qualcosa di molto ripetuto. Margherita, che lo assicurava alla base, ci disse infatti che stavano aprendo dei tiri in stile trad (http://quartogrado.com/cargiul/relazioni%20montecroce/Pal%20Piccolo_Falesia%20del%20Salto.htm)e ci invitò a provare una fessura che poteva fungere da variante d’attacco alla via del Sandwich che nelle nostre intenzioni più “plaisir” ci accingevamo a salire quel giorno. I 3 friends appesi al nostro imbrago sarebbero stati sufficienti per quei 15 metri. E in effetti lo furono, dato che potemmo piazzarli in maniera ottimale sul fondo della fessura. Meno sufficiente fu la mia tecnica, di colpo costretta a misurarsi con quel tipo di scalata per noi inusuale, pregiudicando un po’ la resa sui tiri successivi. Non siamo certo specialisti! Rimasi quindi colpito dallo stile di Samuel che, scoprii dopo, con Margherita Della Pietra si stava dedicando ad aperture in stile “yosemitico” sulla difficile roccia di Carnia. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere in stile “jamming”, quella particolare tecnica che si applica sulle vie di fessura, parlando del suo percorso, le sue aperture, scoprendo come anche in Carnia ci si può confrontare con questa scalata “occidentale” immaginando quella “valley uprising” che popola i sogni di tanti di noi.

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Straulino su Ain’t no easy way out, sulla Creta di Collina – 340 mt, VIII

Quando si parla di Carnia non si pensa di certo alle fessure: eppure tu sei uno specialista di questo tipo di strutture, con un bel carnet di itinerari aperti con questo stile di scalata su queste montagne. La domanda che sorge spontanea è: come hai capito il potenziale dell’arrampicata in fessura in Carnia? E cosa ti ha spinto a specializzarti?

Quando ho cominciato a scalare il pane quotidiano per me erano i video di master of stone e tutti i video riguardanti lo Yosemite e le mitiche imprese di Tommy Caldwell e Dean Potter: quindi per me la scalata era scalare in fessura! Da qui poi ho cominciato a ripetere tutte le grandi classiche delle Carniche, scoprendo come le vie in montagna di stampo classico differiscano dalla falesia proprio per la ricerca dei punti più deboli delle pareti. Sfruttando prevalentemente fessure, camini e diedri ho iniziato a comprenderne la logica e a quel punto mi si è aperto un mondo: avevo “trovato” la mia Yosemite in Carnia! Più esperienza facevo e più cercavo di ripetere vie di maggiore difficoltà. Avendo poi scalato tanto con Roberto Mazzilis e quindi imparato moltissime cose da lui e dallo stile con cui apre le sue vie in montagna, ho cominciato a fantasticare e a cercare nuovi itinerari nello stile che mi piace di più. Così ho scoperto che le nostre pareti carniche hanno ancora delle linee che non sono state scalate con fessure strepitose!

In cosa differisce questo tipo di scalata sulle pareti carniche da quella più classica che si può trovare altrove, tanto su granito quanto su dolomia? Come ti muovi per affrontarle? Tecnica, protezioni, materiali…

Certamente c’è una gran differenza tra le fessure granitiche rispetto a quelle calcaree e dolomitiche. Innanzitutto per le caratteristiche della roccia: il granito presenta fessure regolari che corrono su pareti generalmente lisce (a seconda della grana più o meno grossa), quindi per scalarle si ricorre a tutti i tipi d incastri, da quello di mano alle tecniche di incastro su fessure “offwidth”, mentre nei calcari le fessure sono irregolari e per loro caratteristica offrono appoggi e tacche in parete, quindi non sarà sempre necessario incastrare mani e piedi. Per quanto riguarda la proteggibilità, il fatto che su granito le fessure sono più regolari fa si che sia più facile e immediato usare protezioni veloci, mentre su calcare e dolomia serve maestria nel piazzarle, spesso in fessure che risultano molto “svase”. Io cerco sempre di usare il più possibile friend e dadi per proteggermi, dove non è possibile ovviamente uso martello e chiodi.

E ora una domanda classica e scontata: dicci il tiro più bello e la via più bella (sempre parlando di fessure) che hai scalato!

Come tiro direi “Separate reality”(*) in Yosemite , mentre parlando di via direi Astroman (**)sempre in Yosemite.

(*) Separate Reality: celebre monotiro scalato da Ron Kauk nel 78 (diff. originaria 5.12, 7a+), immortalato in numerose foto che hanno fatto la storia dell’arrampicata americana. Mitica la prima free solo di Gullich nel 1986.

(**) Sulla Washington Coloumn, Astroman è una delle vie più importanti dello Yosemite, aperta nel 1959 da Warren Harding, Glenn Denny e Chuck Pratt, valutata 5.11 c (corrisponde all’incirca a un 6c+ in scala francese, ma su una scalata molto specifica)

Parlaci di te, del tuo percorso e delle tue esperienze: hai viaggiato molto per andare a provare le scalate “iconiche” in fessura, ad esempio. Quali sono i luoghi da non perdere per questo tipo di scalata?

Fin da bambino ho iniziato a frequentare la montagna sia con escursioni estive che d’inverno sugli sci assieme ai miei zii. Ho cominciato a scalare a vent’anni da autodidatta e divorando tutti i video che trovavo sullo Yosemite e tutte le più famose bigwall al mondo, quindi per me la scalata era…scalare in fessura! Dopo pochi mesi ero già pronto per andare a ripetere vie classiche in montagna, la falesia era solo allenamento per riuscire ad alzare il grado sulle vie. Durante i primi anni di scalate ho avuto la fortuna di conoscere il fuoriclasse Roby (Roberto Mazzilis) e da li è cominciata una vera e propria saga di vie nuove aperte insieme a lui. Scalando con Roberto ho imparato tante cose e sopratutto ho avuto la fortuna salire dove nessuno era stato prima. Quella sensazione di novità, avventura e di mettersi totalmente in gioco che si prova soltanto in montagna mi ha rapito fin da subito. Quindi ho cercato di far più esperienza possibile per poi trovare le mie nuove linee, cercando le fessure ancora inviolate sulle pareti vicino casa. E appena ho potuto sono volato oltre oceano per visitare la mitica valle che ho sempre sognato: lo Yosemite. Qui ho ripetuto tante vie classiche e anche monotiri che hanno fatto la storia, come Separate Reality. Una grande avventura è stata la via “Astroman”, sia per la via in sé, una bellissima scalata tra diedri infiniti ed incastri in fessure di ogni larghezza, sia per il fatto che avevamo portato pochissima acqua con noi per non avere tanto peso con la conseguenza che arrivammo in cima disidratati e sfiniti. Un altro posto molto bello per le vie lunghe è il Zion National Park, dove consiglierei Moonlight Buttres e Tatooine. Il viaggio è finito con le fessure più perfette che si possano desiderare, in un ambiente magico quale il deserto a Indian creek, dove ho scalato veramente tantissimo ripetendo un sacco di vie dalle classiche “iconiche” a quelle meno conosciute. Sicuramente ci tornerò, secondo me sono posti magici!

Poi però sei tornato a casa, dove hai continuato una incessante opera di individuazione ed apertura di vie di stampo tradizionale, prediligendo lo stile “americano”, quindi arrampicata tendenzialmente “clean” e ricerca di fessure. Domanda d’obbligo: quale tra le vie da te aperte consideri la migliore?

Tra quelle che ho fatto, direi proprio l’ultima sulla parete sud della Creta di Collina, un luogo speciale per me (qui Samuel ha aperto Ain’t no easy way out e Hotshots, nonché raddrizzato la classica Viaggio ad Oxford – ndr) dove ho aperto “Be the Change”, 230 mt difficoltà massima di VIII+. Qui ho trovato dei tiri in fessura davvero spettacolari, ma anche passi in placca non da meno. Peccato solo che la parete di per sé non sia molto alta, se vogliamo è l’unico difetto che posso trovarle. Però ci tengo a ricordare anche un’altra via, che ho soltanto ripetuto, ma che ha rappresentato molto per me. Si tratta di “Laura”, sulla sud del Gamspitz (via storica, aperta da Mazzilis e Di Gallo nel 1984 dove per la prima volta su queste montagne si è sfiorato l’ottavo grado: la via infatti presenta un passo di VIII- e conta pochissime ripetizioni tutt’ora -ndr): non la più dura che ho salito, ma la più desiderata sicuramente. Ripeterla con l’autore, Roberto Mazzilis, è stata un’emozione particolare.

L’arrampicata cosiddetta “trad” sta avendo un grande interesse negli ultimi anni: secondo te come mai?

Io penso che l arrampicata “trad” possa darti molto di più a livello di “avventura” e quindi di coinvolgimento mentale, dove oltre al gesto tecnico sei tu a decidere dove e quanto proteggere un tiro. Oltre al fatto di riuscire a farti crescere mentalmente e stimolarti a ripetere vie sempre più dure.

Come vedi l’evoluzione di questo stile applicato alle falesie come ad esempio fanno da sempre in Uk, ma anche tu hai aperto dei tiri trad in Pal Piccolo. Secondo te avrà futuro o sarà sempre una nicchia?

Certamente in Uk c’è una lunga tradizione sul fatto di scalare “clean”, ma c’è anche una roccia diversa dalla nostra, quindi forse più “portata” a questo stile. Non va dimenticato comunque che anche da noi negli anni ottanta, assieme alla nascita delle falesie attrezzate a spit in Pal Piccolo sopravvivevano parecchie fessure protette solo con nut ed exentrics. Successivamente – purtroppo secondo me – anche da noi si è un po’abusato di questo strumento: su placche altrimenti impossibili da proteggere va benissimo, ma su moltissime fessure non li avrei usati. Questo perché oltre a sminuirle nell’impegno, tolgono anche la possibilità a molti di imparare ad usare le protezioni veloci e a conoscere un modo diverso di scalare. Infatti qua da noi in Friuli poca gente ha una serie di friend nella propria attrezzatura, quindi almeno qui da noi il “trad” farà molta fatica ad avere successo, se non tra i pochi appassionati.

Tu sei anche guida alpina: se un cliente volesse iniziare a provare a scalare tiri in fessura, cosa consiglieresti? come lo guideresti?

Le fessure carniche non sono certo come le fessure che si possono trovare in granito, dove si ha una scalata in fessura più completa, però secondo me si potrebbe tranquillamente cominciare con le nostre pareti, magari proprio in Pal Piccolo zona “Scogliera” per poi passare alla mia falesia trad e finire con l arrivare a ripetere qualche multipitch zona Salto (vedi https://rampegoni.wordpress.com/2020/12/06/ritorno-al-futuro-arrampicata-trad-sulle-pareti-del-pal-piccolo/). Se invece si cerca il granito, la”Mecca” qui in Italia è il Piemonte con la valle dell Orco, dove ci sono sopratutto multipitch, oppure le falesie di Cadarese e Yosesigo con i suoi monotiri e le fessure perfette!

Insomma, non resta che fasciarvi le mani, appendere i friends all’imbrago e lanciarsi in quell’avventura intensa e leale che questa arrampicata sa regalare. Immaginando per un momento di trovarsi in una nostra piccola Yosemite a nordest.

Samuel in apertura sulla falesia del Salto
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Annozero (sul Nevee Outdoor Festival e altre cose)

di Saverio D’Eredità

“Che vergogna, sarà mica accoglienza questa! Tovagliette di carta e nemmeno una carta dei vini!”

“Ci siamo persi, i segnavia erano sbiaditi e non mi prendeva il GPS!”

“Quella ferrata è pericolosa: c’è un tratto in cui il cavo è allentato e nessuno ha messo un cartello. Andrebbe chiusa!”

“Nel programma era previsto di arrivare in cima alle ore 12 e invece non l’abbiamo nemmeno vista!”

Avete già sentito commenti come questi? Non è raro intercettarli in qualche bar di fondovalle o fuori dai rifugi. Senza parlare delle pagine dei social. Forse alcuni vi sembrano esagerati, ma non siamo poi tanto lontani dalla realtà. E la realtà è che – ci piaccia o meno – tutto quello che gravita attorno alla montagna è né più né meno che un prodotto di mercato. Che sottostà a regole di marketing più che meteorologiche. Dove le condizioni naturali sono sostituite dall’offerta. Dove si fruisce e non si vive.

Potrebbe sembrare la solita lamentala di un nostalgico amante di un’arcadia ormai perduta (e forse mai esistita). Ma credo che tante volte il liquidare così ogni tipo di riflessione sia solo un modo per eludere il problema. Problema di cui siamo tutti parte: prima ancora che come “appassionati” (tralasciando le definizioni o meglio “nicchie” per usare ancora una volta un termine economico), sicuramente come cittadini per non dire consumatori. Perché quello siamo. Consumatori del prodotto montagna, con tutto il corollario che va dall’ultimo aggiornamento tecnologico che ci portiamo dietro all’abbigliamento, dall’attrezzatura tecnica ad un determinato “stile” che adottiamo (o compriamo?) per sentirci in quel contesto, in quel momento, inseriti, accettati per non dire apprezzati. E che altro non è che conformismo.

Credo sia questo il punto: non tanto demonizzare il risvolto economico del turismo (ricordandoci che la prima forma di turismo alpino fu proprio l’alpinismo dei benestanti inglesi nell ‘800), né per contro, inneggiare ad una non meglio definita libertà che si tramuta in sterile anarchia. Il punto è aver pian piano fatto sfumare il senso profondo della montagna (anzitutto per quello che è, ovvero spazio naturale) fino a farlo diventare del tutto secondario rispetto al “prodotto montagna”.

Ne avevamo già parlato su questa pagina quando, nella surreale primavera del 2020 si era posto il problema della agibilità dei rifugi (e persino della percorribilità dei sentieri!) in pandemia. Ma di quel dibattito ricordo soprattutto l’incredibile spostamento del discorso da un tema di “sicurezza sanitaria” ad uno di “qualità dei servizi”. Come se un rifugio fosse un resort che doveva “garantire” uno “standard”.

Se ci pensate non è tanto diverso dal dibattito odierno. All’indomani del cataclisma (perché quello è stato) della Marmolada, il dibattito mediatico ha deviato la sua traiettoria da una urgente riflessione sugli effetti del cambiamento climatico (ovvero la causa), per concentrarsi sulla regolamentazione delle attività che si svolgono in quota, quasi fosse quello il problema. E al di là della deprecabile morbosità quando si conta la perdita di vite umana, la conclusione è stata che bisogna in qualche maniera “porre dei limiti”. Insomma, se del caso, vietare. E così mentre ci lamentiamo che mancano i cartelli o il rifugio non propone un adeguato menu, un giorno ci alzeremo e scopriremo che in montagna potremo andarci solo sulla base di un’autorizzazione emessa da qualcuno al quale avremo delegato la nostra capacità di scelta. E magari ci starà anche bene, nel frattempo.

Ma cosa c’entra tutto questo con il Nevee Outdoor Festival? Dopo due anni di stop forzato e con il rischio di perdere quell’atmosfera festosa (e la voglia di ricrearla) che aveva caratterizzato un’occasione del genere, quest’anno il NOF riparte. Dalle origini. Da quella che era la grande festa pensata da Leo (e per Leo) come un raduno di ragazze, ragazzi, bambini e adulti accumunati da quelle passioni in cui la Natura è parte integrante.

Il NOF di quest’anno si libera di programmi, percorsi segnati, tabelle e appuntamenti. Un unico, grande raduno di due giorni il cui cuore pulsante è il Rifugio Gilberti. A parte le attività organizzate per i bambini (da sempre elemento distintivo di questo ritrovo), il resto si svolgerà a schema libero. Avete un crash pad? Portatelo su, cercatevi un masso, massacratevi i polpastrelli per risolvere un blocco! Vi piace camminare? C’è un pianeta Canin da scoprire, vi basta un passo per entrare nel Parco Prealpi Giulie. Amate le vie a più tiri? Credo che in Giulie e forse nelle Alpi orientali non esista roccia come quella del Bila Pec. Ci sono inghiottitoi per chi vuole esplorare gli abissi, linee di slack da tirare, manca solo la neve quest’anno, ma speriamo si sia solo presa una pausa.

Cosa c’entra quindi il NOF? Il NOF vive un nuovo annozero, in cui ripensare tutto di nuovo. Che nel suo piccolo lancia un messaggio: viviamo la montagna per quello che è. Viviamo la Natura indipendentemente da una tabella, un programma, un pacchetto. Non facciamoci imboccare, incasellare, guidare. Se rinunciamo a questa autonomia, il cui altro lato è la responsabilità delle nostre azioni, avremo rinunciato – e per davvero – alla libertà. E non quella vuota, svogliata, libertà “di fare quello che voglio”, ma la libertà del prendersi cura di noi stessi, degli altri, dell’ambiente. Una libertà piena e consapevole.

Dipende da noi, ora più che mai.

Note: il NOF 2022 si terrà il 23 e 24 luglio a Sella Nevea. Le attività organizzate e guidate saranno dedicate esclusivamente ai bambini (under15), quali arrampicata, speleologia e slack line e partiranno dalla mattina di sabato (ore 10) al tardo pomeriggio (ore 17), analogamente la domenica. Il resto a schema libero, nella meravigliosa cornice della conca Prevala.

Info sul NOF al sito e sulla pagina Facebook

http://www.neveeoutdoorfestival.com/ https://www.facebook.com/NeveeOutdoorFestival

The Julian connection – scalate in letargo

di Emiliano Zorzi

A quanto pare l’inverno bussa alle porte e quindi la scalata su roccia si avvia al letargo, specialmente quella rivolta a nord. Dato il luogo in cui sono nate, profondamente giulio, e la connessione di eventi che hanno portato alla loro gestazione e svezzamento, No Pellarini – no patry e Pari o dispari, ormai attenderanno il disgelo 2022 per poter conoscere il mondo.

L’estate 2020 ne ha visto la nascita, l’estate 2021 le prime scalate da parte dei genitori e qualche sporadica visita di amici, parenti e aficionados; per quella del 2022 potranno camminare con le loro gambe…o meglio, far muovere le gambe dei futuri ripetitori che apprezzino le loro fattezze, ovvero:

  • camminata di due orette circa in ambienti solitari e idilliaco-severi allo stesso tempo;
  • scalata su quel caratteristico calcare duro e arcigno delle pareti ombrose giuliane;
  • presenza di bel tempo (possibilmente caldo) stabile data la lunghezza delle vie e delle discese.

Insomma un assaggio in chiave sportiva delle nord nostrane.

Nello specifico qualche notizia:

Quinta Rondine mt.1848 – No Pellarini, no party

380 m, 7a (obbl. 6b), 15 lunghezze

Relazione qui: http://quartogrado.com/friuli/Fuart/Quinta%20Rondine_No%20Pellarini%20no%20party.htm

Si sviluppa sulla parete a forma di pala, rivolta a nord-ovest, della Quinta Rondine. Queste rocce, ben visibili da tutta la Saisera, sovrastano il morbido ambiente boscoso e prativo della Sella Prasnig. Pur in questo quadro ameno, la scalata è a tratti arcigna, anche se sempre protetta sistematicamente a fix. Nei 15 tiri entra un po’ di tutto: lunghezze verticali-strapiombanti fisiche su roccia ottima, tratti di media difficoltà su simil-placca, qualche tratto molto facile su terreno sporco e/o friabile come tipico condimento del posto.

La via è stata conclusa in extremis pre-inverno nel novembre 2020, prima scalata a fine giugno 2021 (G. Barnabà, E. Zorzi, U Iavazzo), a cui sono seguite un paio di altre scalate di cui abbiamo notizia. Dopo la conclusione della via è stata individuata, sull’altro versante, una discesa “normale” (terreno selvaggio ma max. I e II) attrezzata con qualche sosta di calata e taglio di mughi, in modo da evitare una lunghissima serie di doppie lungo la via di salita.

Per circa 10 metri, la via incrocia Caccia al tesoro di Roberto Mazzilis e Lisa Maraldo. Un ringraziamento a Roberto che ci ha permesso di mettere due fix sulla sua via, per non creare un “buco” troppo lungo fra le protezioni di No Pellarini, no party.

Il nome deriva dalla festa di compleanno a sorpresa organizzata da benemeriti amici durante il soggiorno al rifugio.

Quinta Rondine – Nono tiro di “No Pellarini no party” – foto Archivio E.Zorzi

Cresta Berdo , Pilastro Gloria (top.proposto) mt 2076 Pari o dispari

350 m, 6c (obbl. 6b), 12 lunghezze

Relazione http://quartogrado.com/friuli/Montasio/Cresta%20Berdo_Pilastro%20Gloria_Pari%20o%20dispari.htm

Si svolge a cavallo del netto spigolo dello sperone che scende dalla Cresta Berdo verso il grandioso circo sottostante la parete nord del Montasio-Cima Verde. L’idea è nata a seguito della ripetizione di una via vicina (O là o rompi), alla vista dello spettacolare spigolo tagliamare, simile alla scura pinna di squalo. Per una mera casualità, le lunghezze dispari sono quelle caratterizzate da una scalata tecnicamente più impegnativa e “sportiva” su roccia ottima; quelle pari sono invece più adatte allo scalatore “classico”. Date le difficoltà inferiori su roccia sempre buona e ripulita ma che necessita di un po’ più di occhio.

La via è stata conclusa nell’agosto 2020; la prima salita (R. Geromet, E. Zorzi, M. Buzzinelli) è dell’agosto 2021 a cui sono seguite alcune altre ripetizioni note. Curiosamente (considerando che il luogo è molto isolato, lontano da sentieri battuti), qualcuno aveva già tentato la scalata della via prima della sua pubblicazione. Abbiamo rinvenuto una maglia rapida di calata verso la fine del quinto tiro. Lì il destino beffardo (per gli aspiranti ripetitori) ha voluto che la sosta si trovi nascosta alla vista a destra oltre uno spigoletto, mentre dritti sulla parete ci sono due tasselli senza piastrina (di un nostro tentativo abortito) che devono avere ingannato gli ignoti-ignari scalatori. Ora, post-letargo inverno 2021 e svezzamento, gli aspiranti potranno avere più fortuna.

Sul nono tiro di “Pari o Dispari” alla Cresta Berdo – foto Archivio E.Zorzi

Ritorno al Futuro – arrampicata “trad” sulle pareti del Pal Piccolo

di Saverio D’Eredità

Trad, tred…o cosa?

Si chiama “Trad” si legge “Tred”, ma gli alpinisti di un tempo mi direbbero “alla vecchia”! Sono poi così importanti le definizioni e le etichette quando si fa qualcosa, soprattutto quando lo si fa per passione e un pizzico d’amore? Del resto, un vecchio trucco del marketing è proprio quello di cambiare nomi alle cose per farle sembrare nuove. Ma noi, che esercitiamo sempre e comunque il libero pensiero, non ci faremo trarre in inganno. Parlare di arrampicata “trad” sulle pareti del Pal Piccolo come fosse qualcosa di nuovo, in effetti, è solo una mezza verità. Perché tutto sommato qui la storia era iniziata proprio così. Con un pugno di dadi (all’epoca si trattava soprattutto dei mitici “eccentrici” oggi quasi del tutto scomparsi dall’argenteria alpinistica, anche se le fessure carniche li apprezzerebbero ancora…), un po’di sana follia e tanto pelo sullo stomaco. Oggi lo chiamiamo “trad”, ci siamo anche dati delle regole (è un po’un vizio dei nostri tempi), ma dovremmo sempre guardare le cose più per come sono che non per come vogliono apparire. E scoprire che in ogni storia nuova c’è un seme antico.

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La Decima Alba – Torre Genziana

di Saverio D’Eredità

“Non è fame…è più voglia di qualcosa di buono” . Forse ricorderete questa celebre battuta di uno spot degli anni ’90 e del resto gli esperti di pubblicità sanno che tasto toccare. Ovvero quello della perenne indecisione sul concedersi o meno un piacere. Devo dire che il popolo di arrampicatori – antropologicamente mai sazio di piacere come giusto che sia per un’attività di per sé edonistica – spesso vive in questa costante indecisione. Non tutti, sia chiaro. Ma noi, alpinisti della domenica (o del sabato, a seconda), spesso ci avvitiamo tra la tentazione dell’ennesima grande impresa (nella nostra testa) o la voglia di rilassarsi un momento, rinunciare alla (peraltro rinunciabilissima) lotta coll’alpe e godersi una normale giornata di scalata alla ricerca, appunto del piacere. Continua a leggere

Viaggio a Uqbar

di Saverio D’Eredità

“Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia.” (J.L.Borges, “Finzioni”)

Verso la fine degli anni ’90 sulle pareti del Winkel Mario Di Gallo disegna due itinerari di ispirazione “borgesiana”. Pur diverse come tipologia di arrampicata, queste due vie hanno in comune la caratteristica di dipanarsi lungo linee effimere, appena intuibili. O forse inesistenti.

Alcuni anni fa, circa a metà della via “Rosacroce” smarrimmo improvvisamente la traiettoria di diedri e fessure, perfettamente scolpiti, della parte bassa per trovarci a cercare indizi in un mare di placche bombate ed imperscrutabili. Forse non fummo abbastanza attenti, o forse era questa la ragione del nome. Ci rimase il dubbio. Come di un sogno di cui ricordi qualcosa ma che più ci pensi e più ti sfugge. Rispetto a Rosacrcoe, “Viaggio a Uqbar” conserva lo stesso fascino surreale che proviene dall’immaginario del grande scrittore argentino, svolgendosi in senso apparentemente opposto alle linee naturali della parete. In effetti, quando a pochi metri dalle certezze offerte dai regolari diedri della “Guerrino Di Marco” ci si trova in equilibrio su queste placche delicate viene da pensare che tutto questo sia un assurdo gioco senza senso. La tentazione di darsi alla fuga è forte. Ma per trovare Uqbar bisogna rinunciare alle certezze e offrirsi all’immaginazione. Scoprendovi un’alternativa possibile. La grande placca di metà via, dove due fessure parallele consentono una traversata non facile, ma possibile riassume bene il senso della via e il fascino di queste scalate “surreali”.

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Erico Mosetti sui diedri iniziali di “Rosacroce” – foto S.D’Eredità

Questo pezzo di roccia – che insieme alla Chianevate e al Bila Pec possiede la roccia forse migliore che si può trovare in Friuli – offre salite di grande valore e sicura soddisfazione. Difficile non innamorarsene e altrettanto difficile resistere alla tentazione di tornarci ancora una volta. Non staremo a fare la contabilità, ma ci soffermeremo ancora una volta, increduli e riconoscenti sulla cengetta che come un salvacondotto porta fuori dalla parete. O sul grande altopiano sommitale, dove ci si risveglia come da uno strano contorto sogno che ci appare improvvisamente lontano. Ad ognuna si legherà un ricordo. Un giorno di compleanno, le chiacchiere in sosta con un amico, un tiro di corda particolare (sempre lo stesso, uguale nel tempo, che si ripete) e un piccolo errore. Cose senza importanza.

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Andrea Fusari sul breve traverso in placca del quarto tiro di “Viaggio a Uqbar” – foto S.D’Eredità

A ben vedere, su questa parete, non c’è una linea più ideale delle altre, come nei racconti di Borges è difficile capire quale mondo sia reale, se Uqbar o Tlon, e chi sta parlando di cosa o per conto di chi. Che ricorda che nell’arrampicare un po’tutto sia effettivamente possibile seppure non logico. E quindi, in fin dei conti, nemmeno così importante.

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In uscita dal tiro chiave di “Viaggio a Uqbar” – foto S.D’Eredità

Viaggio a Uqbar – Quota 2208 del Cavallo di Pontebba (parete Nord Est)

Una delle più belle salite del gruppo del Cavallo, aperta da M.Di Gallo e P.Pedrini nel 1995 segue una linea apparentemente non naturale nel centro della parete, ma che man mano svela una sua logica intrinseca alla ricerca di movimenti estetici su roccia di ottima qualità. Leggermente meno impegnativa della vicina “Rosacroce” anche se diversa come scalata, prevalentemente su placca tecnica e di equilibrio. Parzialmente attrezzata a spit alle soste e lungo il tiro chiave (2 spit e un provvidenziale lungo cordone che permette di assicurarsi sul passo più impegnativo), offre comunque eccellenti possibilità di protezione a friend di ogni misura. La via incrocia in due punti la classica “Guerrino” e quindi la possibilità di deviare in caso di necessità. Discesa (comoda) per la via Schiavi o la normale del Cavallo (preferibile ad inizio stagione).

Difficoltà: V, VI, due passi di VII-

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Sul penultimo tiro della via “Guerrino Di Marco” – foto S.D’Eredità

Succede, ogni tanto

di Saverio D’Eredità

Succede, ogni tanto. Di rado, ma succede. Che trovi una via da scalare dal primo all’ultimo tiro senza pensieri o paure, ma solo con la curiosità di sapere come sarà il prossimo, se la roccia sarà ancora così bella, generosa, multiforme. Che ti invita alla scoperta. Che ti dà dei segnali, ma non troppi e starà a te interpretare. Non farti prendere dall’ansia. Una soluzione si trova. Un metro a destra o uno a sinistra, non conta poi tanto se sotto di te i compagni non ti mettono fretta e la giornata scorre via leggera, con questo sole che scalda appena – lo apprezzi di più quando il vento che insiste a levigare questa prua si tace un istante. Succede, si. Che anche se siete tanti – è vero, anche stavolta l’abbiamo buttata in gita sociale: pazienza, per cambiare la Storia ci sarà tempo un’altra volta – e ci sarà da aspettare poco male, si approfitta per raccontarsi qualcosa, prendersi per il culo o osservare le grandi pareti attorno come una volta – e come vorremmo fosse sempre.

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La Torre di Babele – foto S.D’Eredità

Incuneata nel caotico, fantastico mondo dei Cantoni di Pelsa, la Torre di Babele mantiene un fascino discreto. Prendetela e mettetela al centro di una qualunque scena dolomitica: non sfigurerebbe certo. Però si vede che non ci tiene tanto. Le due sorelle terribili, la Venezia e la Trieste stanno lì a guardia della valle dei Cantoni, mostrando i loro profili. La Torre le lascia fare, ti lascia vedere questo spigolo affilato ed elegante senza strafare. E allora arrampicarsi lungo questa linea diventa un gesto quasi naturale.
Non ci è mancata l’avventura. La trovi in fondo ad un passaggio dove osservare bene la sequenza degli appigli come per risolvere un piccolo quesito logico, nel dosare bene l’attrezzatura, nel cercare di stare bene anche sospesi su una piccola cornice di pochi centimetri. Certe volte basta poco.
Succede, sì, ogni tanto. Non spesso,che poi ci si abitua male. E magari così si apprezzano di più queste giornate. L’importante è ricordarsene. Come diceva Kurt Vonnegut – “Quando siete felice, fateci caso”.

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Il bel diedro di quinto più nella parte alta della via, dopo la cengia mediana – foto S.D’Eredità

Torre di Babele, spigolo Sud, via Soldà
Una classica, ma non troppo classica, su una torre minore solo perchè confusa tra le altre bizzarre forme dei Cantoni di Pelsa, ma che in realtà appare elegante e slanciata. Sconta la minore visibilità rispetto alle vicine vie sulle ben più rinomate Torri Venezia e Torre Trieste, ma non per questo è ignorata. La Soldà risale con arrampicata elegante e fluida lo spigolo sud, su roccia ovunque ottima ed appigliata, oltre che ben proteggibile. Lungo la via si trovano soste e alcuni chiodi di passaggio, l’orientamento all’inizio non è scontato ma con logica si trovano i passaggi migliori. Molto bella la parte superiore in particolare i due tiri sopra la cengia mediana. Raggiunto l’intaglio che divide la cima vera e propria dal Pulpito di Babele si discende con 5 doppie in un orrido camino sul versante opposto.
350 mt,
diff.IV,V,V+, 1 p.VI-
Relazione sulla nuova edizione di Quartogrado – Dolomiti Or.li vol. 2 oppure su

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Il tiro chiave – una breve fessura leggermente strapiombante, in grande esposizione – foto S.D’Eredità

Dieci anni fa, Luca

di Saverio D’Eredità

Luca era uno che salutava. Che fosse lungo lungo il sentierino che sale allo Zacchi, ad una virata qualunque sugli altipiani del Canin o su un affollatissimo “Pellegrino” in un giorno di neve – da sempre, i migliori – Luca salutava. Ma non come tutti – quel saluto di sfuggita, strappato tra i denti, come un automatismo o consuetudine. No, Luca era uno che si fermava, a salutarti. In montagna ci si saluta quando si incrocia qualcuno. E’ una delle poche cose che veramente differenzia l’essere in montagna dall’essere al piano. Questa sorta di “rarità” – anche se avrai già incrociato decine di persone – del rapporto umano, è (ancora) un’esclusiva propria dell’andare per monti. E Luca questa specialità sapeva rispettarla sempre. Anche se era nel pieno della sua sgambata di allenamento e avrebbe potuto fumarti con il passo che aveva, invece no: si fermava anche solo due secondi per un saluto e anche un come va?

L’ho incrociato poche volte – troppo poche, mi verrebbe da dire – ma questa cosa mi è sempre rimasta. Non il curriculum – pazzesco – non la lista di prime salite o prime discese che pure siamo sempre qui a snocciolare ogni qualvolta si ricorda un’alpinista famoso. No, ogni volta che capita di parlare di Luca, o ricordarlo in qualche maniera (tra le righe di una guida in cui il suo nome compare vicino a scalate futuristiche su ghiaccio, o anche solo alzando lo sguardo verso quella capannina sul Buinz che porta il suo nome), a me viene sempre da dire – Luca Vuerich era uno che ti salutava. E magari ti chiedeva come va e si sprecava in un commento – anche sul Pellegrino, anche in una mattina di allenamento, ma senza l’isteria della tutina perché a lui come te, gitante qualunque, piaceva salire al Lussari nei giorni di neve che non puoi fare altro se non farti una bella sudata per poi con maggior piacere sederti da Jure, guardare i vetri appannati e la bufera e le stradine che scompaiono e ordinare uno jagertee.

Questo stesso giorno, dieci anni fa Luca Vuerich se ne andava a seguito di un incidente mentre scalava sotto il Prisojinik. Probabilmente uno, se non il, maggior talento alpinistico friulano degli ultimi vent’anni. Uno che attraverso le sue scalate, ma vorrei dire anche e soprattutto il suo modo di interpretare la montagna, ha fatto sempre respirare il lato migliore dell’alpinismo. Una perdita ancora non rimarginata. Una traccia ancora presente.

Perché sarebbe bello che qualche volta ricordassimo gli alpinisti non con quella noiosa lista di “prime”, ma per quello che erano come persone innanzitutto. E allora sarebbe da ricordarlo così. Luca Vuerich, un bravo ragazzo. Uno che in montagna, se ti incontrava – te che non eri nessuno – ti salutava. Sempre.

Il fuoco dell’anima – Andrea Di Bari con Luisa Mandrino

di Saverio D’Eredità

“L’incontro con la Montagna ha cambiato la mia vita”, “Il mio sogno era arrampicare” “L’arrampicata ha dato un senso alla mia esistenza”. Quante volte avremo letto nelle innumerevoli, ridondanti biografie di alpinisti e climber queste frasi? Quante di queste storie, in fin dei conti, si assomigliano, senza che possano trasmettere il vero pathos che è poi l’essenza del narrare?

Bene, se siete anche voi annoiati da una letteratura di montagna conformista e appiattita, dove personaggi che – specie nel mondo attuale – hanno ben poco di interessante a parte talento e – evidentemente – una grande disponibilità di risorse (economiche e non), leggetelo, il libro di Andrea Di Bari scritto a quattro mani con Luisa Mandrino (ed. Il Corbaccio, 2018). Perchè nella storia di uno dei più importanti ed influenti scalatori italiani, venuto su nella piccola borghesia di una borgata romana, si trova forse un significato più sincero di ciò che l’arrampicata può rappresentare nella vita di un ragazzo. Continua a leggere

Tra-monti di Mare – nuova via sul Pupo in Marmarole

di Gianmario Meneghin (Ghin)

Bello sarebbe poter fare una via Nuova con uno dei tuoi più cari amici, ma quando uno di questi tuoi amici va avanti,puoi solo serbare nel cuore il ricordo delle cose fatte assieme,fatiche,soddisfazioni,rischi calcolati ,pericoli scampati ,giornate passate assieme ad allenarsi e serate a raccontare e a raccontarsi.

Un modo che la gente come noi usa per ricordare un amico è dedicargli una via Nuova in montagna e così ho pensato di fare io per ricordare Alessandro Marengon “MARE” come lo chiamiamo, Mare è andato avanti assieme ad Enrico Frescura facendo il canalone Oppel sul monte Antelao.

Aprire una via Nuova sul Pupo (di Baion per i baruffanti di Domegge e di San Lorenzo o di Lozzo per i mosite) era una cosa che avrei voluto sempre fare,un po’ perche è una guglia stupenda nel cuore delle Marmarole e un po’ perché è molto vicino alla baita costruita da mio padre a Pian dei Buoi dove sono cresciuto e dove passo molto del mio tempo libero. Ricordare Mare ha messo assieme le cose

Aiutato da mio cognato Giancarlo Dalla Fontana, alpinista ed ex membro del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico, senza dimenticare il suo ruolo di Vice Rettore dell’Università di Padova, ho portato il materiale fino alla base della parete e poi in autosicura durante due sabati pomeriggio e un giovedì rubato al lavoro ho chiodato dal basso questi 7 tiri protetti in maniera sportiva.

É sicuramente una via senza pretese ma il tiro del tetto dopo la cengia mediana e la partenza di quello dopo se passati in libera possono essere”ingaggianti”.Non sapevo come chiamare questa via ma durante un tramonto proprio mentre ero appeso sul tiro del tetto mi ha fatto scegliere per “TRA-MONTI DI MARE…” a chi lo conosceva lasciamo l’interpretazione….

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Marmarole Gruppo Ciastelin

cima “Pupo”m.2371

Via “Tra-Monti Di MARE”

Dedicata a Alessandro Marengon (MARE)

 

Notizie generali

Il “PUPO”che sia chiamato di Bajon, di San Lorenzo o di Lozzo è rappresentato da una guglia di circa 150 metri dal inequivocabile forma nel cuore delle marmarole che sovrastano il Pian Dei Buoi e la zona del rif.Bajon.

Conteso fra i due comuni (Domegge e Lozzo) è stato (ahimè) ceduto nel 1953 dal Comune di Domegge al Comune di Lozzo in cambio di pascoli,resta in ogni caso il simbolo sia del Pian dei Buoi che Di Bajon.

Avvicinamento e punti di appoggio

Per strada carrozzabile dal Comune di Lozzo di Cadore (BL) si segue per 12 km la strada asfaltata a una corsia,(che in luglio e agosto è a senso unico alternato si sale dalle 9 alle 13 e si scende dalle 14 alle 17 e per il resto degli orari è a doppio senso)Arrivati al Pian dei Buoi si può optare per andare verso il rif.Ciareido lasciando la macchina nel parcheggio alla base della strada che porta allo stesso,oppure si può andare al rif. Bajon per strada carrozzabile sterrata.

Se salite verso il Ciareido poco prima dello stesso trovate bivio che girando a sinistra porta tramite un pezzo di mulattiera al sentiero che sale verso destra per il pupo e le altre pareti(ometto),circa 40 minuti.

Se salite dal Bajon prendete il sentiero C.A.I.272 che dal rifugio va verso il Pupo ,seguite il sentiero alto che riporta verso Pian dei Buoi e poi tagliate su a sinistra per tracce di sentiero circa in un ora siete alla base

Relazione tecnica

La via è chiodata interamente a spit da 10 mm con aggiunta di un chiodo e una clessidra,le soste sono tutte a spit con catena e anello di calata,nei tiri piu facili le protezioni sono un pò piu distanti ma volendo si può integrare con friend medi.

Attacco della via targhetta con nome

  1. 30 metri 6 spit+clessidra quarto grado
  2. 15 metri 4 spit partenza di quinto grado poi quarto più
  3. 20 metri 5 spit + chiodo bong 6a
  4. 15 metri 3 spit partenza di quinto poi quarto grado
  5. 15 metri 10 spit partenza molto strapiombante7a+/7b poi 6b+/6c
  6. 25 metri 11 spit partenza impegnativa 7a/7a+ poi 6b
  7. 30 metri fino alla cima 6 spit 6a

Discesa

La discesa può essere fatta giu per la via di salita fino alla cengia mediana poi camminando verso sinistra faccia alla parete fino in forcella,oppure con due doppie per il versante nord.Ci si abbassa verso la forcella su di uno spit con maglia rapida proprio sulla cima e per alcuni metri fino a trovare la prima calata con sosta a catena,da questa calandosi verso destra con la faccia alla parte dopo una ventina di metri si trova la seconda catena su una evidente cengia e da li con una calata da 40 metri fino in forcella poi per facili roccette fino alla base del pupo(primo grado).Usare corda da 80 o gemelle per le doppie a nord.Tutte le soste della via sono con catena e maglia rapida grossa,avevo lasciato un moschettone a ghiera sulla ultima sosta in cima per le doppie e qualche brillante scienziato lo ha già rubato…stramberie.

Pupo_baion (1)