Incompleta

di Nicola Narduzzi

È una montagna incompleta quella che ci circonda, stagliata nel cielo terso di un autunno senza fine.
Tardi, troppo tardi siamo usciti dall’ombra della parete. Il sole è già basso sull’orizzonte e le valli sono ormai sprofondate nella notte. Le gambe fanno male. La mente è stanca, svuotata. In bilico tra luce e ombra, tra autunno e inverno ci facciamo strada lungo la cresta. A destra le pareti di calcare si infiammano baciate da un sole che sembra non appartenere a questa stagione. A sinistra l’inverno cerca di sopravvivere all’attacco incessante dell’anticiclone rintanandosi sempre più in profondità nella montagna.

Siamo in alto, ancora troppo in alto per poter sperare di scendere alle ultime luci del giorno. Il ritorno alla luce delle frontali sarà la logica conseguenza di un calcolo errato delle ore, o forse
semplicemente la dimostrazione della nostra incapacità. Forse dovremmo essere preoccupati, eppure senza fretta troviamo la nostra strada tra le guglie di quel calcare fratturato che solo la Carnia sa regalare. Siamo tranquilli, siamo amici e abbiamo vissuto un’avventura insieme. Siamo felici, oppure forse semplicemente troppo stanchi per preoccuparci davvero di qualcosa che non sia una doccia calda e un letto dove riposare.
Stufi di aspettare il compimento di una stagione ormai evidentemente incompiuta ci siamo fatti strada tra i prati riscaldati da un insolito sole.

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La cresta del ritorno

Attraverso la linea d’ombra che segna il confine dell’inverno siamo penetrati nel cuore oscuro e antico della montagna. Abbiamo camminato tra le macerie di tempi lontani, calpestato le ceneri di promesse infrante, lì dove bastioni minacciosi e cupi si ergono a difesa degli ultimi testimoni di un’altra epoca.
“Adesso dobbiamo andare fuori per fuori!” Questo è il comando che ci siamo scambiati reciprocamente mentre Saverio deponeva nello zaino la corda. L’ora tarda era un giudice implacabile: abbiamo peccato di presunzione, convinti della nostra bravura a superare le rocce levigate da antiche glaciazioni. Cercando di recuperare il tempo perso abbiamo spinto più che potevamo attraverso i pendii innevati e le rocce non ancora saldate dal gelo, ma alla fine ancora una volta ci eravamo scontrati con le nostre capacità. Valutando una discesa al buio come un prezzo giusto da pagare per essere più sicuri, abbiamo riesumato la corda e Saverio si è confermato ancora una volta una guida sicura nell’ombra invernale.

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Fuori dal cono d’ombra – Chianevete, parete Nord via Grohmann

Ora, mentre il cono d’ombra si allunga verso le valli austriache e il freddo cerca di riconquistare lo spazio che gli compete, mi sento al contempo distaccato e parte della bellezza che mi circonda. Le cime infiammate dal tramonto si spengono lentamente e nella loro bellezza eterna ed immobile
sembrano superiori a qualsiasi abbandono ed a qualsiasi stagione.  A questa bellezza appartengo anche io e per un lasso di tempo che per le montagne è un’istante, mi sento completo.
Quassù, sull’ultimo baluardo della cresta, neanche il senso di incompletezza della salita ha importanza. D’altronde, a qualcuno davvero può interessare che i lunghi tratti di rocce affioranti mal si adattano al termine “invernale” che una salita di questo tipo esige? Certe parole servono solo a ingabbiare qualcosa che invece dovrebbe liberare. L’unica cosa che sembra avere senso adesso è il dolore alle gambe, la spossatezza che accompagna ogni gesto e la consapevolezza che la giornata per noi è ancora lontana dalla conclusione. Volevo dimenticare quel senso di incompletezza che mi avvolge, che avvolge l’intera montagna, e ci sono riuscito. In fondo forse niente ha davvero un senso, ma a volte semplicemente scali una montagna o fai sesso e per un istante ti senti completo, e questo mi basta.

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Ritorno dalla Creta di Chianevate

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